Sei mesi di COVID-19: i misteri ancora irrisolti

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Ewen Callaway, Heidi Ledford e Smriti Mallapaty/Nature
Dall’immunità al ruolo della genetica, dall’origine del contagio allo sviluppo di mutazioni: “Nature” riassume gli interrogativi ancora aperti sul nuovo coronavirus e la malattia di cui è responsabile, a oltre sei mesi dalle prime segnalazioni e con un numero di casi confermati nel mondo che supera gli undici milioni e mezzo.
I ricercatori hanno isolato i coronavirus dei pangolini malesi (Manis javanica) confiscati durante le operazioni anti contrabbando nella Cina meridionale. Questi virus condividono fino al 92 per cento dei loro genomi con il nuovo coronavirus. Gli studi confermano che i pangolini possono ospitare i coronavirus che condividono un antenato comune con SARS-CoV-2, ma non provano che il virus sia passato dai pangolini alle persone.

Per rintracciare inequivocabilmente il viaggio del virus verso gli esseri umani, gli scienziati dovrebbero trovare un animale che ospiti una versione simile a SARS-CoV-2 per più del 99 per cento, una prospettiva complicata dal fatto che il virus si è diffuso così ampiamente tra le persone, che è stato trasmesso anche ad altri animali, come gatti, cani e visoni d’allevamento.

Zhang Zhigang, microbiologo evoluzionista dell’Università dello Yunnan a Kunming, dice che gli sforzi dei gruppi di ricerca in Cina per isolare il virus dal bestiame e dalla fauna selvatica, compresi gli zibetti, si sono rivelati inutili. Anche gruppi di ricercatori del Sud-est asiatico stanno cercando il coronavirus in campioni di tessuto di pipistrelli, pangolini e zibetti.Alla fine di dicembre 2019, sono emerse le notizie di una misteriosa polmonite a Wuhan, in Cina, una città di 11 milioni di abitanti nella provincia sudorientale di Hubei. La causa, hanno rapidamente stabilito gli scienziati cinesi, era un nuovo coronavirus lontanamente imparentato con il virus della SARS emerso nel 2003 in Cina prima di diffondersi a livello globale e uccidere quasi 800 persone.

Dopo sei mesi e più di undici milioni e mezzo di casi confermati [aggiornati al 7 luglio 2020, NdR], la pandemia COVID-19 è diventata la peggiore crisi di salute pubblica dell’ultimo secolo, con più di 500.000 decessi in tutto il mondo. La crisi ha anche catalizzato una rivoluzione nella ricerca, poiché scienziati, medici e altri studiosi hanno lavorato a ritmo serrato per capire COVID-19 e il virus che ne è la causa: SARS-CoV-2.Hanno imparato in che modo il virus entra nelle cellule per soggiogarle, in che modo alcune persone lo combattono e in che modo alla fine altre ne rimangono uccise. Hanno identificato i farmaci che aiutano i pazienti più malati, e molti altri potenziali trattamenti sono in fase di studio. Hanno anche sviluppato quasi 200 potenziali vaccini, il primo dei quali potrebbe dimostrare la sua efficacia entro la fine dell’anno.

Tuttavia, per ogni dato acquisito su COVID-19, emergono altri interrogativi, e altri ancora rimangono in sospeso. È così che funziona la scienza. A sei mesi da quando il mondo è venuto a conoscenza per la prima volta della malattia responsabile della pandemia, “Nature” si sofferma su alcune delle domande chiave alle quali i ricercatori non hanno ancora dato una risposta.

Perché le persone reagiscono in modo così differente?
Uno degli aspetti che più colpiscono di COVID-19 è la notevole variabilità nella malattia sviluppata. Alcune persone non sviluppano mai sintomi, mentre altre, spesso apparentemente sane, hanno una polmonite grave o addirittura mortale. “Le differenze nell’esito clinico sono impressionanti”, dice Kári Stefánsson, genetista e amministratore delegato di DeCODE Genetics, un’azienda di Reykjavik, il cui team sta cercando varianti di geni umani che potrebbero spiegare alcune di queste differenze.
Questa ricerca è stata ostacolata dal numero relativamente basso di casi emersi in Islanda. Ma il mese scorso, un team internazionale che ha analizzato i genomi di circa 4.000 persone provenienti dall’Italia e dalla Spagna ha scoperto i primi forti legami genetici con i casi gravi di COVID-19. Le persone che hanno sviluppato insufficienza respiratoria avevano più probabilità di essere portatrici di una di due particolari varianti genetiche rispetto alle persone senza la malattia.

Una variante si trova nella regione del genoma che determina il gruppo sanguigno ABO. L’altra è vicina a diversi geni, tra cui uno che codifica per una proteina che interagisce con il recettore usato dal virus per entrare nelle cellule umane, e altri due che codificano le molecole legate alla risposta immunitaria contro gli agenti patogeni. I ricercatori fanno parte della COVID-19 Host Genetics Initiative, un consorzio globale di gruppi che stanno mettendo in comune i dati per convalidare i risultati e scoprire ulteriori legami genetici.

Le varianti identificate finora sembrano avere un’influenza modesta nell’esito della malattia. Un team guidato da Jean-Laurent Casanova, immunologo della Rockefeller University di New York, è alla ricerca di mutazioni che abbiano un ruolo più sostanziale.

Per trovarle, il suo team sta setacciando tutti i genomi di persone sotto i 50 anni altrimenti sane che hanno avuto gravi sintomi di COVID-19, racconta, come “il ragazzo che ha corso una maratona a ottobre, e ora, cinque mesi dopo, è in terapia intensiva, intubato e ventilato”. Anche l’estrema suscettibilità ad altre infezioni, tra cui la tubercolosi e il virus di Epstein-Barr, un agente patogeno solitamente innocuo che a volte causa gravi malattie, è stata attribuita a mutazioni di singoli geni. Casanova sospetta che lo stesso sarà vero per alcuni casi di COVID-19.

Qual è la natura dell’immunità e quanto dura?
Gli immunologi stanno lavorando febbrilmente per determinare quale potrebbe essere l’immunità a SARS-CoV-2 e quanto potrebbe durare. Gran parte dello sforzo si è concentrato sugli “anticorpi neutralizzanti”, che si legano alle proteine virali e prevengono direttamente l’infezione. Alcuni studi hanno mostrato che i livelli di anticorpi neutralizzanti contro il SARS-CoV-2 rimangono elevati per alcune settimane dopo l’infezione, ma poi iniziano a diminuire. Tuttavia, questi anticorpi possono rimanere a livelli alti più a lungo nelle persone che hanno avuto infezioni particolarmente gravi.

“Quanto più virus c’è, tanto più numerosi sono gli anticorpi e tanto più durano”, spiega l’immunologo George Kassiotis del Francis Crick Institute di Londra. Correlazioni simili sono state osservate anche con altre infezioni virali, tra cui la SARS (sindrome respiratoria acuta grave). La maggior parte delle persone che hanno avuto la SARS ha perso i propri anticorpi neutralizzanti dopo pochi anni. Ma chi l’aveva contratta in modo molto grave aveva ancora gli anticorpi quando è stato riesaminato 12 anni dopo, dice Kassiotis.

I ricercatori non sanno ancora quale livello di anticorpi neutralizzanti sia necessario per combattere la reinfezione da SARS-CoV-2, o almeno per ridurre i sintomi della COVID-19 in una seconda malattia. E altri anticorpi potrebbero essere importanti per l’immunità. Il virologo Andrés Finzi dell’Università di Montreal, per esempio, ha in programma di studiare il ruolo degli anticorpi che si legano alle cellule infette e li marcano perché siano eliminate dalle cellule immunitarie – un processo chiamato citotossicità cellulare anticorpo-dipendente – nelle risposte al SARS-CoV-2.

In definitiva, è probabile che un quadro completo dell’immunità alla SARS-CoV-2 vada oltre gli anticorpi. Altre cellule immunitarie chiamate linfociti T sono importanti per l’immunità a lungo termine, e gli studi suggeriscono che anch’essi siano mobilitati contro SARS-CoV-2. “Si stanno equiparando gli anticorpi all’immunità, ma il sistema immunitario è una macchina meravigliosa”, dice Finzi. “È molto più complesso dei soli anticorpi”.

Poiché non esiste ancora un marcatore chiaro e misurabile nel corpo che sia correlato con l’immunità a lungo termine, i ricercatori devono mettere insieme il mosaico delle risposte immunitarie e confrontarlo con le risposte alle infezioni di altri virus per stimare quanto possa essere duratura la protezione. Studi di altri coronavirus suggeriscono che “l’immunità sterilizzante”, che previene l’infezione, potrebbe durare solo pochi mesi. Ma l’immunità protettiva, che può prevenire o alleviare i sintomi, potrebbe durare più a lungo, dice Shane Crotty, virologo del La Jolla Institute of Immunology, che ha sede in California.

Il virus ha sviluppato mutazioni preoccupanti?
Tutti i virus mutano quando infettano le persone, e SARS-CoV-2 non fa eccezione. Gli epidemiologi molecolari hanno utilizzato queste mutazioni per tracciare la diffusione globale del virus. Ma gli scienziati sono anche alla ricerca di cambiamenti che ne influenzino le proprietà, per esempio rendendo alcuni ceppi più o meno virulenti o trasmissibili. “È un nuovo virus: se diventasse più grave, vogliamo saperlo”, dice David Robertson, biologo computazionale dell’Università di Glasgow, il cui team sta catalogando le mutazioni di SARS-CoV-2. Quelle mutazioni potrebbero anche diminuire l’efficacia dei vaccini, alterando la capacità degli anticorpi e dei linfociti T di riconoscere l’agente patogeno.

Ma la maggior parte delle mutazioni non avrà alcun impatto, e individuare quelle nocive è una sfida. Le versioni del coronavirus identificate all’inizio dell’epidemia in zone critiche come la Lombardia in Italia o a Madrid, per esempio, potrebbero sembrare più letali di quelle trovate in fasi successive o in altre località. Ma tali associazioni sono probabilmente spurie, dice William Hanage, epidemiologo della T.H. Chan School of Public Health dell’Università di Harvard: le autorità sanitarie hanno maggiori probabilità di identificare casi gravi nelle fasi iniziali e incontrollate di un’epidemia. Un’ampia diffusione di alcune mutazioni potrebbe anche essere dovuta agli “effetti del fondatore”, in cui i ceppi che emergono precocemente in centri di contagio come Wuhan o nell’Italia settentrionale hanno una mutazione che si trasmette quando seminano focolai altrove.

I ricercatori stanno discutendo se la prevalenza diffusa di una mutazione nella proteina del virus sia il prodotto di un effetto del fondatore o un esempio di un cambiamento dovuto alla biologia del virus. La mutazione sembra essere emersa per la prima volta intorno a febbraio in Europa, dove ora la maggior parte dei virus in circolazione ne è portatrice, e che adesso si trova in ogni regione del mondo. Una serie di studi ha suggerito che questa mutazione rende il virus SARS-CoV-2 più contagioso per le cellule coltivate, ma non è chiaro come questa proprietà si traduca in infezioni nell’uomo.

Quanto funzionerà un vaccino?
Un vaccino efficace potrebbe essere l’unico modo per uscire dalla pandemia. Attualmente ce ne sono circa 200 in sviluppo in tutto il mondo, con una ventina sottoposti a studi clinici. Le prime prove di efficacia su larga scala per scoprire se i vaccini funzionano inizieranno nei prossimi mesi. Questi studi confronteranno i tassi di infezione da COVID-19 tra chi riceve un vaccino e chi riceve un placebo.
Ma ci sono già indicazioni nei dati degli studi sugli animali e delle prime fasi di sperimentazione sugli esseri umani, soprattutto per quanto riguarda la sicurezza dei test. Diversi gruppi hanno condotto alcuni challenge trial in cui gli animali cui è stato somministrato un candidato vaccino sono intenzionalmente esposti a SARS-CoV-2 per vedere se il vaccino può prevenire l’infezione. Gli studi sui macachi suggeriscono che i vaccini potrebbero fare un buon lavoro nel prevenire l’infezione polmonare e la conseguente polmonite, ma non nel bloccare l’infezione in altre parti del corpo, come il naso. Le scimmie che hanno ricevuto un vaccino sviluppato dall’Università di Oxford, e sono state poi esposte al virus, avevano livelli di materiale genetico virale nel naso paragonabili a quelli degli animali non vaccinati. Risultati come questo aumentano la possibilità di avere un vaccino per COVID-19 che è in grado di prevenire gravi malattie ma non la diffusione del virus.

I dati negli esseri umani, anche se scarsi, suggeriscono che i vaccini per COVID-19 inducono il nostro corpo a produrre potenti anticorpi neutralizzanti che possono impedire al virus di infettare le cellule. Ciò che non è ancora chiaro è se i livelli di questi anticorpi sono abbastanza alti da fermare nuove infezioni, o per quanto tempo queste molecole persistono nell’organismo.

Con le nazioni e le industrie che investono miliardi nello sviluppo, nei test e nella produzione di vaccini, un vaccino potrebbe essere disponibile in tempi record, dicono gli scienziati, ma potrebbe non essere completamente efficace. “Potremmo avere vaccini per uso clinico che funzionano sulle persone entro 12 o 18 mesi”, ha detto lo scorso maggio a “Nature” Dave O’Connor, virologo dell’Università del Wisconsin-Madison. “Ma dovremo migliorarli”.

Qual è l’origine del virus?
La maggior parte dei ricercatori concorda che il coronavirus SARS-CoV-2 ha probabilmente avuto origine dai pipistrelli, in particolare dai pipistrelli detti ferro di cavallo. Questo gruppo ospita due coronavirus strettamente correlati a SARS-CoV-2. Uno, denominato RATG13, è stato scoperto in pipistrelli ferro di cavallo (Rhinolophus affinis) intermedi nella provincia cinese sud-occidentale dello Yunnan nel 2013. Il suo genoma è identico al 96 per cento a quello di SARS-CoV-2. La seconda corrispondenza più precisa è RmYN02, un coronavirus trovato nei pipistrelli ferro di cavallo malesi (Rhinolophus malayanus), che condivide il 93 per cento della sua sequenza genetica con SARS-CoV-2.

Anche un’analisi completa di oltre 1200 coronavirus prelevati da pipistrelli in Cina individua i pipistrelli ferro di cavallo dello Yunnan come probabile origine del nuovo coronavirus. Ma lo studio non esclude la possibilità che il virus provenga da pipistrelli ferro di cavallo di paesi vicini, tra cui Myanmar, Laos e Vietnam.

La differenza del 4 per cento tra i genomi di RATG13 e di SARS-CoV-2 rappresenta decenni di evoluzione. I ricercatori dicono che questo suggerisce che il virus potrebbe essere passato attraverso un ospite intermedio prima di contagiare le persone, allo stesso modo in cui si pensa che il virus che causa la SARS sia passato dai pipistrelli ferro di cavallo agli zibetti prima di raggiungere le persone. All’inizio dell’epidemia, sono stati ipotizzati anche altri candidati ospiti animali, con diversi gruppi di ricerca che puntavano ai pangolini.
di Smriti Mallapaty/NatureL’origine animale del coronavirus è ancora incerta

Immagine al microscopio di cellule (in verde) infettate dal nuovo coronavirus (in arancione; ©NIAD)
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