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di Luca Billi – 19 ottobre 2017
Molti di noi hanno praticato in gioventù una forma autogestita – e sostanzialmente illegale – di alternanza scuola-lavoro, ossia andavamo regolarmente a scuola e poi, a volte il pomeriggio, qualche volta il fine settimana, più spesso durante i mesi estivi, facevamo qualche lavoretto. Piccole cose, a volte per aiutare i nostri genitori nelle attività di famiglia, ma spesso anche fuori, e sempre senza tante formalità burocratiche. Guadagnavamo poco ovviamente, ma di quel poco eravamo contenti perché ci dava un senso di autonomia, più illusoria che reale. Non è che fossero momenti particolarmente formativi, non imparavamo certo un mestiere, ma scoprivamo il mondo del lavoro con le sue regole.
Imparavamo che dovevamo essere puntuali e che dovevamo fare il meglio possibile quello che ci veniva chiesto e che per quell’impegno dovevamo ottenere un compenso. Imparavamo anche che se chi lavorava con noi lo faceva poco o male, questo si ritorceva prima di tutto contro di noi: una cosa che avremmo imparato anche nel posto di lavoro “normale”. In sostanza imparavamo il rispetto.
Eravamo sfruttati? Potevamo esserlo, ma i nostri “padroni” non erano McDonald’s, erano in genere persone che i nostri genitori conoscevano – e magari i nostri genitori erano a loro volta i “padroni” dei loro figli – e le famiglie esercitavano – in questo come nel resto della nostra vita – un forte controllo sociale; e infatti se combinavamo qualcosa sul posto di lavoro la cosa che dovevamo temere di più erano le “reazioni” dei nostri genitori una volta tornati a casa.
Anche al netto della nostalgia che gioca sempre brutti scherzi, credo che quelle esperienze ci siano state, tutto sommato, utili. Curioso che tocchi a un comunista come me rimpiangere e lodare questa forma di sregolato proto-liberismo.
Proprio alla luce di queste mie lontane esperienze, sono solidale con le ragazze e i ragazzi che protestano contro l’alternanza scuola-lavoro prevista dalla cosiddetta “buona scuola”. Perché i ragazzi non vengono pagati per quello che fanno e perché c’è pochissimo controllo su come vengono impiegati e su cosa effettivamente imparano. In sostanza la “buona scuola” ha offerto alle aziende una massa di ragazzi da impiegare, senza alcun costo, in lavori stupidi, ripetitivi, pesanti che comunque qualcuno avrebbe dovuto fare dietro retribuzione. Gli unici che ci guadagnano da questa operazione sono i padroni, dimostrando ancora una volta quanto l’azione di questo governo sia schiettamente di classe.
Questa alternanza insegna ai ragazzi che il loro ruolo all’interno del mondo del lavoro è quello degli sfruttati, che il loro lavoro non vale nulla perché non deve essere pagato e che loro non valgono nulla, perché possono essere rimpiazzati da altri. Esattamente quello che avviene per molti nel lavoro “vero”. E così la “buona scuola” è il jobs act insegnato ai giovani.
Ragazzi, benvenuti nel mondo.