Fonte: La stampa
Elly Schlein esce dall’aula di Montecitorio con l’aria del giocatore tenuto a lungo in panchina. Quello che entra, segna, i compagni lo guardano come avesse fatto il miracolo e gli si fanno intorno festanti.
Alla Camera è andata – insospettabilmente – così. E per la prima volta dopo settimane di divisioni e veleni, i deputati del Partito democratico hanno guardato con occhi nuovi la segretaria. Come per dire: «Ma allora può farcela davvero». Una campagna elettorale non è un botta e risposta in Parlamento, su un tema scelto bene, perché sulla Sanità i trucchi dialettici di Giorgia Meloni servono a poco. Non sarà certo sempre così facile, colpire e affondare, eppure la misura, la grinta, il tempismo, durante il premier time per la prima volta sono venuti fuori.
I tempi in politica sono tutto. Quelli che la segretaria dem ha sbagliato fin qui, li ha azzeccati ieri. E non si è trattato solo della prova generale di un dibattito televisivo, ma del primo tempo di una sfida nel Paese. «Destra letale» sulla sanità, Meloni «regina dell’austerità», nessuna parola è lasciata al caso. Un giovane cronista chiede alla leader dem se pensasse alla «Regina del celebrità» degli 883. Lei sorride, il paragone non la infastidisce, del resto ha appena segnato un gol ed è chiaramente felice di aver dimostrato alla squadra quanto vale. Quanto può valere. Spiega di aver scelto la sanità come tema perché ovunque vada, è quello che incontra: la sofferenza delle persone alle prese con liste d’attesa e ospedali fatiscenti. Non ha divagato come Giuseppe Conte, ha tenuto un filo, e ha teso una trappola in cui la premier è caduta.
«La prego, non mi chieda perché queste cose non le abbiamo fatte noi, perché io al governo non sono ancora stata. E perché lei non è più il capo dell’opposizione». Meloni risponde pronta: «Non glielo dico, ma le dico che sono felice di tutta la fiducia che avete in noi visto che ci chiedete di risolvere quel che non avete risolto in 10 anni di governo». Poi cita quella data, il 2009, in cui è stato messo il blocco delle assunzioni in sanità. E Schlein affonda: «Sa chi era al governo nel 2009? C’era lei, lei era ministra di quel governo».
Il labiale di Meloni dice: «Dei giovani». La premier sembra quasi aver dimenticato – nella narrazione da underdog costruita fin qui – il lungo periodo in cui è stata in maggioranza e al governo con Silvio Berlusconi. È come se avesse rimosso quella storia, ed è questa rimozione che ieri l’ha fatta sbagliare. Ma c’è più di questo: nonostante la dialettica pronta, l’astuzia e l’abilità politica, per la premier Schlein è un animale strano. Che non sa bene dove colpire. I suoi attacchi sono feroci nei confronti di Giuseppe Conte. Il suo fastidio verso il leader del Movimento 5 stelle, evidente. Plateale. «Capita anche a voi che se chiedete l’ora a Meloni, lei risponda: e il superbonus?», scherza il leader M5s in Transatlantico.
Quando Meloni guarda Schlein, invece, nei suoi occhi c’è un misto di curiosità e attenzione. I colpi assestati – rivolti alla sinistra che ha governato senza risolvere nulla – vanno a vuoto, perché la segretaria dem non appartiene a quel passato ed è proprio per questo che le primarie l’hanno portata dov’è.
I tempi, si diceva. Finora sono mancati soprattutto quelli. Il linguaggio di Schlein si è fatto ieri più diretto, meno impostato, più comprensibile. Quasi troppo, quando cita «la balla dei tre miliardi in più» sul fondo sanitario. Ma l’indecisione dentro cui ha consumato la sua possibile candidatura alle Europee l’ha messa in una condizione quasi impossibile. Su questo giornale abbiamo scritto per primi, lo scorso 6 settembre, che sia lei che Meloni erano tentate di correre in tutti i collegi per le Europee, pur senza avere intenzione di trasferirsi a Bruxelles, ma solo per misurare ognuna la propria forza. Non hanno confermato né smentito per mesi, solo che la premier se lo poteva permettere – alla fine la destra si acconcerà – la segretaria Pd no. Perché guida un partito sempre pronto a far scattare gli anticorpi, perché per lei sarebbe una scelta molto meno consona alla leadership di gruppo promessa, perché ha dato tempo ai vari maggiorenti di dire che non è una buona idea.
Schlein doveva scegliere il giorno dopo, poteva prendersi al massimo una settimana e motivare quella scelta, qualunque fosse. Solo così, forse, lo psicodramma nel partito non sarebbe cominciato. O non avrebbe fatto tanti danni. Doveva fare in modo che non la vedessero arrivare, per usare una frase a lei cara. Non tentennare fino a far venir fuori perfino padri nobili come Romano Prodi o Pier Luigi Bersani contro l’idea di candidarsi per un posto in cui poi non si va.
Adesso è molto più complicato. Adesso deve trovare un modo di fare quel che vuole, senza dare l’idea di correre contro il presente e la storia del partito che è stata chiamata a guidare. E deve trovarlo in fretta, perché il Pd non è mai stato così vicino al precipizio. L’idea di un Gentiloni federatore attraverso Vincenzo Amendola è quanto di più lontano abbiano scelto le primarie. Chi mette in conto il fallimento di Schlein, ha troppa fiducia nella resilienza di una formazione politica che ne ha già vissute tante. Forse troppe. Serve lo spirito di squadra che ieri ha portato Debora Serracchiani ad andare verso la segretaria e suggerire: «Guarda che nel 2009 c’era lei!», durante la risposta di Meloni, se davvero i dem vogliono restare in vita. E della squadra, Schlein, deve decidersi a fare l’allenatore.