Fonte: Il Fatto Quotidiano
Scarpinato: “In cella solo i poveri. Per gli altri la politica fa sempre scudo”
Carceri, un disastro continuo nato da leggi e riforme classiste
La questione carceraria nel nostro paese è un’emergenza cronica che si ripropone nel tempo negli stessi termini. I provvedimenti tampone si susseguono, ma il carcere resta incivile e degradante. Come si spiega questa cronica irredimibilità? La risposta si trova nelle statistiche del Dap sulla composizione sociale della popolazione detenuta. La percentuale di colletti bianchi condannati con sentenza definitiva, è statisticamente così irrisoria che in alcuni anni non viene nemmeno quotata. Nel 2014 su 60.000 detenuti, i condannati per corruzione e reati economici erano 86. Significativa è la comparazione con altri paesi europei. Da una ricerca condotta dall’Università di Losanna risulta che nel 2013 i condannati in carcere per reati economici e fiscali in Italia costituivano soltanto lo 0.4%, a fronte di una media europea del 4.1% . Questi dati attestano il carattere classista del sistema penitenziario italiano e spiegano l’irredimibilità della questione in Italia. Il variegato mondo dei ceti superiori ha risolto da tempo il problema del carcere, riservandolo solo ai ceti inferiori con accorte e selettive ingegnerie normative.
Nel 2006 nonostante la situazione carceraria fosse sul punto di esplodere a causa del sovraffollamento, l’indulto fu emanato dopo una estenuante e laboriosa contrattazione politica, solo a condizione che venisse esteso anche ai condannati per reati di corruzione, economici e persino per il reato di scambio elettorale politico mafioso, ossia a poche decine di imputati eccellenti che non erano in carcere, ma rischiavano solo di finirci. A Palermo, un detenuto scarcerato dichiarò: “Siamo grati ai grandi ladri di Stato perché solo grazie a loro anche ai piccoli ladri di strada come me è stata data la possibilità di evitare il carcere”. All’indulto del 2006 fece seguito una sistematica riscrittura in chiave classista del sistema penale. Niente carcere per i reati di corruzione, economici, fiscali, societari, risultato ottenuto con la depenalizzazione di alcuni reati, la diminuzione delle pene, la riforma della prescrizione, l’allargamento di benefici penitenziari ad hoc per salvare dal carcere i (pochi) condannati eccellenti. Esempio emblematico di questo modo di legiferare fu la modifica dell’art. 47 ter ordinamento penitenziario, introdotta con la legge ex Cirielli per evitare a Cesare Previti di espiare in carcere una condanna per corruzione a sei anni. Negli stessi anni venivano emanate una serie di norme che aumentavano le pene per i reati della criminalità comune, che imponevano automatici aumenti di pena per i casi di recidiva, che vietavano sia di determinare la pena valutando in concreto la gravità del reato e la personalità del reo, sia di effettuare un bilanciamento tra aggravanti e attenuanti.
Fu grazie a tali politiche classiste che le carceri tornarono a riempirsi solo di esponenti di immigrati e di tossici, abbandonate al degrado e all’invivibilità di sempre. Fino al 2013, quando la sentenza Torreggiani espose l’Italia al rischio di una procedura di infrazione per evitare la quale si fece ricorso a una soluzione tampone per sfollare le carceri. Con il decreto legge n. 146/2013 si elevò a 75 giorni lo sconto annuo di pena per la liberazione anticipata, spacciando una misura last minute puramente deflattiva, come una scarcerazione dovuta all’accertato e positivo completamento di un processo di rieducazione e riabilitazione sociale.
Ed eccoci all’attualità, che altro non è che una triste riedizione del passato, con l’aggravante di una maggioranza di governo che sin dall’inizio della legislatura si è attivamente e incessantemente impegnata a portare alle estreme conseguenze il classismo del sistema penale italiano, inserendo il turbo al doppio binario già sperimentato ai tempi dei governi Berlusconi. Da una parte si destruttura metodicamente la normativa anticorruzione del 2019 che aveva tentato di riequilibrare in senso interclassista la risposta penale, si aboliscono i reati dei colletti bianchi e si limitano i poteri d’indagine; dall’altra si introducono nuovi reati e si elevano le pene per la gente comune. In questo tripudio classista, si colloca anche il combinato disposto del decreto Carceri e del Pacchetto sicurezza. Nel decreto prevale una logica di gestione securitaria delle carceri senza soluzioni immediate per il sovraffollamento. Contemporaneamente il Pacchetto sicurezza lancia un messaggio intimidatorio ai detenuti che osano protestare in modo pacifico per le condizioni nelle quali sono costretti a vivere, con la previsione di due nuove fattispecie di reato, applicabili ai fatti commessi in carcere e nei centri di trattenimento migranti che qualificano come rivolta anche la resistenza passiva e il rifiuto di obbedire agli ordini impartiti come quello di fare rientro in cella, con pene sino a otto anni. Ordine e disciplina solo per gli ultimi e per i penultimi, libertà di arricchirsi a spese della comunità e di abusare del loro potere per i signori dei ceti superiori.