Fonte: MicroMega
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da MicroMega, 10 ottobre 2014
Pubblichiamo un intervento del fondatore di Slow Food dal volume “Rottama Italia”, un ebook gratuito edito da Altreconomia, dove sedici grandi “firme” (tra cui l’ex ministro Massimo Bray, l’urbanista Paolo Berdini, l’archeologo Salvatore Settis) denunciano i rischi del decreto, visto come “un pesante contributo alla devastazione del paesaggio e un regalo alle lobby”.
Un libro – corredato da 13 vignette dei più graffianti autori satirici italiani – disponibile gratuitamente in formato pdf, affinché – mentre il decreto viene discusso in Aula -, si apra il dibattito nel Paese e lo Sblocca-Italia (che in realtà è un “Rottama-Italia”) si possa fermare.
Un’altra idea di sviluppo di Carlo Petrini
C’è stato un momento in cui in molti hanno sperato che la “rottamazione”, al di là delle persone, avrebbe finalmente riguardato un certo modo di fare della politica e di quella parte di mondo dell’economia e delle imprese che vive in simbiosi con essa.
C’era addirittura una timida aspettativa circa un cambio ancora più profondo e decisivo: che ad essere rottamato potesse essere il paradigma economico e culturale di riferimento. Certo, nessuno si aspettava un Governo della decrescita felice: sembrava però prossima almeno l’apertura di una stagione politica in cui finalmente, anche nei palazzi di governo, fosse possibile criticare i fondamentali di un sistema che da anni non genera più benessere e ricchezza e a causa del quale, anzi, si è manifestata la più lunga crisi del secondo dopoguerra.
Qualcuno, evidentemente, non si era mai illuso; qualcuno, pur scettico, aveva concesso un minimo credito a questa paventata ondata di novità; qualcuno ci ha creduto un po’ più a lungo. A mettere d’accordo tutti, a sgombrare qualsiasi dubbio, a svelare la distanza abissale tra gli auspicati buoni propositi (veri o presunti che fossero) e la realtà, ci ha pensato lo Sblocca Italia, in modo particolare per quanto concerne le misure dedicate all’edilizia e alla gestione di beni comuni (alcuni sanciti da un referendum, com’è avvenuto per l’acqua).
Oggi persino il Governo Monti, grazie all’iniziativa dell’allora Ministro dell’Agricoltura Mario Catania, può apparire più progressista e innovatore dell’esecutivo guidato da Matteo Renzi. Catania presentò infatti un disegno di legge governativo che aveva l’obiettivo di arrestare la cementificazione e indirizzare l’edilizia e le infrastrutture verso il riutilizzo di aree già compromesse. Benché quella proposta non fosse ancora, nell’articolato, quella ideale agli occhi delle molte organizzazioni che da anni si battono per fermare il consumo di territorio in Italia, senza dubbio ebbe il merito di ribaltare – forse per la prima volta nella storia parlamentare del nostro Paese – i punti di riferimento in tema di gestione del territorio e sviluppo di un settore così rilevante dell’economia come è, appunto, l’edilizia.
Ne ricordo solo il punto assolutamente fondante: ogni terreno non costruito s’intende come agricolo, qualunque ne sia la definizione urbanistica, e non può essere sacrificato al cemento se prima non si è provveduto ad usare ogni spazio recuperabile allo scopo.
Quel testo e il fatto che a proporlo fosse un Ministro dell’Agricoltura, assegnavano un ruolo strategico al suolo e alla sua funzione fondamentale per la produzione di cibo, per il paesaggio, per l’assetto idrogeologico del territorio, per l’economia, per le comunità, per la bellezza, per la cultura del nostro Paese.
Il giorno che Catania presentò il suo disegno di legge (24 luglio 2012) accettai di buon grado di essere al suo fianco, assieme a Sergio Rizzo, uno dei giornalisti che da più anni denuncia la tragedia di un Paese violentato da speculazione edilizia, abbandono di ampie porzioni del territorio, incuria e degrado. Sapevamo entrambi che quella iniziativa aveva scarse possibilità di successo, ma sapevamo anche che avrebbe segnato una tappa fondamentale, una specie di paletto che segnava un confine: da quel momento in poi sarebbe stato più facile mettere all’indice le iniziative destinate a superare quel confine.
In effetti, il disegno di legge Catania non arrivò in Aula durante il governo Monti. Lo stesso Catania, eletto deputato nel 2013 con Scelta Civica, ripresentò già nel maggio dello scorso anno il suo stesso disegno di legge e questa volta venne avviato il normale iter parlamentare, contemporaneamente ad altre tre proposte di legge: una a firma di Massimo De Rosa (per il Movimento 5 Stelle), una a firma di Franco Bordo (per Sel) e una addirittura sostenuta da una deputata di Forza Italia, Monica Faenzi.
Ecco che lo scenario era davvero cambiato: le 4 proposte ovviamente non stavano tutte sullo stesso piano, le differenze in alcuni casi erano piuttosto marcate, ma la direzione era tracciata e la necessità di arrestare il consumo di suolo sembrava ormai tanto evidente quanto la necessità di “uscire dalla crisi” e “far ripartire l’economia”.
L’iter parlamentare nella seconda parte del 2013 fu quanto di più slow ci si possa immaginare (e in questo caso non attribuisco alcuna accezione positiva alla lentezza). Tuttavia ancora una volta arrivò un quasi inatteso intervento del Governo (Letta) a dare una possibile spinta in avanti: il 3 febbraio 2014, riprendendo in buona sostanza l’impianto della proposta di Catania, fece la sua comparsa un nuovo disegno di legge, ancora una volta promosso dal titolare del dicastero dell’Agricoltura (Nunzia De Girolamo). Di nuovo, non eravamo ancora all’impianto normativo ideale, quello su cui ancora insistono i cittadini che animano i forum per la protezione di quel bene che i padri costituenti vollero scolpito nell’articolo 9 della Carta e che diffondono il proprio credo in maniera sempre più diffusa in tutto il Paese.
Però sembrava confermarsi quell’indiscutibile cambio di rotta che per anni era stato inseguito senza esito da tutti quei soggetti che ora iniziavano a partecipare ad audizioni parlamentari e incontri pubblici, dove almeno era possibile confrontarsi sulle diverse ricette che dovevano portarci al traguardo di azzerare il consumo di suolo: l’unico obiettivo credibile per un Paese, come il nostro, che ogni giorno divora 100 ettari di superficie agricola.
Anche il nuovo testo venne avviato all’iter parlamentare e fino a fine maggio (dunque, pochi mesi fa) tutto sembrò procedere. Da giugno però ogni iniziativa si è fermata nuovamente. Questa volta non c’è nemmeno il tempo di iniziare a pensare male, non serve ipotizzare che questo tira e molla sia una specie di carota appesa davanti agli occhi dei difensori del territorio.
Il primo agosto viene presentato lo Sblocca Italia ed è uno shock assoluto, un ritorno al passato che non ci riporta solo a prima dell’estate 2012: in realtà siamo saliti su una macchina del tempo destinata a farci rivivere tutti i momenti più brutti di una certa storia d’Italia.
Nello Sblocca Italia non vi è traccia di zero consumo di suolo, non vi è traccia delle diverse iniziative governative e parlamentari summenzionate, non vi è nemmeno traccia – si noti bene – degli obiettivi che la stessa Unione Europea pone agli Stati Membri in termini di gestione del territorio: per Bruxelles si dovrà raggiungere l’occupazione di terreno pari a zero entro il 2050 ed evidentemente il traguardo si ottiene per gradi, soprattutto occorre partire se si vuole, prima o poi, arrivare all’obbiettivo! Ci vuole una strategia, un piano, delle tappe poste in successione. Senza contare che quella di Bruxelles, come al solito, è la media del pollo che, in termini di suolo libero, mette sullo stesso piano un’Italia al collasso con la Svezia.
Anziché fermare la colata di cemento, lo Sblocca Italia la rilancia, la promuove, la incentiva. E lo stesso fa con le trivellazioni offshore in Adriatico o con grandi e inutili opere come la Orte-Mestre.
Questo Decreto Sblocca Italia è così surreale e fuori dal tempo e dal luogo in cui ci troviamo a vivere, che è quasi impossibile scacciare il pensiero che a scriverlo non sia stato l’uomo della rottamazione (che però, siamo sicuri, lo ha battezzato), ma un manipolo di lobbisti disperati: quasi il risultato della clonazione del primo Tremonti, che favorì il pullulare dei capannoni oggi miseramente vuoti e abbandonati, ovunque. Evidentemente costoro non hanno minimamente a cuore il destino della comunità che vive in questa nostra povera Patria e soprattutto non hanno nessuna lungimiranza per il suo futuro, per la sopravvivenza dei nostri figli, per la bellezza che i loro occhi hanno il sacrosanto diritto di vedere nonostante le nostre ambizioni di produzione interna lorda!
Trenta anni fa, quando ho iniziato l’avventura di Slow Food, mi trovavo spesso a predicare nel deserto: parlavo di cibo, di cultura materiale, di vocazioni del nostro Paese e venivo guardato come un nostalgico, un simpatico goloso di provincia da tenersi buono per avere qualche dritta giusta su dove andare a mangiare. Ciò avveniva perché la Politica e l’Economia (con le maiuscole d’ordinanza), sapevano loro quale era il futuro del Paese, quali i settori strategici e gli asset fondamentali. E naturalmente erano ben altro da quel mondo contadino ritenuto così pittoresco e demodé che intanto cercavo di restituire alla sua dignità. La classe operaia, a metà degli anni ’80, era già avviata sul viale del tramonto, ma nessuno mi dava credito quando provavo a porre al centro dell’attenzione il settore primario con il suo enorme bagaglio di saperi, esperienze, conoscenze e, oggi lo sappiamo bene, opportunità di vera e sana crescita.
Oggi mi ritrovo alla guida di un movimento che proprio sulla base di quelle intuizioni ha saputo diffondersi in 150 Paesi del mondo, ottenendo accreditamenti alle Nazioni Unite e alla FAO; dialoghiamo con Governi locali e nazionali in ogni angolo del Pianeta, riceviamo attestati di riconoscimento e proposte di collaborazione dalle più svariate istituzioni accademiche, scientifiche, non governative, ci confrontiamo con comunità locali, intellettuali, produttori, con continuità e profondità. Anche in Italia l’esito delle nostre lotte e del nostro impegno ha finalmente ottenuto i riconoscimenti che attendevamo: oggi è evidente ai più il valore del nostro patrimonio agricolo e alimentare, della nostra cultura gastronomica, del complesso e articolato sistema produttivo con il suo indotto diffuso capillarmente, delle ricadute positive generate in uno spettro ampio che va dal turismo alla messa in sicurezza del territorio, dall’occupazione alla qualità dell’aria e dell’acqua.
Lo dicono anche i nostri governanti, lo dice lo stesso Matteo Renzi che dal made in Italy agroalimentare si può trarre esempio per rilanciare e rigenerare l’occupazione e l’economia tutta del nostro Paese. Il Paese che Renzi racconta quando va all’estero a caccia di investitori, di credibilità, è il Paese fondato sulla bellezza dei nostri paesaggi, sulla diversità dei territori, sulla ricchezza di un patrimonio culturale, che si fondano in larghissima parte nella storia straordinaria, unica e irripetibile della nostra agricoltura e della nostra alimentazione. Una storia che intreccia la storia complessa del Paese, diviso per un millennio e mezzo ma capace di costruire in questa divisione quelle forti identità locali che oggi restituiscono un caleidoscopio di produzioni, mestieri, storie, competenze che tutto il mondo ci invidia. Una storia che s’intreccia allo stesso modo con un territorio enormemente variegato, una posizione geografica di crocevia delle più importanti vicende dell’umanità per almeno venti secoli.
È così frustrante vivere un così evidente contrasto tra le parole e gli atti di questa politica che sembra non voler guarire mai dai suoi mali peggiori, che non riesce a tollerare né gli anticorpi né i vaccini, che li espelle come se fossero essi stessi la malattia e intanto lascia che la sua cancrena diventi la cancrena di tutto il Paese.
Sono già oltre 40 anni che attentiamo quotidianamente al futuro dell’Italia. Anzi, Pier Paolo Pasolini già più di 40 anni fa aveva detto e scritto tutto in tal senso. Questo corpo fragile, martoriato da anni di politica infame, di interessi spesso criminali, di un senso civico troppo spesso ai limiti dell’indecenza, oggi è debilitato al punto da rischiare il definitivo collasso. Questa crisi terribile sembrava finalmente aver messo in luce la condizioni pericolosa in cui ci troviamo e davvero, come dicevo in apertura, stava maturando la speranza che una nuova primavera – un nuovo Rinascimento – potessero finalmente affacciarsi.
Non c’è in me alcuna convinzione luddista, che Renzi sia come gli altri esponenti dei governi precedenti o della classe politica che ci ha condotto a disperare nel futuro del Bel Paese. Ma è certo che su questo corpo civile martoriato, il tremendo Sblocca Italia potrà calare come una piaga definitiva e molto probabilmente irreversibile, replicando cocciutamente il tentativo velleitario di vedere funzionare ricette vetuste, ampiamente punite dalla storia, e da almeno due decenni capaci di riprese economiche che sono state poco più che fuochi fatui.
Il condensato di opere proposte in blocco senza appello, di forzature, di deroghe alla normativa ordinaria, mi chiedo dove incroci anche solo una delle vocazioni del nostro Paese. Come può motivare un giovane a intraprendere un qualsiasi mestiere legato all’agricoltura, all’artigianato alimentare, alla piccola pesca, al turismo di qualità, tutti quanti messi definitivamente al bando dalla colata di cemento terminale che nel giro di pochissimi anni sarà scatenata dall’approvazione dello Sblocca Italia?
E ancora: a quale conflitto, ancor più aspro di quelli in corso, condurrà l’avere indicato ai disperati di oggi il miraggio dell’edilizia a scapito del paesaggio come promessa di felicità, mentre i lungimiranti amministratori e funzionari rimasti cercheranno con ogni modo di proteggere bellezza e natura, sentendosi appellare come gufi o vedendosi additati alla pubblica gogna?
C’è ancora una flebile speranza, una luce attorno alla quale sento ancora il bisogno di raccogliermi assieme ad altre persone: è la speranza di tutti quelli che credono strenuamente che un’altra idea di sviluppo sia possibile; è la speranza che questo modello conquisti l’intelligenza del premier e lo induca a riconsiderare quanto licenziato fin’ora. Ai compagni di tante battaglie e all’intelligenza del Presidente del Consiglio chiedo dunque di fermare lo scempio dello Sblocca Italia, perché finalmente possa riprendere il cammino un’idea di legislazione davvero rispettosa del nostro passato e promettente per il suo futuro.