Fonte: Il Corriere della Sera
Sachs: «Il grande errore degli Stati Uniti è credere che la Nato sconfiggerà la Russia»
L’economista della Columbia University: «Gli Stati Uniti sono più riluttanti della Russia nella ricerca di una pace negoziata. Negli anni Novanta l’America sbagliò a negare gli aiuti a Mosca, la responsabilità fu di Bush padre e di Clinton»
Jeffrey Sachs, direttore dello Earth Institute della Columbia University, nominato nel 2021 da papa Francesco all’Accademia Pontificia, risponde con questa intervista all’articolo del 23 aprile in cui il Corriere si chiede se gli errori dell’Occidente nei rapporto con la Russia post-sovietica, che negli anni ‘90 ha vissuto una drammatica crisi economica, hanno contribuito ad aprire la strada al nazionalismo revanscista di Vladimir Putin. Sachs fu consigliere economico del Cremlino fra il 1990 e il 1993.
«Accanto alle sanzioni abbiamo bisogno di una via diplomatica. Negoziare la pace è possibile, sulla base dell’indipendenza dell’Ucraina e escludendo che aderisca alla Nato. Il grande errore degli americani è credere che la Nato sconfiggerà la Russia: tipica arroganza e miopia americana. È difficile capire cosa significhi “sconfiggere la Russia”, dato che Vladimir Putin controlla migliaia di testate nucleari. I politici americani hanno un desiderio di morte? Conosco bene il mio paese. I leader sono pronti a combattere fino all’ultimo ucraino. Sarebbe molto meglio fare la pace che distruggere l’Ucraina in nome della “sconfitta” di Putin».
Ma Putin non vuole la pace. Ha dimostrato che non gli interessa negoziare e va avanti con una guerra totale all’Ucraina, senza distinguere fra militari e civili. Come crede che funzionino dei negoziati in una situazione del genere?
«La mia ipotesi è che gli Stati Uniti siano più riluttanti della Russia a una pace negoziata. La Russia vuole un’Ucraina neutrale e l’accesso ai suoi mercati e alle sue risorse. Alcuni di questi obiettivi sono inaccettabili, ma sono comunque chiari in vista di un negoziato. Gli Stati Uniti e l’Ucraina invece non hanno mai dichiarato i loro termini per trattare. Gli Stati Uniti vogliono un’Ucraina nel campo euro-americano, in termini militari, politici ed economici. Qui si trova la ragione principale di questa guerra. Gli Stati Uniti non hanno mai mostrato un segno di compromesso, né prima che la guerra scoppiasse, né dopo».
Può fornire elementi concreti di ciò che lei dice?
«Quando Zelensky ha lanciato l’idea della neutralità, l’amministrazione americana ha mantenuto un silenzio di tomba. Ora, stanno convincendo gli ucraini che possono realmente sconfiggere Putin. Ma, appunto, anche solo l’idea di sconfiggere un Paese con così tante armi atomiche è una follia. Ogni giorno setaccio i media per trovare almeno un caso di un esponente statunitense che approvi l’obiettivo di negoziare un accordo. Non ho visto di una sola dichiarazione su questo».
Stati Uniti e Europa devono discutere con Putin per arrivare a una pace o dovrebbero aspettare la fine del suo regime, perché è un criminale di guerra?
«Discutere, sicuramente. Se vogliono processare Putin per crimini di guerra, allora devono aggiungere alla lista degli imputati George W. Bush e Richard Cheney per l’Iraq, Barack Obama per la Siria e la Libia, Joe Biden per aver sequestrato le riserve in valuta estera di Kabul, alimentando così la fame in Afghanistan. E l’elenco non finisce qui. Non intendo scagionare Putin. Voglio sottolineare che bisogna fare la pace, ammettendo che siamo nel pieno di una guerra per procura tra due potenze espansioniste: la Russia e gli Stati Uniti. Non per nulla al di fuori degli Stati Uniti e dell’Europa, pochi Paesi sono schierati con l’Occidente su questo. Giusto gli alleati degli Stati Uniti come il Giappone e la Corea del Sud. Gli altri vedono all’opera la dinamica delle grandi potenze».
«La Russia ha iniziato questa guerra, certo, ma in buona parte perché ha visto gli Stati Uniti entrare in modo irreversibile in Ucraina. Nel 2021, mentre Putin chiedeva agli Stati Uniti di negoziare l’allargamento della Nato all’Ucraina, Biden ha raddoppiato la scommessa diplomatica e militare. Non solo ha rifiutato di discutere con Mosca l’allargamento della Nato, ma ha fatto sì che l’impegno della Nato in questo senso fosse rinnovato al vertice del 2021, e poi ha firmato due accordi con l’Ucraina sul tema. Gli Stati Uniti hanno anche continuato le esercitazioni militari e le spedizioni di armi su larga scala. Tra l’altro è interessante vedere come gli Stati Uniti e l’Australia si stiano strappando i capelli per un patto di sicurezza tra la Cina e le piccole Isole Salomone, a 3.000 chilometri dall’Australia. Questo accordo viene visto come una terribile minaccia alla sicurezza dall’Occidente. Come si deve sentire allora la Russia riguardo all’allargamento della Nato all’Ucraina?».
Dunque lei cosa suggerisce?
«Per salvare l’Ucraina dobbiamo porre fine alla guerra, e per porre fine alla guerra abbiamo bisogno di un compromesso in cui la Russia si ritira e la Nato non si allarga. Non è difficile, eppure gli Stati Uniti non accennano neanche all’idea, perché sono contrari. Gli Stati Uniti vogliono che l’Ucraina combatta per proteggere le prerogative della Nato. Già questo è un disastro ma, senza una soluzione ragionevole e razionale, ci aspettano rischi molto più grandi».
L’argomento dell’allargamento della Nato può non convincere, professore. Prima della guerra l’Ucraina non aveva nemmeno un Membership Action Plan (una «roadmap») per l’adesione. E il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha dichiarato al Cremlino, davanti a Putin, che l’Ucraina non sarebbe entrata nella Nato «finché noi due saremo in carica» (cioè almeno fino al 2036). Non sembra proprio una ragione sufficiente per invadere…
«Dire che l’Ucraina non entrerà sembra proprio un espediente americano. In realtà, gli Stati Uniti si stavano già impegnando molto per arrivare all’interoperabilità militare dell’Ucraina con la Nato, in modo che a un certo punto l’allargamento sarebbe diventato sostanzialmente un fatto compiuto. Come il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov stesso ha detto di recente, il ministero della Difesa dell’Ucraina brulicava già di consiglieri dell’Alleanza atlantica. L’idea che l’allargamento non avrebbe avuto luogo è in realtà più un’operazione di pubbliche relazioni che una verità. È la strada scelta dagli Stati Uniti, come mostra in ogni politica di oggi. Il punto fondamentale è che gli Stati Uniti si rifiutano di discutere la questione. Questo è già un indizio».
Le sanzioni devono essere a oltranza o vanno vincolate a risultati tangibili: magari prevedendo che alcune saltano se la Russia accetta un cessate il fuoco o si ritira dall’Ucraina?
«Le sanzioni andrebbero revocate come parte di un accordo di pace. La guerra in Ucraina è terribile, crudele e illegale, ma non è la prima guerra del genere. Gli Stati Uniti sono stati anche coinvolti in innumerevoli avventure irresponsabili: Vietnam, Laos, Cambogia, Afghanistan, Iran (golpe e dittatura del 1953), Cile, Iraq, Siria, Libia, Yemen. Questo solo per citarne alcune, perché ce ne sarebbero molte altre. Eppure gli Stati Uniti non sono stati banditi in permanenza dalla comunità delle nazioni. Neanche la Russia dovrebbe esserlo. Invece gli Stati Uniti parlano di isolare la Russia in permanenza. Di nuovo, è la tipica arroganza statunitense».
Che pensa delle sanzioni sul petrolio e il gas russi in discussione in Europa, per paralizzare finanziariamente la macchina militare di Putin?
«L’Unione europea dovrebbe muoversi in modo molto più deciso per favorire un accordo di pace. Un embargo totale su petrolio e gas probabilmente getterebbe l’Europa in una recessione. Non lo consiglio. Non cambierebbe in modo decisivo l’esito della guerra e non influirebbe molto su un accordo di pace, ma danneggerebbe l’Europa pesantemente».
La preoccupa che l’inflazione possa alimentare il populismo in Occidente, dato che gli elettori ne danno la colpa alle sanzioni e non alla guerra scatenata da Putin?
«Sì, la guerra e le sanzioni stanno già creando difficoltà politiche in molti Paesi e un forte aumento della fame nei Paesi più poveri, in particolare in Africa, che dipendono molto dai cereali importati. Anche Biden pagherà un prezzo politico al carovita alle elezioni di novembre. Si noti che questi shock dal lato dell’offerta si stanno verificando dopo un lungo periodo di espansione monetaria, quindi c’è ampio spazio perché l’inflazione corra. Ci aspetta un periodo difficile sul piano macroeconomico».
«Sono stato consigliere economico di Mikhail Gorbaciov nel 1991 e di Eltsin nel 1992-3. Il mio obiettivo principale era aiutare l’Unione Sovietica, poi la Russia come paese indipendente dopo il dicembre del ‘91, a mettere fino a una dura crisi finanziaria, in modo da garantire la tenuta sociale e migliorare le prospettive di pace e riforma nel lungo periodo. Non dimentichiamo che l’economia sovietica era crollata ed entrata in una violenta spirale negativa alla fine degli anni ‘80. In quegli anni, ho fatto spesso riferimento a “Le conseguenze economiche della pace”, il grande libro di John Maynard Keynes del 1919. Quel testo è stato probabilmente il più importante per la mia carriera, perché evidenzia un punto essenziale: per porre fine a una crisi finanziaria intensa e destabilizzante in un Paese, il resto del mondo deve intervenire prima che la situazione sfugga di mano. Questo è stato vero all’indomani della prima guerra mondiale: anziché imporre al popolo tedesco il pagamento di dure riparazioni, l’Europa e gli Stati Uniti avrebbero dovuto impegnarsi a cooperare per una ripresa di tutta l’Europa, che avrebbe contribuito a prevenire l’ascesa del nazismo».
Intende dire che il modo in cui l’Occidente ha gestito la Russia nei primi anni ‘90 ha contribuito a renderla una sorta di Repubblica di Weimar 2.0?
«Quando nel 1989 proposi un’assistenza finanziaria internazionale per la Polonia – con un prestito d’emergenza, un fondo di stabilizzazione valutaria e la riduzione del debito – i miei argomenti furono accolti dalla Casa Bianca e dai Paesi europei. Quando feci le stesse proposte per l’Unione Sovietica sotto Gorbaciov nel 1991, e della Russia sotto Eltsin nel 1992-3, la Casa Bianca le respinse. Il problema era geopolitico. Gli Stati Uniti consideravano la Polonia come un alleato, mentre consideravano a torto l’Unione Sovietica e la Russia appena diventata indipendente come un nemico. Fu un errore enorme. Se si tratta male un altro Paese o lo si umilia, allora si crea una realtà che si auto-avvera: quel Paese diventerà davvero un nemico. Ovviamente nella storia non esiste un semplice determinismo, e certamente non su un periodo lungo trent’anni. Il Trattato di Versailles del 1919, con la sua durezza, non ha causato da solo l’ascesa di Hitler nel 1933. Hitler o qualcuno come lui non sarebbero mai arrivati al potere non fosse stato per la Grande Depressione del 1929 e, anche allora, senza i terribili errori di calcolo di Hindenburg e von Papen nel gennaio 1933. Allo stesso modo, gli errori finanziari degli Stati Uniti e dell’Europa nei confronti di Gorbaciov e Eltsin non hanno certo dettato gli eventi trent’anni dopo. Anche solo suggerirlo è assurdo. Ma la pesante situazione finanziaria dell’Unione Sovietica e della Russia nei primi anni ‘90 ha lasciato un retrogusto amaro. Ha contribuito alla caduta dei riformatori, al dilagare della corruzione e infine all’ascesa al potere di Putin. Ma anche in quel caso si sarebbe potuto recuperare. Putin avrebbe comunque potuto avere un approccio di collaborazione con l’Europa. Un grosso problema si è creato per l’arroganza degli Stati Uniti, che hanno lanciato l’allargamento della Nato verso Est dopo aver promesso nel 1990 che non l’avrebbero fatto. Poi anche per l’idea assolutamente pericolosa e provocatoria di George W. Bush di promettere che la Nato si sarebbe estesa alla Georgia e all’Ucraina. Quella promessa, del 2008, ha drammaticamente deteriorato le relazioni Usa-Russia. Il sostegno americano all’estromissione del presidente filorusso dell’Ucraina Viktor Yanukovych nel 2014 e il successivo riarmo dell’Ucraina su larga scala da parte degli Stati Uniti hanno drammaticamente peggiorato, anche loro, le relazioni tra Russia e Stati Uniti».
Lei è stato consulente del Cremlino nel 1992-93, attraverso il suo ruolo nello Harvard Institute of International Development. Durante gli anni ‘90, il “big bang” di liberalizzazioni del mercato prevalse sulla costruzione delle istituzioni e degli assetti della democrazia. Fu un errore?
«Queste lamentele sono chiacchiere accademiche, non c’entrano con il mondo reale. Il mio ruolo nel 1990-1992 era di aiutare la Polonia, l’Estonia, la Slovenia e altri Paesi ad evitare una catastrofe finanziaria. Questo era il mio obiettivo anche per l’Unione Sovietica e la Russia. Consigliai misure che si dimostrarono di successo in molti Paesi: stabilizzazione della valuta, sospensione delle scadenze del debito, alleggerimento degli oneri del debito nel lungo periodo, prestiti di emergenza, misure di sostegno sociale anch’esse di emergenza. Gli Stati Uniti accettarono questi argomenti per Paesi come la Polonia, ma li rifiutarono a favore di Gorbaciov e Eltsin. La politica e la geopolitica, non la buona politica economica, dominavano alla Casa Bianca. La costruzione delle istituzioni e le riforme democratiche avrebbero richiesto anni, anzi decenni. La Russia non aveva mai avuto una vera democrazia in un millennio di storia. La società civile era stata distrutta da Stalin. Ma nel frattempo c’era una crisi finanziaria pesante in corso. La gente aveva bisogno di mangiare, vivere, sopravvivere, avere un riparo sulla testa, avere assistenza sanitaria, mentre i poi cambiamenti di lungo periodo sarebbero stati introdotti gradualmente. Ecco perché ho raccomandato per molti anni un sostegno finanziario su larga scala a favore della Russia. Ed ecco perché continuavo a citare la lezione di Keynes».
Ma, con il senno di poi, l’approccio alle riforme avrebbe dovuto essere meno incentrato sulla «shock therapy»?
«Di nuovo, il mio ruolo era affrontare la crisi finanziaria. Sapevo bene – dalla Polonia, dalla Cecoslovacchia e altrove – che molte riforme avrebbero richiesto molto tempo. Il mio obiettivo era di prevenire l’iperinflazione e un collasso finanziario. Non mi sono mai pronunciato a favore di una privatizzazione rapida, per esempio. Sapevo che quelle politiche richiedono anni, anche decenni per essere portate a termine».
È vero che la Polonia e altri paesi dell’Europa centro-orientale hanno avuto molto più successo applicando le stesse ricette della Russia. Ma la Polonia ha avuto aiuti per la stabilizzazione valutaria dagli Stati Uniti, quindi un rafforzamento delle istituzioni e il contributo di legislazione dell’Unione europea, non crede?
«Certo, questo è il punto. La capacità di fare riforme dipende dal contesto internazionale. Tutto sarebbe stato molto più difficile in Russia rispetto all’Europa centro-orientale per innumerevoli ragioni di storia, politica, geografia economica, costi di trasporto, esistenza della società civile, geopolitica. La dissoluzione dell’Unione Sovietica, come quella della Jugoslavia, ha anche complicato drammaticamente la situazione, aggiungendo instabilità e recessione. Eppure, per tutte queste ragioni, l’Occidente avrebbe dovuto essere molto più pronto ad aiutare finanziariamente la Russia, invece che dichiarare ‘vittoria’ e ignorare la durezza delle condizioni in Russia».
Il problema fu la «shock therapy» in quanto tale o il rifiuto della Germania di condonare il debito estero della Russia e degli Stati Uniti di fornire aiuti come per la Polonia? La «shock therapy» con scarso sostegno finanziario esterno fu il mix sbagliato?
«La cosiddetta “shock therapy” significava porre fine ai controlli sui prezzi all’inizio del 1992, come la Polonia aveva fatto nel 1990. La ragione era che con il crollo dell’economia a comando centralizzato, con una massiccia instabilità finanziaria e i controlli sui prezzi, tutte le transazioni avvenivano fondamentalmente sul mercato nero. Neanche i generi alimentari arrivavano nelle città. La deregolamentazione dei prezzi avrebbe dovuto essere combinata con un sostegno finanziario su larga scala da parte degli Stati Uniti e dell’Europa e con misure di politica sociale, come in Polonia. E questo è precisamente quello che consigliai, ogni giorno. Ma gli Stati Uniti e l’Europa non ascoltarono. Fu un fallimento dei governi occidentali vergognoso e terribile. Se la stabilizzazione fosse stata attivamente sostenuta dall’Occidente, avrebbe posto le basi per le successive fasi di riforma, che a loro volta avrebbero portato ad altre riforme in un periodo di anni e decenni».
Andrei Shleifer, allora all’Harvard Institute of International Development con lei, era incaricato di consigliare la Russia sul big bang delle privatizzazioni. Che rapporto aveva con lei?
«Il mio ruolo per Gorbaciov e Eltsin era quello di consigliere macro-finanziario. Davo consigli su come stabilizzare un’economia instabile. Non ero consulente sulle privatizzazioni. Shleifer, sì. Per quanto mi riguarda non ho sostenuto la privatizzazione con il modello dei voucher dei primi anni ’90 (che creò i primi oligarchi, ndr) e non ho dato consigli sugli abusi come i “prestiti per azioni” (uno schema progettato nel 1995 che ha permesso agli oligarchi di finanziare la rielezione di Eltsin in cambio di grandi azioni in aziende di proprietà dello Stato a prezzi ridotti). Ho dato consigli a Gorbaciov nel 1991 e poi Eltsin nel 1992 e 1993 sulle questioni finanziarie. Dopo il primo anno di tentativi di aiutare la Russia mi ero dimesso, dicendo che non ero in grado di aiutare dato che gli Stati Uniti non erano d’accordo con ciò che consigliavo. La mia permanenza sarebbe stata di un solo anno, il 1992. Poi fu nominato un nuovo ministro delle finanze, Boris Fyodorov. Una persona meravigliosa, che morì giovane. Mi chiese di rimanere come consigliere per aiutarlo. Ho accettato, a malincuore, e sono rimasto un altro anno, per poi dimettermi alla fine del 1993. Fu un periodo breve e frustrante, perché mi frustrava profondamente la negligenza e l’incompetenza sia della Casa Bianca di Bush padre nel 1991-1992, sia della Casa Bianca di Clinton nel 1993. Quando seppi che Shleifer stava facendo investimenti personali in Russia, l’ho licenziato dallo Harvard Institute of International Development. Naturalmente, non ho avuto niente a che fare con le sue attività d’investimento o con i suoi consigli sulle privatizzazioni russe. Né ho ricevuto mai un solo copeco per il mio lavoro, né un solo dollaro. Le mie consulenze per i governi, dall’inizio 37 anni fa in Bolivia, non hanno mai previsto un compenso oltre il mio stipendio accademico. Non consiglio i governi per ottenere guadagni personali».