Fonte: Rischio calcolato
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di Mauro Bottarelli – 9 aprile 2017
Stamattina, prima che dall’Egitto arrivassero le prime notizie della strage di cristiani perpetrata dall’Isis in occasione della Domenica delle Palme, un articolo del “Corriere della Sera” ha catalizzato la mia attenzione. Per l’esattezza, un’intervista a Dmitrij Suslov, direttore del Centro di Studi europei presso la Scuola Superiore di Economia di Mosca, di cui vi riporto l’incipit: “La visita di martedì prossimo a Mosca del segretario di Stato americano, Rex Tillerson, sarà decisiva per capire le intenzioni di Washington. Vede, noi possiamo capire e perfino tollerare il lancio dei missili Tomahawk, soprattutto se servono a rafforzare Donald Trump sul piano interno”.
E ancora: “Di più, se quest’azione non riporta nell’agenda Usa il cambio di regime, cioè la caduta Assad, è perfino strategicamente meglio per la Russia, perché permetterà a Trump di fare dei passi costruttivi verso Mosca. Ma se il cambio di regime è di nuovo parte della politica Usa, allora la nostra conclusione sarà che questa amministrazione è perfino peggio di quella precedente ed è un pericolo per noi, lasciandoci aperta solo la strada di un duro confronto”. Innegabile, da un certo punto di vista. E con un precedente non da poco, visto che – al netto delle pressioni geopolitiche delle solite lobby interne al Deep State -, se Bill Clinton prese così tanto a cuore la causa del Kosovo da sventrare la Serbia per 72 giorni, fu perché i nuvoloni neri dell’impeachment legato al servizietto di Monica Lewinsky erano ormai all’orizzonte. Ricordate il film “Sesso e potere”, dove si inscena una falsa guerra in Albania per coprire le magagne della Casa Bianca: la tecnica del “wag the dog” funziona sempre, soprattutto in una società basata sui media.
E sono in molti, in questi giorni e alla luce dei particolari dell’attacco Usa contro la base aerea siriana, a scommettere su un gioco delle parti tra Donald Trump e Vladimir Putin, quasi una sotterranea e silenziosa Yalta 2.0 per tacitare le pressioni del Deep State, garantire un po’ di pace al presidente Usa e permettere alla Russia di flettere i muscoli senza, di fatto, doverli utilizzare. Oggi, però, nell’arco di tre ore, i rapporti tra Usa e Russia sono sembrati precipitare, proprio alla vigilia della visita di Rex Tillerson e dopo l’annullamento di quella del ministro degli Esteri britannico, Boris Johnson, come reazione ai fatti siriani. Mentre gli occhi del mondo erano concentrati sull’Egitto, infatti, il gruppo editoriale al Harbi, dichiaratamente filo-Assad, ha pubblicato un comunicato congiunto di Iran e Russia, nel quale i due Paesi inviavano un segnale molto chiaro agli Usa: “Ciò che ha fatto l’America in Siria configura il superamento di alcune linee rosse. D’ora in poi, risponderemo con la forza a ogni aggressione o rottura di queste linee rosse da parte di chiunque e l’America conosce la nostra abilità di rispondere a dovere”.
Insomma, non esattamente un mazzo di rose. E mentre le attenzioni diplomatiche erano tutte indirizzate verso la decisione Usa di inviare una portaerei verso la Corea in chiave di deterrenza contro le ultime minacce di Pyongyang (“L’attacco Usa alla Siria giustifica l’atomica”), ecco che l’ambasciatore Usa presso le Nazioni Unite, Nikki Haley, metteva il carico da novanta, quando intervistata dalla CNN dichiarava quanto segue: “Sconfiggere l’Isis, eliminare l’influenza iraniana dalla Siria e caccia il presidente Bashar al-Assad sono ora priorità assolute per Washington. Non ci sono opzioni per una soluzione politica che contempli Assad al potere, visto che se si guarda alle sue azioni e alla situazione creatasi, appare davvero difficile vedere un governo pacifico e stabile con la sua guida”. E stiamo parlando della stessa persona che non più tardi del 30 marzo scorso si espresse in questo modo sull’argomento: “Bisogno scegliere le proprie battaglie e se guardiamo a questa prospettiva, le nostre priorità stanno cambiando e non abbiamo più il nostro focus sulla cacciata di Assad”.
A volte un attacco chimico può fare miracoli: a proposito, avete avuto notizie delle prove incontrovertibili che Usa e Israele erano pronti a presentare riguardo non solo la responsabilità dell’esercito siriano nell’attacco con il sarin ma anche la copertura offerta in questa operazione da Mosca? Tranquilli, l’attesa sembra finita, perché come ci mostra l’immagine che ho scelto come copertina, poco fa Fox News ha reso noto che Rex Tillerson sarebbe pronto ad accusare la Russia di complicità nell’accaduto: il tutto a meno di 36 ore dal suo viaggio a Mosca. Di più, lo stesso capo del Dipartimento di Stato starebbe considerando l’imposizione di nuove sanzioni contro Russia e Iran sulla questione siriana, una chiara e diretta risposta al comunicato congiunto. E alle 18 ora italiana, il profilo Twitter dell’ambasciata Usa in Siria rilanciava questo post: “Ambasciatore Haley: la Russia ha considerevoli responsabilità. Ogni volta che Assad ha superato la linea della decenza umana, la Russia è stata a suo fianco”. Giuro, se è una messinscena, se si tratta di una Yalta 2.0 è roba veramente da Oscar, mi tolgo il cappello e mi inchino allo stratega che la sta orchestrando.
Ma se il redde rationem sembra non troppo distante, visto che la visita di Tillerson in un modo o nell’altro svelerà alcune carte, occorre dire due parole sugli attacchi contro le chiese copte egiziane, costati la vita a quasi 50 persone (tra cui molte donne e bambini, attendo con ansia lacrimosi tweet delle anime belle e filtri colorati su Facebook), oltre a un centinaio di feriti. Ovviamente bersaglio e giornata erano strategici per l’Isis, colpire gli odiati crociati cristiani in un giorno di fondamentale importanza per il loro credo, generando raccapriccio e paura e instillando un nuovo germe di destabilizzazione nell’Egitto ad alta tensione di Al-Sisi, tanto che le massime autorità islamiche hanno immediatamente condannato l’episodio, rivendicando la multi-confessionalità del Paese.
Ma c’è dell’altro, un qualcosa che esula dalla folle battaglia religiosa di Daesh e che invece ha molto a che fare con le mire geopolitiche di chi utilizza lo Stato islamico come il braccio armato di una guerra che è, di fatto, nulla più che un’emanazione proxy all’intera regione del conflitto Iran-Arabia Saudita, ovvero sunniti-sciiti con relativi padrini e protettori per il controllo dell’area. E temo che qualcuno a Washington abbia voluto inviare un promemoria ad Al-Sisi, il quale mentre a San Pietroburgo si contavano morti e feriti per la bomba nella metropolitana, era alla Casa Bianca per incontrare Donald Trump, il quale lo ha descritto come “un tipo fantastico”. Il problema sono i troppi rapporti con Mosca di questo tipo fantastico, a partire dai molti contratti con aziende russe per i reattori nucleari e per l’aeronautica da difesa.
Il Cairo ha infatti deciso di diversificare le fonti di approvvigionamento, dopo che nel 2014 gli Usa si rifiutarono di consegnare alcuni elicotteri da combattimento fondamentali per le operazioni anti-terrorismo nella penisola del Sinai: fu la prima volta che l’America usò la cosiddetta “nuclear option” per bloccare una partita di armamenti verso l’estero. E se storicamente l’Egitto ha fatto addestrare le sue forze armate in strutture Usa, lo stesso Al-Sisi le frequentò, ora Il Cairo pare essersi rivolto a Mosca per lo sesso scopo. E, ironia della sorte, ora i russi addestreranno i piloti egiziani di elicotteri d’attacco Ka-52 Katran, gli stessi che avrebbero dovuto essere stanziati sulla nave Mistral, al largo dell’Egitto ma che la Francia non ha consegnato a Mosca come ritorsione per i fatti di Crimea.
Inoltre, l’Egitto sta cooperando con la Russia nel supporto al generale Khalifa Haftar in Libia, garantendo alle forze armate del Cremlino la possibilità di essere dislocate lungo il confine tra i due Paesi: nemmeno a dirlo, lo stesso Haftar in passato collaborò con l’intelligence Usa ma, tornato al potere a Tobruk e forte di una milizia militarmente superiore, ora gode di una relazione speciale con Mosca, invisa e non poco a USA, UE ONU, i quali supportano il governo di Tripoli. Insomma, Al-Sisi sembra voler affrancarsi dallo storico legame con gli Usa e andare oltre la “neutralità positiva” di Nasser, forte anche del nuovo giacimento di gas naturale da 30 trilioni di metri cubi scoperto al largo delle coste del Mediterraneo, un affare da 100 miliardi di dollari. Ma non basta, perché come ci mostra questa infografica,
l’Egitto deve pagare dazio per un’altra scelta, ovvero il suo supporto alla risoluzione della Russia per Aleppo, una scelta che ha portato immediatamente a una crisi diplomatica con Ryad, tanto che l’azienda energetica di Stato, Aramco, ha sospeso il suo programma petrolifero di fornitura privilegiata con l’Egitto come ritorsione. Di più, da quel momento media e social-media legati a Ryad – e con la grancassa dei suoi alleati occidentali, soprattutto negli USA – hanno cominciato a dipingere l’Egitto e il regime di Al-Sisi come uno dei più ardenti supporter di Assad, legando indissolubilmente Il Cairo a Mosca e Teheran e quindi creando potenziali tensioni nel mondo arabo. Come vedete, alla fine è sempre la stessa storia, lo stesso proxy: Iran-Arabia. Tutt’intorno, sangue sull’altare e tra i banchi di una chiesa, morti innocenti con in mano un ramoscello d’ulivo. Per cui nessuno chiederà una riunione urgente del Consiglio di sicurezza ONU. Mi sbaglierò ma una Yalta 2.0 non scopre così tanti nervi e non getta così tanta benzina in un mondo di piromani.
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