Rosatellum: fu lo “zio” Verdini a garantirlo

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Salvatore Cannavò
Fonte: Il Fatto Quotidiano

Rosatellum: fu lo “zio” Verdini a garantirlo

LARGHE INTESE – La riforma obbediva alla strategia renziana di abbattere il M5S e garantirsi future alleanze con Berlusconi. Oggi tutti la criticano, allora la votarono tutti insieme

La legge elettorale con cui andremo a votare il 25 settembre si chiama Rosatellum, dal nome di Ettore Rosato allora capofila Pd, che ne garantì l’approvazione. Ma il nome serve a oscurare quello vero, Verdinellum, da Denis Verdini, “zio” di una legge elettorale che ora tutti deplorano, ma che fu approvata a larga maggioranza (contrari solo M5S, sinistra e Articolo uno).

La storia delle leggi elettorali non è mai edificante, quella approvata nell’ottobre 2017 rispetta la regola. La maggioranza che sosteneva l’allora governo Gentiloni non era né compatta né ampia. La sconfitta di Matteo Renzi al referendum costituzionale del dicembre 2016 aveva lasciato un Pd sconquassato e la scelta di rimanere asserragliati al governo si portava dietro la necessità di accordi sottobanco e scambi di potere con pezzi (ex) berlusconiani. Come l’Ala di Denis Verdini (poi finito in carcere, dopo la condanna definitiva per il crac del Credito Cooperativo Fiorentino) portata prepotentemente dal vecchio sodale di Silvio Berlusconi al tavolo della maggioranza. “Dicono che la legge sia figlia mia – disse il senatore in aula il giorno dell’approvazione – il che non mi dispiace, però direi che forse è nipote, perché era un’idea che è stata poi sviluppata”. Lo “zio” del Rosatellum si prende così il merito e soprattutto certifica che con quel voto la sua Ala sostituì la frazione bersaniana che non votò e si oppose con nettezza alla legge.

L’approvazione a colpi di fiducia della legge elettorale coincise, infatti, con l’uscita di Pietro Grasso dal Pd, che la definì “una violenza”. Fu lui a occupare i titoli di tutti i giornali il giorno dopo, il 27 ottobre: “Ho ritenuto di lasciare questo Pd – spiegava l’allora presidente del Senato, che andrà a iscriversi al Gruppo misto – perché non mi riconosco più né nel merito né nel metodo”. “Il fatto che il presidente del Senato – aggiunse – veda passare una legge elettorale redatta in altra Camera senza poter discutere, senza poter cambiare nemmeno una virgola è stata una sorta di violenza che ho voluto rappresentare”.

Quella legge faceva schifo, lo stesso ex presidente Giorgio Napolitano aveva fatto trapelare i suoi malumori, salvo poi votare a favore in Senato. Il senatore a vita Mario Monti votò sì alla fiducia, ma poi nel voto separato si espresse contro.

Ma la legge obbediva alla strategia di Matteo Renzi di tagliare il passo al M5S – inutilmente visti i risultati che si avranno nel 2018 – e di puntare in modo estenuante all’obiettivo del 40% senza escludere anzitempo alleanze con Forza Italia. Lo spiegava lui stesso in un forum a Repubblica due giorni dopo il voto della Camera. Alla domanda su quale coalizione avrebbe costruito rispondeva: “Primo: il mondo centrista, dall’ex Scelta civica ad Ap, cattolici e moderati. Secondo: Forza Europa, i radicali. Terzo: la galassia ambientalista, a cominciare dai Verdi e dall’associazionismo. Quarto: un mondo di sinistra che, senza voler tirare la giacchetta a qualcuno, credo ci sarà”. Sembra la fotografia del campo disegnato da Enrico Letta prima dell’abbandono di Calenda e su cui Renzi ha sparato subito contro. “Penso che questa coalizione sia in tutti i collegi sopra il 30% e possa puntare altrove al 40%”, diceva allora l’ex presidente del Consiglio. Poi: “Se con la coalizione facciamo il 40% governiamo da soli”. Altrimenti, come succederà di nuovo, si governa con Berlusconi.

Il vizio del Rosatellum è quello di obbedire alle strategie politiche, così come era avvenuto con la legge Calderoli, il cosiddetto Porcellum (poi dichiarata incostituzionale) inventata dal centrodestra nel 2005 per impedire all’Unione di vincere le elezioni (obiettivo in parte centrato nel 2006).

Oggi sono in pochi quelli che non ne mettano in luce i vizi dettati da coalizioni forzate, dall’assenza del voto disgiunto, da liste tutte bloccate senza alcuna preferenza. Allora invece era tutta una bellezza: “Un passo avanti” diceva Renzi definendo “ridicole” le proteste 5 Stelle.

Benedetto Della Vedova, a cui piacciono i progressi europeisti, ma solo fuori dall’Italia. la definiva “una legge necessaria” (prefigurando già i vantaggi degli accordi con il Pd). Piero Fassino, oggi catapultato a Venezia proprio grazie a questa bruttura, le dava un “7” e si lanciava in una delle sue spericolate profezie: “Nessun partito da solo avrà un’autosufficienza di seggi per governare”. Vero nel 2018, meno vero nel 2022.

A guidare il voto del Pd al Senato c’era Luigi Zanda, esperienza decennale nella manovra istituzionale che oggi ha deciso di non ricandidarsi. Allora la spiegava così: “Il Rosatellum favorisce la rappresentanza dei territori e la formazione di quelle coalizioni che servono ai partiti per rafforzare i legami politici”. Come no.

L’ineffabile Rosato si trincerava dietro alla legge elettorale “più votata a scrutinio segreto della storia repubblicana” come se fosse un titolo di merito e non la fotografia di un Parlamento autoriferito. Per il sindaco di Firenze, Dario Nardella, la legge garantiva “un modello equilibrato; comunque, meglio questa nuova legge che niente”. E il rappresentante di Forza Italia al Senato, Paolo Romani, si spingeva a definirla “una buona pagina di storia della Repubblica”.

La grande stampa, che oggi si accorge del “pasticcio”, come lo definì Massimo D’Alema, era piuttosto distratta ma ben rappresentata dall’editoriale del Corriere della Sera a firma Aldo Cazzullo, che così commentò l’approvazione del Rosatellum: “Un passo avanti, con dei limiti”. A distanza di cinque anni si vedono solo i limiti e gli unici passi avanti sono quelli fatti verso il discredito delle istituzioni.

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