di Alfredo Morganti – 11 maggio 2019
Ho già detto che Roma non è razzista. Ma è sotto attacco di una destra politica, che si insinua nei punti di minore tenuta del sistema urbano e sociale e tenta di trasformare la crepa in una vera e propria voragine. È una destra che fa il suo mestiere. Scontro sociale? Non ci sono i numeri, non c’è la massa critica per chiamarlo tale. I focolai sono spesso alimentati da politici senza scrupoli, attorniati da qualche decina di rivoltosi arrabbiati e di curiosi. Lo schieramento di polizia e di giornalisti è sicuramente più nutrito. Più ampie e consapevoli, semmai, le manifestazioni degli antifascisti che rispondono, in loco, ai gazebo razzisti. Aggiungo che, se si decidesse di assegnare una palazzina dei Parioli ai 77 rom caratterizzati da fragilità sociale, i contestatori di destra sarebbero anche lì, a organizzare la rivolta, chiamando a raccolta i ricchi che non vogliono poveri proprio a due passi dai loro sontuosi attici.
C’è poi il modo ‘folkloristico’ con cui sono trattate le periferie. Torre Maura è definita ‘priva di servizi’. È davvero così? Certo, non è Piazza Bologna. Resta una borgata storica a ridosso del GRA. Ma a Torre Maura c’è un grande Policlinico, ambulatori, un centro anziani, la nuova metropolitana C, spazi sportivi, spazi verdi. Non è Manhattan, anzi. Ci sono molti problemi da risolvere: pur tuttavia non stiamo parlando di uno slum da terzo mondo o di una baraccopoli. A due passi dell’edificio scelto per ospitare i 77 rom caratterizzati da fragilità sociale, per dire, c’è il Commissariato di Polizia. Lo Stato c’è. Eppure la si dipinge come un avamposto del deserto sociale, come una specie di inferno. Sarebbe il caso invece che si raccontasse la realtà con maggiore precisione e più rispetto. Roma cesserebbe di essere dipinta come un centro pregiato attorniato dall’inferno periferico, e si scoprirebbe che Non Roma (come la chiamo io nelle mie poesie) è prevalentemente collocata ai margini della città, ma sta pure nel centro storico o nei quartieri borghesi, altro che. Così come Roma, ossia la città dotata di servizi e di una certa coesione sociale, è anche in periferia. Per dire, nel bacino del Municipio di Tor Bella Monaca ci sono il campus della II Università di Roma, il Policlinico universitario, il Centro Servizi della Banca d’Italia, il Teatro di Tor bella Monaca (oggi il più cool di Roma), e poi pezzi importanti del sistema bibliotecario pubblico nonché librerie indipendenti come la ‘Booklet’ proprio sotto le Torri. Un paradiso? Direi di no. Ma nemmeno un ghetto. Servirebbe una rivoluzione copernicana per aprire nuovi orizzonti di conoscenza. Essa è impedita purtroppo dalla pigrizia intellettuale di molti e dal tornaconto politico di altri.
Terzo punto. Si dice che gli ‘stranieri’ siano avvantaggiati nell’assegnazione delle case popolari. Giudicate dai numeri. Gli stranieri presenti all’interno delle case popolari a Roma sono il 7%. La graduatoria di assegnazione del 2012, su 12.393 idonei, contiene solo 100 famiglie rom. Il 52% degli idonei è, inoltre, costituito da 6.444 famiglie poco numerose, suddivise tra single o coppie, che si trovano segnatamente in classifica ‘alta’ (3.900 sono addirittura tra i primi 5.000), a dimostrazione che si può essere in buona posizione di graduatoria senza perciò essere rom o stranieri con molti figli. A questi nuclei di uno o due persone, tuttavia, si dovrebbero assegnare ‘tagli’ di appartamenti adeguati nelle superfici (non casermoni, insomma). Purtroppo, il 40% del patrimonio immobiliare pubblico romano è fatto di appartamenti grandi, di 75 mq, ed è questo che frena l’assegnazione ai piccoli nuclei, non le discriminazioni sociali che avvantaggerebbero gli stranieri oppure l’applicazione di criteri inadeguati. Il patrimonio pubblico andrebbe dunque adattato alla nuova conformazione sociale, che non è più quella degli anni settanta od ottanta.
D’altra parte, se si vuole togliere di mezzo i campi rom, è necessario che le famiglie lì ospitate (ove rispondano ai requisiti) possano defluire in alloggi popolari. Non c’è altra via. Così come non si possono contestare i rom che vivono nei campi e, nello stesso tempo, anche quelli che dai campi vogliono uscirne in modo dignitoso. Perché altrimenti sembra che ce l’abbiamo coi rom e basta, in termini tout court razzisti. Si sappia, a questo proposito, che i rom in Italia sono 180.000, di cui soltanto 30.000 in condizioni di effettiva fragilità sociale. E 30.000 non è un numero insormontabile da affrontare. A meno che quei 30.000 non rappresentino un ottimo bersaglio su cui scagliarsi in campagna elettorale per incassare qualche misero vantaggio politico.