Fonte: il Simplicissimus
Saluti romani e invettive al grido di “mercenari”. Durante la seduta del Consiglio comunale nel corso della quale si presentavano i nuovi loghi: un marchio per i rapporti istituzionali e uno per la promozione della Capitale, un gruppo di militanti del Fronte della Gioventù ha fatto irruzione gettando volantini. “I ragazzi del Fronte della gioventù – si leggeva tra l’altro – si oppongono fortemente alla sostituzione del simbolo storico di Roma. Riteniamo che la mentalità politicamente corretta del sindaco Marino e della sua giunta non potrà mai infangare l’orgoglio romano con un simbolo squallido, banale e progressista, che cancella anni e anni di storia”. Un episodio definito “grave” dal sindaco, che “non può avere alcuna scusante e va perseguito con tutti i mezzi che la legge ci ha mette a disposizione”. Ecco.
Sono costernata di essere in così cattiva compagnia, ma regna tanta confusione sotto i cieli di Roma che me ne farò una ragione.
D’altra parte cosa potevamo aspettarci: le griffe per implementare il brand di Roma, per il merchandising e l’advertising, si collocano nel filone cafonal inaugurato nei lontani anni della Milano da bere, del trionfo del made in Italy, delle piramidi e dei garofani di Panseca e Portoghesi impressi anche sugli slip, della devozione alla vanità e alla futilità officiata dai sacerdoti del provincialismo subalterno e acchiappa citrulli: art director, stilisti, performer, designer, galleristi, chef, via via fino a Pompei e al centro storico dell’Aquila, aspiranti smart city, fino al VeryBello (ne abbiamo parlato qui https://ilsimplicissimus2.wordpress.com/2015/01/30/verybello-altra-presa-di-fondello/ ), fino ai gladiatori al Colosseo tinteggiato dal mecenate ciabattino, fino ai matrimoni nei templi della Magna Grecia, le cene a Santa Maria Novella, fino all’iniziativa avviata dal bellimbusto di Rignano, che aveva lanciato un contest su scala internazionale per selezionare un designer che facesse una proposta per l’ asset Firenze, conclusa poi dalla sua solerte imitazione a Palazzo Vecchio, con un marchio privo di immagini, ma che “gioca sapientemente solo sulla combinazioni della parola Firenze scritta in latino, inglese, tedesco e spagnolo”, rigorosamente non in italiano, che non per niente hanno fatto i militari a Cuneo. E pensato, come si disse aprendo il concorso, per “proiettare la città del Giglio in una dimensione nuova, che non mandi in giro per il mondo il “solito” Duomo o i “soliti” Uffizi, ma un logo moderno, che parli di futuro e sappia competere con i rivali, come la sirenetta di Copenhagen o l’ “I’Amsterdam”, insomma per far “riconoscere Firenze da Shangai a Dublino”.
Adesso anche Roma come Firenze può esibire orgogliosamente il suo bollino blu, il suo cuore come I love New York, la sua griffe come Luis Vuitton, il suo cavallino come la Ferrari, come la mela di Apple, come la M di McDonald, in modo da accreditarsi come location, in modo da sfruttare le sue bellezze, in modo da piazzare i suoi musei come macchine per far soldi, in modo da commercializzare i nostri beni comuni, in modo da attirare compratori, che il sindaco stesso da mesi va a cercarsi in giro con la valigetta da piazzista, da Riad a San Francisco, da Londra agli emirati, promettendo in cambio “ soddisfazione ma anche visibilità”.
Il fatto è che, a parte lo slogan in un idioma che non è una lingua straniera, né un esperanto, ma un gergo artificiale, quello dei piazzisti delle vendite piramidali, quello dei banditori delle aste tv, quello degli organizzatori di convention e dei finanzieri della Cayman con tessera Pd, il brand – formato dalla parola «Roma», che accompagna l’emblema «costituito da uno scudo di forma appuntata, di colore porpora con croce greca d’oro, collocata in capo a destra, seguita dalle lettere maiuscole d’oro S.P.Q.R. poste in banda e scalinate, cimato di corona di otto fioroni d’oro, cinque dei quali visibili» – è brutto, o, come direbbero loro, è cheap, è kitschy. Come succede quasi inevitabilmente con il lifting, con i cuscinetti di silicone, con il cerone e il riporto, quando si vuol dare “freschezza” con un intervento di “chirurgia” estetica a qualcosa, un’idea, o una Costituzione, o un prodotto, o una faccia, che era magari già sgraziato e pomposo di suo, ma al quale ci eravamo abituati come a un vecchio amico, che evoca memorie diventate domestiche. Come succede quando è evidente, anzi sfacciato, il ricorso a una vecchia pratica, quella sì tradizionale di Roma, la “romanella”, una mano di pittura, un maquillage passato in fretta a nascondere i guasti per favorire la vendita di un immobile sgangherato, convertito in tecnica di marketing e simboleggiato da quella & commerciale che dovrebbe siglare il patto tra la capitale e il resto del mondo.
Ma pare che Roma avesse proprio bisogno di un nuovo marchio, collocato all’interno di un programma di comunicazione strategica per la città che “ha come obiettivo la valorizzazione del carattere multiforme e al tempo stesso schietto, proprio dell’idea di accoglienza offerta da Roma”.
Sospettiamo che il turismo, i mecenati, gli investitori attratti da Rome & You non se la faranno una loro idea dell’accoglienza romana, come viene esercitata nelle periferie, nei campi e nelle bidonville eternamente ai margini della Città Eterna, sui marciapiedi soffocati dalle auto, sulle buche mai riempite, sui perenni lavori in corso per Grandi Trasporti e sull’attesa infinita alle Piccole Fermate di autobus sospesi per necessarie “razionalizzazioni”, guardando case occupate e al tempo stesso case vuote e già in rovina prima di essere terminate, su bellezze disfatte che languono in attesa di compratori, sui cantieri abusivi degli appalti truccasti, sui rifiuti di giro di rione in rione.
E che saranno compiaciuti di trovarla come se l’aspettano: pigra, indolente, indifferente e disponibile a farsi comprare come una puttana che ricorda l’antica opulenza.
L’Ue non è il Napoleone del decreto imperiale per “l’embellissement de Rome”, non possiamo contare sui piemontesi, ci tocca rimpiangere Fiorentino Sullo, non ci proteggono più Cederna o Insolera, ci siamo consegnati ai furbetti del quartierino che vonno fa’ gli americani, che ce magnano senza che li abbiamo neppure provocati.
19 febbraio 2015