Roma, Fassina e la sinistra

per Gabriella
Autore originale del testo: Piero Bevilacqua
Fonte: eddyburg.it
Url fonte: http://www.eddyburg.it/2016/05/roma-e-la-sinistra-italiana.html

di Piero Bevilacqua 19 Maggio 2016

Quando, alcuni mesi fa, circolò la notizia che Stefano Fassina si candidava nelle elezioni a sindaco di Roma, pensai che quella scelta fosse un errore politico. La replica di vecchie esperienze della sinistra radicale – quelle, per intenderci, che vanno dalla lista della Sinistra-Arcobaleno in poi – che faceva coincidere la nascita di qualche nuova aggregazione con la sua immediata partecipazione a una campagna elettorale. Un battesimo irrimediabilmente sbagliato, perché una nuova formazione che pretendeva di essere alternativa al vecchio ceto politico, prima ancora di essersi cimentata in lotte e proposte nella società civile, inaugurava il suo corso bussando immediatamente alle porte del potere, per avere un posto nelle istituzioni della rappresentanza. Così il suo biglietto da visita era lo stesso di quello dei partiti che diceva di voler combattere. Ogni volta gli elettori lo hanno ben compreso.

In questi mesi di campagna elettorale, tuttavia, alcune circostanze hanno contribuito a far cambiare il mio atteggiamento, con una riflessione che voglio sottoporre quale contributo alla discussione su Roma e sulle prospettive di Sinistra italiana. Intanto, c’è da osservare che, col tempo, l’”imprudenza” della scelta di Fassina ha mostrato anche un’altra faccia: quella del coraggio personale, della sua disponibilità a rischiare e a mettersi in gioco nel momento in cui a Roma non emergeva a sinistra un qualche candidato all’altezza di un compito così impegnativo. E, sia detto con tutta la discrezione possibile – poiché Roma non è una qualche cittadina della nostra remota provincia, ma è la capitale d’Italia – il suo è l’unico nome, nella rosa dei canditati, dotato di un profilo intellettuale di un certo rilievo. Per il resto, la modestia delle altre figure non fa che confermare la condizione di desolazione politica della nostra città.

Ma in questi ultimi tempi il candidato Fassina ha mostrato altri tratti che la sinistra sbaglierebbe a non incoraggiare come meritano, anche al di la della vicenda romana. Non mi riferisco soltanto allo stile della sua campagna elettorale, territorialmente insediata nella periferia di Tor Pignattara, alla sua disponibilità all’ascolto delle voci e delle competenze varie che circolano nella città, alla frequentazione quotidiana dei cittadini alle prese coi loro problemi quotidiani. Egli ha mostrato un elemento di intransigenza politica che io considero strategica per l’avvenire di una formazione politica autonoma della sinistra italiana.

Il suo netto rifiuto di ipotesi di alleanze con il PD costituisce un aspetto non negoziabile di tutta la partita politica che la sinistra si gioca in Italia in questi giorni e nei prossimi mesi. Su questo punto della discussione non possono esserci incertezze. Gli esponenti di Sel che criticano la rottura netta con il Pd, rispolverando la vecchia retorica del pericolo del minoritarismo, dovrebbero ricorrere ad altri argomenti per nobilitare i loro umanissimi interessi di ceto politico che ha assaporato i vantaggi del potere.

L’intransigenza nei confronti del PD non è una ripicca, non è rubricabile come una semplice mossa tattica. Essa nasce da una valutazione strategica, è l’esito di una considerazione storica ormai pienamente decantata. E non è limitata all’Italia. I partiti che un tempo rappresentarono in Europa la classe operaia e i ceti popolari, gli ex comunisti italiani, i socialisti francesi, spagnoli, greci, i laburisti inglesi (Corbyn a parte) sono i resti di un fronte che ha capitolato, hanno esaurito la loro funzione storica. Essi competono nei rispettivi paesi con i partiti della destra su un identico obiettivo: la capacità di rappresentare gli interessi del capitalismo industriale-finanziario con maggiore capacità di controllo dei ceti popolari.

Chi realizza la riforma del lavoro che rende più flessibile la forza lavoro, facendola meglio accettare alla rispettiva comunità nazionale e lucrando consenso e conferma del proprio potere? Chi, in Italia, Berlusconi o Renzi? Chi in Francia, il governo socialista di Valls o quello di Sarkozy? Chi non comprende quel che è avvenuto di definitivo nel campo della sinistra storica non può avere idee chiare sull’avvenire. Quegli organismi politici sono morti e occorre seppellirli, altrimenti la loro putrefazione trascinerà anche noi.

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A prescindere da quali saranno gli esiti delle elezioni di giugno, Fassina ha la possibilità di fare del lavoro politico a Roma un’avanguardia di assoluto rilievo per il resto della sinistra italiana. E per un insieme di ragioni. Lavorando per i problemi della città, se avrà capacità di aggregazione e mobilitazione, potrà costituire anche un modello di lavoro per la formazione del nuovo soggetto politico nazionale. Roma ha innanzi tutto bisogno di essere pensata come un organismo, un ecosistema urbano che negli ultimi decenni è cresciuta in modo informe e slabbrata, generando forme di caos indicibili nella circolazione e nelle possibilità di spostamento dei cittadini. Bisogna tornare a ripensare la città come un tutto, spiegando ai cittadini la necessità di bloccare il cemento, di salvaguardare quel che resta della campagna dell’Agro romano se si vuol assicurare un avvenire possibile ai suoi cittadini. E qui non si parte da zero.

E’ impressionante infatti la moltitudine di comitati e associazioni che operano in città, per difendere i diritti di chi non ha una casa (pur in presenza di migliaia di edifici vuoti), di chi organizza orti urbani, di chi difende beni pubblici e beni comuni dalla privatizzazione, di chi rivendica spazi di libertà associativa in mezzo al furore della mercificazione di ogni brandello di territorio. Questa immensa base di militanza e di volontariato va raccordata, fatta diventare una forza politica se non unitaria almeno aggregata, in grado di esprimere rapporti di forza rilevanti nei confronti dei poteri dominanti locali e centrali. Ma Roma possiede una potenza politica, culturale, intellettuale immensa a cui nessuno presta attenzione. Mi riferisco alle sue tre Università pubbliche. La Sapienza conta oggi circa 115 mila studenti e diverse migliaia di docenti ed è la più grande Università d’Europa. Anche Roma Tre, cresciuta rapidamente, è diventata una grande Università, con 35 mila studenti, mentre Tor Vergata supera le 30 mila.

Si tratta di un vasto mondo nel quale non solo si fa formazione, ma si svolge ricerca, si produce cultura e conoscenza, si creano ogni anno migliaia di nuove figure intellettuali e di professionisti. Eppure questo mondo è sempre stato una specie di ambito a sé, che certo ha contribuito a innalzare il tono culturale della città, ma senza che si creasse un rapporto collaborativo tra questo universo di saperi e il governo urbano. Il legame tra queste cittadelle e il territorio è stato esile o inesistente. Eppure, oggi si può creare un nuovo rapporto collaborativo.

Ho sempre pensato che costituire una istituzione simile alle Maison des Sciences de l’Homme, che operano in Francia – istituti dove operano docenti universitari di varie discipline e realizzano ricerche e interventi a favore dei rispettivi territori regionali – faccia al caso di Roma. Occorrerebbe creare un centro dove un largo ventaglio di saperi è al servizio della città e dei suoi problemi, attivando un canale di comunicazione costante con le tre Università. Ma intervenire oggi nel mondo degli atenei, incontrare gli studenti che pagano rette elevatissime, che non hanno borse di studio, privi di servizi, di case dello studente, di mense, di biblioteche adeguate, ecc. significa entrare in contatto con un pezzo di futura classe dirigente, che oggi nutre solo rabbia e rancore nei confronti dei partiti e del ceto politico di governo.

Nell’Università di Roma, ovviamente si intrecciano problemi cittadini e problemi nazionali: l’Università italiana e soprattutto la Sapienza ha subito colpi micidiali negli ultimi anni. E al suo interno, come nel resto d’Italia, la trasformazione degli studi in una gigantesca pratica aziendale, sottoposta continuamente a valutazioni di efficienza produttiva, crea frustrazione e sfiducia nella vasta platea dei docenti. E’ un’occasione da non perdere per chi si presenta come avanguardia della nuova sinistra: salvare l’Università italiana e ridarle più alte funzioni formative e di ricerca fa parte della battaglia per cambiare Roma ma anche per un nuovo progetto di società.

L’articolo è inviato contemporaneamente a il manifesto

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