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Sbirciare tra le entrate tributarie, le imposte sul patrimonio e le politiche di austerity in corso, rende evidente come la flat tax sia soltanto un odioso inganno. La guerra dei ricchi contro i poveri si fa sempre più feroce
“Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra diseguali” (Scuola di Barbiana, Lettera ad una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1967)
Tra le immonde immagini del comizio sovranista di Salvini, svoltosi il 18 maggio a Milano circondato dalla sua cricca di accoliti di vari paesi europei, ne spicca una dove alcuni esponenti del partito leghista mostrano fieri e orgoglioso il numero 15 per cento, facendo riferimenti all’aliquota che dovrebbe sancire l’introduzione della flat tax, ovvero il passaggio ad un sistema di tassazione proporzionale. Questa proposta, vecchio cavallo di battaglia di Berlusconi, rappresenta il fiore all’occhiello della demagogia populista di Salvini, l’unica probabilmente in grado di compensare il trauma psicologico che il leader leghista ha avuto da piccolo, quando, inopinatamente, gli è stato rubato il pupazzetto di Zorro.
L’articolo 53 della Costituzione della Repubblica Italiana stabilisce che: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Dunque il sistema fiscale italiano deve essere progressivo, nel senso che in corrispondenza di una base imponibile più elevata, si dovrebbe versare un’imposta proporzionalmente maggiore. La progressività dell’imposizione fiscale è giustificata in base a criteri di equità, soprattutto in presenza di un sistema universale di welfare e garantisce una miglior e automatica redistribuzione del reddito: i più ricchi pagano in proporzione di più potendo accedere gratuitamente ai servizi sociali di base (istruzione, sanità, difesa, giustizia).
Il dettame costituzionale ha trovato applicazione solo nel 1974, con la riforma Visentini, dopo ben ventisette anni dal varo della costituzione. Negli anni precedenti, quelli del cosiddetto “miracolo economico”, la tassazione era applicata in base alla condizione professionale dei contribuenti. I commercianti, gli agricoltori, i liberi professionisti, gli imprenditori, i lavoratori dipendenti avevano un sistema di tassazione diverso, esito della contrattazione con il sistema politico, all’epoca il regime democristiano. Era evidente lo scambio politico-economico che ne conseguiva, consentendo al partito di maggioranza di godere dell’appoggio elettorale di buona parte del lavoro indipendente.
L’inesistenza di un sistema fiscale progressivo ha impedito che il fisco svolgesse la funzione di “stabilizzatore automatico”, ovvero di rendere fattivo quel principio secondo cui negli anni di crescita economica la pressione fiscale (il rapporto tra l’ammontare delle tasse e il Pil) è destinata a aumentare, e viceversa a decrescere in caso di recessione.
Dal 1946 al 1971, infatti, la pressione fiscale si è mantenuta più o meno costante, intorno al 25-26%, a fronte di una crescita media annua del Pil nominale del 6,7%. In presenza di progressività, la pressione fiscale avrebbe dovuto invece aumentare di almeno 10 punti percentuali, portando allo Stato italiano risorse aggiuntive pari a poco più di 80 miliardi di euro (potere d’acquisto 2010) (dati ricavati dalla serie storica della Banca d’Italia pubblicati dall’Istat). Con la riforma Visentini si sancisce il principio “liberale” che “tutti sono uguali di fronte al fisco”: un unico sistema di aliquote progressive viene applicato, a prescindere dal cespite di reddito di provenienza (se da lavoro, da impresa, da capitale, ecc.).
Al 1 gennaio 1974, quando entra in vigore la riforma, si contano ben 22 aliquote di prelievo fiscale sul reddito delle persone fisiche, con la più bassa al 10% e la più alta che arrivava al 72%. Nel 1983, con il varo di una prima riforma fiscale, la progressività viene ridimensionata: le aliquote diventano nove, con la più bassa al 18% e la più elevata al 65%. In seguito sono stati introdotti ulteriori cambiamenti, in generale tesi a ridurre il grado di progressività del prelievo. Attualmente le aliquote di prelievo fiscale sono cinque, con la più bassa al 23% e la più alta fissata al 43% e l’esistenza di una no-tax area per redditi inferiori a 8.174 euro l’anno. Nel dettaglio, gli scaglioni sono i seguenti:
- nessun aliquota fino a 8.174 euro di reddito da lavoro da pensione o da dipendente (4.800 euro per i redditi da lavoro autonomo): no-tax area;
- il 23% per lo scaglione di reddito compreso tra 8.174 e 15mila euro;
- il 27% per lo scaglione di reddito compreso tra i 15mila e i 28mila euro;
- il 38% per lo scaglione di reddito compreso tra i 28mila e i 55mila euro;
- il 41% per lo scaglione di reddito compreso tra i 55mila e i 75mila euro;
- il 43% per la parte di reddito che eccede i 75mila euro.
Risulta evidente da questo schema che la progressività è stata via via limitata nel tempo e contemporaneamente sono state innalzate le imposte sui redditi più bassi e ridotte quelle sui redditi più alti.
Due sono le principali motivazioni che hanno portato alla costante riduzione della progressività delle aliquote.
La prima ha a che fare con il processo di deregolamentazione dei movimenti internazionali di capitale, che ha permesso ai percettori di redditi più elevati di stabilire la propria residenza fiscale lì dove preferiscono e hanno convenienza e ha quindi spinto i singoli Paesi a farsi concorrenza al ribasso sulle aliquote per persuadere i contribuenti più ricchi a restare sul territorio nazionale. Si è così sviluppato un dumping fiscale che oggi non rappresenta l’eccezione ma è la noma all’interno della governamentalità neo-liberale.
Questa osservazione ci porta alla seconda motivazione, la più reale anche se la più misconosciuta: ridurre le entrate fiscali al fine di tagliare sempre più il finanziamento alla spesa pubblica.
Tale obiettivo non dichiarato è in continuità con le politiche di austerity. Se nel recente passato il tetto alla spesa pubblica è stato dettato dall’emergenza crisi, oggi, viene giustificato dalla necessità di abbassare le tasse. Nell’ambito della campagna politica per le elezioni europee è questo il nuovo mantra che tutti i partiti ripetono sino alla noia. Ovviamente, la riduzione delle tasse – si proclama e si promette – va a beneficio dei ceti meno abbienti, ma è proprio su questo punto che la proposta della flat tax evidenzia tutto il suo inganno.
Per cogliere gli aspetti redistributivi del sistema fiscale è necessaria un’analisi complessiva, partendo dal definire le tre grandi categorie che costituiscono le entrate fiscali:
- Le imposte dirette colpiscono una manifestazione diretta della capacità contributiva come la percezione di un reddito (Irpef, Ires, patrimoniali). I dati del 2017 mostrano che quasi il 60% delle imposte dirette (pari 175,9 miliardi di euro) provengono dai redditi da lavoro e da pensione. Il 20% (pari a 65,8 miliardi) dai redditi di impresa. Il 7,3% deriva da redditi da capitale (pari a 22,1 miliardi, di cui 11,4 miliardi da tassazione alla fonte e 10,7 miliardi da Irpef). Riguardo alle entrate patrimoniali, i redditi fondiari ammontano al 2,6% (7,9 miliardi) e le entrate da patrimonio immobiliare sono poco meno di 21 miliardi (6,9%, di cui 16 da IMU comunale, 3,6 da IMU statale e 1,1 miliardi da Tasi). E’ immediato osservare come il peso delle entrate patrimoniali sia irrisorio rispetto all’ammontare della ricchezza patrimoniale italiana, che ammonta complessivamente a più di 8.000 miliardi di euro. Tale risultato è anche l’effetto che alcune entrate non entrano nel cumulo dei redditi, come per gli introiti da interessi bancari (aliquota secca al 26% sui depositi), reddito da affitto (21%), titoli di stato (12,5%). Non sorprende che questi redditi non cumulabili favoriscono i ceti più ricchi, né si giustifica il fatto che i redditi da interessi abbiano un aliquota assai elevata (26%) mentre i titoli di stato (di cui solo il 15% è oggi in possesso delle famiglie, il resto da banche, assicurazioni, investitori specultivi) sono tassati alla fonte al 12,5%.
- Le imposte colpiscono invece una manifestazione mediata della capacità contributiva come la produzione, il trasferimento o il consumo dei beni (Iva). Più nel dettaglio, il 62% delle entrate nel 2017 deriva dalla vendita al dettaglio, il 16% dall’accisa sui prodotti energetici, 5% da tabacchi, 6% dal gioco e il lotto, il 5% dalle imposto sul registro e bollo.
- I contributi sociali tassano i redditi da lavoro e sono specificamente destinati al finanziamento delle principali prestazioni del welfare (pensioni, ammortizzatori sociali). Essi definiscono il cuneo fiscale, sulla base del principio, oggi non più sostenibile, che la sicurezza sociale debba essere finanziata non dalla fiscalità generale (come dovrebbe essere in un mondo dove la vita viene messa a valore), ma solo dai lavoratori e dai produttori.
In conclusione, riassumendo, i dati ci dicono che in Italia nel 2017, fra imposte dirette e indirette, le entrate tributarie sono ammontate a 513 miliardi euro (al netto dei contributi sociali, pari a circa il 30% del Pil), ma solo 36 di essi, ossia il 7%, sono riconducibili ad imposte sul patrimonio. Considerato che in Italia il patrimonio privato, sia di tipo mobiliare che immobiliare, ammonta a 8.000 miliardi di euro, si può dire che il livello di tassazione del patrimonio è pari allo 0,45%!
A tale gigantesca iniquità (che i sovranisti e i populisti alla Salvini, Le Pen, Orban si guardano bene dal denunciare), si aggiunge il fatto che la tendenza in atto in tutta Europa e in Italia è un inasprimento dell’imposizione indiretta a scapito della progressività dell’imposizione diretta, voluta dalle politiche di austerity. Dal 1973 a oggi l’Iva in Italia passa dal 12 al 22%. Gli ultimi aumenti, in ordine di tempo, sono del 2011 e del 2013, quando l’Iva è passata dal 20 al 22%. Nel luglio 2011, il Governo Berlusconi IV, nel tentativo di risanare i conti pubblici e rassicurare gli investitori internazionali, nonché per rispettare i vincoli di bilancio derivanti dal Trattato di Maastricht, ha inserito nella manovra finanziaria di quell’anno la cosiddetta clausola di salvaguardia. Essa prevede un aumento automatico delle aliquote IVA (sino al 24,5%) e delle accise qualora il governo non sia in grado di reperire le risorse necessarie a finanziare la manovra stessa. Da allora, le successive manovre di bilancio devono indicare come intendono soddisfare i vincoli di bilancio (per esempio, contraendo la spesa pubblica o aumentando le tasse). Insomma, se i vincoli di bilancio vengono sforati, la clausola di salvaguardia scatta automaticamente, aumentando aliquote IVA e accise (benzina e tabacchi, come ai tempi di Quintino Sella).
Sulla base dei dati Banca d’Italia, negli ultimi anni il peso relativo dell’imposizione diretta, indiretta e di contributi sociali è rimasta più o meno costante. Le prime due hanno lo stesso peso (intorno al 34-35%), mentre l’apporto dei contributi sociali è di circa il 30%.
Se la clausola di salvaguardia viene disattesa, con il conseguente aumento dal 22% al 24,5%, l’imposta sui consumi (Iva) diventa la principale imposta, ponendo fine con successo ad un inseguimento (nei confronti delle imposte dirette sul reddito) che dura da più di venti anni.
Occorre ricordare che l’Iva è un’imposta proporzionale (è cioè una flat tax), così come l’Ires (la tassa sui profitti), che è stata progressivamente ridotta (era al 37% nel 1994) sino all’attuale valore, fissato dal governo Renzi, pari al 24%.
Considerando, inoltre, che, con riferimento all’Irpef, le aliquote medie crescono dal 23% al 31% per la fascia di reddito imponibile che va dai 13.000 euro ai 53.000 (dove si colloca la quota maggiore dei contribuenti) e, ai partire dai redditi superiori ai 200.000 euro, l’aliquota media rimane stabile intorno al 42%, di fatto possiamo affermare che l’attuale sistema fiscale è già ampiamente caratterizzato più da proporzionalità che da progressività.
A ben guardare, la flat tax è quindi già operativa. Ciò che intende fare il governo (e in particolar modo la Lega) non è dunque introdurre la flat tax ma ridurne l’aliquota e estenderla anche ai redditi più bassi. In tal modo si può propagandare la riduzione dell’imposizione anche per i ceti meno abbienti, ma nascondendo che i maggiori beneficiari saranno le famiglie più ricche, mentre quelle che entrano nella fascia della no-tax area, ovvero le più povere, non godranno di alcun beneficio. Si tratta di circa 10 milioni di persone. Per chi si trova nella area no-tax, il rischio è infatti che tale area venga sostituita da una flat-tax al 15%.
In realtà la riduzione dell’imposizione per i ceti medio-bassi è tutta da verificare alla luce dell’effetto sostituzione tra flat tax e le attuali detrazioni fiscali, che rischiano di essere eliminate per compensare la riduzione dell’aliquota.
Alcuni studi (vedi qui), considerando diversi possibili scenari, concordano nell’evidenziare che: “La riduzione di gettito sarebbe di circa 50 miliardi di euro. Metà circa di questo risparmio andrebbe al decimo decile (il 10% più ricco, ndr). Se vogliamo identificare la “classe media” con i decili dal sesto all’ottavo, il risparmio medio per queste famiglie sarebbe di circa 1.500 euro all’anno, 125 euro al mese per famiglia”.
Ecco allora svelati i reali intendimenti dietro la demagogia del “meno tasse per tutti” (slogan che ha sempre un certo appeal elettorale): ridurre il gettito fiscale per smantellare ancor di più lo stato sociale e favorire un incremento della concentrazione dei redditi a favore dei più ricchi.
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Articolo tratto da A. Fumagalli, “L’inganno della flat tax”, pubblicato su Alfabeta2 ed Effimera. Buona parte dei dati presentati fanno riferimento allo studio del Cadtm-Italia, a cura di Rocco Artifoni, Antonio De Lellis, Francesco Gesualdi.