Fonte: il Simplicissimus
Url fonte: https://ilsimplicissimus2.wordpress.com/2015/10/24/riprenderci-quello-che-e-nostro-si-puo-fare/
di Anna Lombroso per il Simplicissimus 24 ottobre 2015
Non so se è capitato anche a voi di seguire con apprensione l’iter di approvazione di una delle riforme epocali del governo, di profetizzarne gli effetti disastrosi, di cercare di mettere in guardia le innumerevoli vittime, individui, comunità, lavoro, territorio, salute, diritti, democrazia, partecipazione.
Per poi scoprire, in alcuni casi che non è successo niente. Dico in alcuni perché invece sicuramente il lavoro, conquiste e garanzie, come la partecipazione, recano i segni indelebili del passaggio del piccolo Attila della democrazia. Ma in altri invece, gli scatoloni di slogan, motti celebri, infamie ripetute come un mantra benefico, indirizzi pedagogici e intimidazioni, sono ancora là, come succede dopo certi traslochi frettolosi o certe separazioni litigiose. Vuoi perché manca la minacciata pioggia di decreti attuativi, dopo i pomposi annunci e le liturgiche ostensioni, vuoi perché la religione della semplificazione produce effetti paradossali di confuso disordine di competenze e ruoli, vuoi perché il tempo, più ragionevole dei ministri, stende un provvidenziale velo di polvere misericordiosa e di impotenza pietosa su errori, conflitti di interesse, esautorazioni di competenze.
Meglio non andarlo a dire al governo del Fare, meglio lasciare che si accontenti e ingrassi la sua vanità di annunci, tweet simbolici, lucidi col segno Più, giaguari smacchiati e camicie bianche.
E’ il caso di alcuni dei dettami dello Sblocca Italia, un eufemismo clemente per dire Svendi Italia, che fortunatamente per noi, per il territorio, per i beni comuni, sono rimasti là come inquietanti simulacri da adorare e cui offrire sacrifici, ma che hanno la meravigliosa qualità di essere inapplicabili o di essere stati scritti come auspicio, perché richiedono l’esborso di qualche spicciolo in investimenti, in project financing o di qualche onerosa mancetta da parte di amici, famigli, finanziatori di campagne elettorali, industriali megalomani, aspiranti faraoni, che invece vorrebbero tutto in regalo, come doverosa strenna in cambio dell’appoggio manifestato alla Leopolda.
“Sblocca Italia” col punto esclamativo, come farebbe lo sfasciacarrozze con i bulloni che resistono alla chiave inglese, non è solo il modo per far cassa presto, per pagare debiti inestinguibili e ingiusti, attraverso l’esproprio dei cittadini e svendendo pezzi d’Italia, o per realizzare una privatizzazione senza regole raccomandata dalla Troika, confondendo iter farraginosi e gravi inadempienze con le necessarie autorizzazioni e i permessi che garantiscono una corretta gestione di patrimonio immobiliare, terreni agricoli, beni ambientali e archeologici. E’ anche il modo più sbrigativo perché beni demaniali, patrimonio di tutti, diventino risorse disponibili a colossi finanziari, cordate speculative e investitori privati, imprese e società di gestione risparmio, con l’esclusione di movimenti, associazioni e comitati che se ne prenderebbero cura senza finalità di profitto.
Per fortuna chi più ha meno vuol spendere, può aspettare pazientemente che il nostro patrimonio vada in rovina grazie a un sapiente abbandono, che diventi un’emergenza oggetto di misure eccezionali e regimi sospensivi di regole e leggi, che trascuratezza e incuria favoriscano concessioni opache, gare truccate, limitazione dell’accesso dei cittadini alle informazioni.
Per fortuna perché gruppi di cittadini impazienti hanno deciso di tutelare i loro diritti proprietari su un bene che appartiene al loro luogo, alla loro memoria e al futuro dei loro figli. È il caso di un’isola della Lagune di Venezia: Poveglia, sette ettari all’ altezza di Malamocco, della quale si ha notizia fin dall’anno Mille, con un campanile del Cinquecento, numerosi edifici, alcune costruzioni rurali, due ville neogotiche, un patrimonio naturalistico prezioso. Un’isola di fantasmi a dar retta alle leggende, quando divenne lazzaretto per gli appestati e poi manicomio, nel quale i pazzi pare fossero perseguitati dalle voci dei morti della grande pestilenza, ma da oltre 40 anni è invece meta di gite in barchetta dei veneziani. E che da quando è stata dismessa l’ultima struttura sanitaria, ha suscitato molti appetiti: dal Touring Club – che voleva farne un villaggio, al Club Mediteranée, fino a Bill Gates che intendeva sponsorizzare proprio là un progetto di turismo giovanile. Finché il faccendiere di Palazzo Chigi ha preso in mano le redini della situazione, grazie ai suoi vassalli locali, ha indetto un’asta e sorprendentemente a aggiudicarsi Poveglia per una cifra che suona offensiva – 513 mila euro – è stato l’attuale sindaco. Per il quale il possesso sia pure per 99 anni di un bene pubblico non rappresenta un conflitto d’interessi, che tanto lui, come ha dichiarato, di quelle proprietà, Poveglia, i Pili, la Scuola della Misericordia, non se ne fa nulla, aspettando che tiri un vento favorevole a qualche speculazione. A quell’asta aveva partecipato un’associazione di cittadini con una somma frutto di sottoscrizione, inferiore a quella offerta dal Brugnaro, ma molto superiore in qualità e valore morale e civile, moneta poco corrente, che però ha avuto l’effetto di creare un movimento di opinione internazionale intorno al caso, che ha indotto l’Agenzia del Demanio a impugnare l’acquisizione e a ritenere incongrua l’offerta.
Così Poveglia torna di nuovo all’asta, ma a condizioni diverse grazie a un nuovo bando redatto sulla base di quello appena lanciato per i fari, in modo cioè da favorire iniziative che partono dai cittadini, come la proposta dell’Associazione Poveglia, che ha avanzato una domanda di concessione per un periodo di sei anni durante i quali realizzare un programma di sistemazione delle aree verdi, miglioramento degli approdi, pulizia e manutenzione delle aree scoperte e messa in sicurezza con divieto di accesso delle aree costruite a rischio di crolli, un piano d’azione serio, nel quale impegnare i fondi raccolti ma soprattutto il lavoro volontario dei moltissimi soci che hanno messo a disposizione le loro competenze, il loro tempo e la loro voglia di riprendersi la città.
Intanto altri cittadini a Torino si sono messi insieme per non permettere l’alienazioen della Cavallerizza Reale, un grande complesso costruito tra Seicento e Ottocento come sede dell’Accademia militare: un complesso che è protetto da un vincolo, e che fa parte del sistema delle residenze reali sabaude dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco. E altre sono le proprietà che cittadini e associazioni si sono impegnati a “riscattare” perché restino di tutti, come successe nel 1980 quando duemila siciliani hanno occupato il cantiere della litoranea che doveva congiungere San Vito lo Capo e Scopello, per difendere e valorizzare la Riserva dello Zingaro, che oggi protegge e fa vivere un luogo meraviglioso e sostiene un’economia alternativa a quella fondata sulla speculazione.
Riprenderci questi beni, nostri, è ricordare che in Italia c’è ancora un sovrano, il popolo. E nessuno deve permettersi di usurpare e vendere il suo trono.