Fonte: L'altra Europa Roma
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di Alfonso Gianni – 10 settembre 2014
Per cercare di apporre una foglia di fico su quello che stavano facendo, i sostenitori dell’inserimento nella nostra Costituzione del principio del pareggio di bilancio lo hanno chiamato “equilibrio tra le entrate e le spese”. Ma la sostanza rimane quella. Per la prima volta nella nostra Costituzione è stato posto un vincolo cogente sulla spesa pubblica, tale da mutilare una delle funzioni essenziali di uno Stato – la manovra di bilancio – e contraddire un filone fondamentale del pensiero economico del Novecento, quello che sostiene la necessità di aiutare lo sviluppo economico attraverso congrui e intelligenti investimenti pubblici e di farlo proprio nei periodi di crisi, anche in deficit.
In sostanza con quell’atto il parlamento italiano si è assunto la storica responsabilità negativa di espungere la teoria keynesiana dalla nostra Costituzione. A farlo è stata una maggioranza composita ed ibrida, guidata da Mario Monti. Dove non era giunto il neoliberismo nelle sue formulazioni classiche susseguenti al celebre manifesto di Mont Pelerin del 1947 e nelle sue espressioni politiche più coerenti è arrivato un governo, quale quello presieduto da Mario Monti, definito “tecnico”, che secondo alcuni avrebbe dovuto rappresentare una semplice transizione da Berlusconi verso una “democrazia normale”. Si è poi visto con chiarezza che non si trattava di questo e il segnale più rilevante fu proprio l’approvazione di quella sciagurata riforma costituzionale dell’articolo 81.
I precedenti della discussione sul pareggio di bilancio. La commissione Bozzi
Vale quindi la pena di ripercorrere i passi essenziali che ci hanno portato a un esito così disastroso e singolare. Sarebbe ingiusto accollare tutta la responsabilità della costituzionalizzazione del pareggio di bilancio alla maggioranza che sorreggeva il governo Monti, anche se il suo contributo fu decisivo e, come vedremo più avanti, niente affatto obbligato da presunti vincoli europei.
In realtà la questione di una possibile modificazione dell’articolo 81 della nostra Costituzione era già entrata da tempo, anche se con diversa intensità, nel dibattito politico e nelle sedi istituzionali. All’interno di più vasti progetti di revisione costituzionale, sono comparse più volte proposte di modifica dell’articolo 81 della Costituzione, accomunate dall’intento di introdurre in Costituzione il vincolo del pareggio di bilancio, senza che però si addivenisse mai alla loro definitiva approvazione.
Nel 1983, agli inizi della IX legislatura, le Camere votarono la costituzione di una Commissione bicamerale per le riforme istituzionali la cui presidenza venne affidata all’autorevole deputato liberale Aldo Bozzi. Nella Relazione di maggioranza che la Commissione consegnò alle Camere, senza che queste ne dessero seguito, tra le altre cose veniva delineata la proposta di un nuovo testo dell’articolo 81 della Costituzione. Secondo quella proposta il Governo avrebbe presentato annualmente il bilancio per l’anno successivo, le previsioni per le entrate e le spese per l’ulteriore quadriennio ed il rendiconto. Veniva confermata la possibilità dell’esercizio provvisorio, il cui limite era ridotto però a tre mesi.
Sessanta giorni prima della presentazione del bilancio preventivo, le Camere dovevano approvare il limite massimo dell’autorizzazione a contrarre prestiti sotto qualunque forma per i cinque anni successivi. Nei bilanci dello Stato e degli enti pubblici le spese correnti non avrebbero potuto superare il gettito delle entrate tributarie ed extra tributarie. La legge di bilancio preventivo non avrebbe potuto introdurre nuovi tributi e nuove spese, ma variare le aliquote fissate dalla legislazione tributaria in vigore, quantificare gli stanziamenti derivanti dalla legislazione esistente per il quinquennio successivo, abrogare leggi di spesa o ridurne l’ambito operativo.
La legge avrebbe dovuto inoltre contenere l’indicazione dei fondi occorrenti per il finanziamento di nuovi provvedimenti di spese o di riduzione di entrate per il quinquennio successivo, i fondi relativi al gettito derivante da nuove leggi di entrate alla cui approvazione è subordinata l’utilizzazione degli accantonamenti di spese: le leggi che introducessero nuove spese o riduzioni di entrate dovevano indicare per l’intero quinquennio successivo i mezzi per farvi fronte, utilizzando esclusivamente questi fondi, tranne il caso di calamità naturali e pericolo per la sicurezza del paese, nel qual caso nuove spese potevano essere finanziate con nuove entrate. Fuori del bilancio di previsione, lo Stato non avrebbe potuto fornire garanzie né concedere crediti ed anticipazioni oltre i limiti risultanti dal bilancio di previsione.
Veniva stabilito il divieto di approvazione di provvedimenti legislativi che aumentassero le spese o riducessero le entrate durante la sessione di bilancio. Nelle deliberazioni parlamentari che avessero previsto variazioni di entrate o spese, la richiesta di votazione palese avrebbe dovuto prevalere su quella per scrutinio segreto. La Corte dei conti avrebbe dovuto valutare il costo effettivo delle leggi approvate dalle Camere negli esercizi precedenti, potendo altresì investire la Corte costituzionale dei giudizi nei confronti delle leggi non conformi alle norme in questione.
La commissione De Mita – Iotti
Nel 1992 le camere diedero nuovamente vita ad una Commissione bicamerale per le riforme istituzionali, presieduta prima da Ciriaco De Mita e successivamente da Nilde Iotti. Anche questa Commissione avanzò una proposta di revisione dell’articolo 81, prevedendo che il Governo presentasse annualmente per l’approvazione parlamentare, oltre al rendiconto consuntivo, un bilancio di previsione annuale e pluriannuale. Venne confermato il principio del carattere formale della legge di bilancio, con la quale non si sarebbero potuti stabilire nuovi tributi e nuove spese.
Venne invece inserito – e qui sta la novità maggiore – l’obbligo per i bilanci dello Stato di rispettare il principio dell’equilibrio finanziario della parte corrente. A tale fine gli emendamenti al disegno di legge di approvazione del bilancio di previsione e agli altri disegni di legge che avrebbero costituito la manovra annuale di finanza pubblica sarebbero stati ammessi unicamente nell’ambito dei limiti massimi dei saldi di bilancio preventivamente fissati. Il cerchio venne quindi ulteriormente stretto. Veniva specificato che la legge doveva indicare i mezzi per fare fronte agli oneri da essa recati con riferimento all’intero periodo di efficacia della legge medesima e nel rispetto dei limiti per il ricorso all’indebitamento autorizzati con la legge di bilancio.
La bicamerale di D’Alema
Arriviamo quindi al 1997, quando prese vita la terza ed ultima commissione bicamerale, questa volta denominata direttamente per le “riforme costituzionali”. E’ certamente la più famosa, come più clamoroso fu il suo fallimento e denso di conseguenze politiche. Venne presieduta da Massimo D’Alema, e, per quanto riguarda l’oggetto del nostro specifico interesse, pur non introducendo espressamente il principio del pareggio di bilancio, approvò un testo in cui si ammetteva il ricorso all’indebitamento «solo per spese di investimento o in caso di eventi straordinari con conseguenze finanziarie eccezionali».
La nascita e la vita delle tre commissioni bilaterali è quindi significativamente collocato negli anni nei quali cresce in modo più consistente e più rapido il debito pubblico, che fino alla fine degli anni ’70 era stato abbastanza contenuto. Nel 1982 il rapporto debito/Pil era pari al 60% – perfettamente in linea con gli attuali parametri di Maastricht – nel 1994 era qualcosa più del doppio (121,8%). Tutte le discussioni sul pareggio di bilancio non solo non approdarono a niente, ma convissero felicemente con una crescita rapida e senza precedenti del debito pubblico italiano.
Il governo Berlusconi
Venendo più vicino ai giorni nostri, proprio all’interno del Documento di Economia e Finanza 2011 il Governo di centro-destra Berlusconi si impegnava a raggiungere il pareggio di bilancio entro il 2014. Tale obiettivo veniva condiviso ed approvato dal Consiglio al vertice europeo del 21 luglio 2011. Tuttavia, per contrastare l’ampliamento dei differenziali di rendimento sui titoli di Stato italiani rispetto a quelli di altri paesi europei (spread), si pensava di adottare una manovra rafforzata di risanamento dei conti pubblici, avente l’obiettivo di realizzare il pareggio di bilancio già nel 2013, con un anno di anticipo rispetto agli impegni originariamente assunti. Inoltre, lo stesso documento programmatico conteneva l’impegno politico del Governo ad introdurre in Costituzione il vincolo di pareggio di bilancio, manifestando l’intenzione di presentare un apposito disegno di legge di revisione costituzionale.
Nel corso di quella legislatura, si sono rapidamente moltiplicate le istanze di costituzionalizzare il principio di pareggio di bilancio, ascrivibili sia alla maggioranza che all’opposizione. Vennero infatti presentati ben quindici progetti di legge d’iniziativa parlamentare, di cui, quattro, antecedenti il suddetto annuncio di modifica proclamato dal Governo, e ben undici, assai frettolosamente proposti, tra il 19 luglio ed il 17 ottobre 2011. E’ nel quadro di un simile fervore generalizzato e degno di miglior causa che il governo Berlusconi poté quindi, se non a furor di popolo almeno a furor di parlamento, presentare il proprio annunciato disegno di legge.
La modifica effettuata e in vigore della Costituzione sul bilancio
Il disegno di legge costituzionale recante l’introduzione del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale è stato definitivamente approvato il 18 aprile 2012, vigente il governo Monti, ed è divenuto la legge costituzionale n. 1/2012, pubblicata nella G.U. del 23 aprile 2012. Il testo è scaturito dall’unificazione di sei proposte di iniziativa parlamentare e un disegno di legge governativo, il cui esame è iniziato presso la Camera dei deputati (A.C. 4205 e abbinate). Avendo raggiunto il quorum dei due terzi dei componenti nella seconda votazione, sia alla Camera, sia al Senato, la modifica costituzionale, entrata in vigore dal 1° gennaio 2014, non è stata sottoposta a referendum popolare, che altrimenti sarebbe stato possibile, bastando a quel punto solo la richiesta di un quinto dei membri di una delle due Camere, secondo quanto prescrive il secondo comma dell’articolo 138 della Costituzione, il cui tentativo di modificazione è stato finora respinto.
Quanto al contenuto, la citata legge costituzionale, novellando gli articoli 81, 97, 117 e 119 Cost., introduce il principio dell’equilibrio tra entrate e spese del bilancio, ovvero il “pareggio di bilancio”, correlandolo a un vincolo di sostenibilità del debito di tutte le pubbliche amministrazioni, nel rispetto delle suddette regole in materia economico-finanziaria derivanti dall’ordinamento europeo.
In particolare, il principio del pareggio è contenuto nel novellato articolo 81, il quale stabilisce, al primo comma, che lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle diverse fasi – avverse o favorevoli – del ciclo economico.
Ai sensi del secondo comma dell’articolo 81, alla regola generale dell’equilibrio di bilancio è possibile derogare, facendo ricorso all’indebitamento, solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e al verificarsi di eventi eccezionali, che ai sensi dell’articolo 5 della legge costituzionale possono consistere in gravi recessioni economiche; crisi finanziarie e gravi calamità naturali.
Per circoscrivere e rendere effettivamente straordinario il ricorso all’indebitamento connesso a eventi eccezionali, il secondo comma dell’articolo 81 prevede che esso sia autorizzato con deliberazioni conformi delle due Camere sulla base di una procedura aggravata, che prevede un voto a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti.
A corredo del principio del pareggio di bilancio, il nuovo terzo comma dell’articolo 81 prevede che ogni legge – ivi inclusa la legge di bilancio, che in virtù della riforma acquista un carattere sostanziale -, che importi nuovi o maggiori oneri, provvede ai mezzi per farvi fronte.
Il quarto comma dell’articolo 81 conferma il principio dell’annualità del bilancio e del rendiconto consuntivo, che devono essere presentati dal Governo e approvati dalle Camere. Il quinto comma conferma invece la possibilità dell’esercizio provvisorio per un periodo non superiore complessivamente a quattro mesi.
Ai sensi del nuovo sesto comma dell’articolo 81, la definizione del contenuto della legge di bilancio, delle norme fondamentali e dei criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni sono demandati a una apposita legge “rinforzata” da approvare a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera.
Tale legge di attuazione del principio del pareggio di bilancio è stata approvata al termine della legislatura (legge 24 dicembre 2012, n. 243, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 15 gennaio 2013), in conformità al dettato della legge costituzionale che ne prevedeva l’approvazione entro il 28 febbraio 2013.
Con apposita novella all’articolo 97 della Costituzione, l’obbligo di assicurare l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico, in coerenza l’ordinamento dell’Unione Europea, viene esteso a tutte le pubbliche amministrazioni.
Per quanto concerne la disciplina di bilancio degli enti territoriali, la legge costituzionale apporta talune modifiche l’articolo 119 della Costituzione, al fine di specificare che l’autonomia finanziaria degli enti territoriali (Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni), è assicurata nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci; è inoltre costituzionalizzato il principio del concorso di tali enti all’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea.
Con una modifica al sesto comma dell’articolo 119 viene altresì precisato che il ricorso all’indebitamento – che la vigente disciplina costituzionale consente esclusivamente per finanziare spese d’investimento – è subordinato alla contestuale definizione di piani di ammortamento e alla condizione che per il complesso degli enti di ciascuna Regione sia rispettato l’equilibrio di bilancio.
La legge costituzionale novella, inoltre, l’articolo 117 della Costituzione, inserendo la materia della armonizzazione dei bilanci pubblici nel novero delle materie sulle quali lo Stato ha una competenza legislativa esclusiva.
Infine, ulteriori disposizioni del testo della legge costituzionale dettano i principi cui dovrà attenersi la suddetta legge di attuazione del principio del pareggio di bilancio, oggetto di approvazione a maggioranza qualificata di cui al nuovo sesto comma dell’articolo 81 della Costituzione, la quale dovrà disciplinare, tra l’altro, l’istituzione presso le Camere, nel rispetto della relativa autonomia costituzionale, di un organismo indipendente al quale dovranno essere attribuiti compiti di analisi e verifica degli andamenti di finanza pubblica e di valutazione dell’osservanza delle regole di bilancio.
La legge costituzionale dispone, da ultimo, che le Camere esercitino, secondo modalità stabilite dai rispettivi regolamenti, la funzione di controllo sulla finanza pubblica, con particolare riferimento all’equilibrio tra entrate e spese nonché alla qualità e all’efficacia della spesa delle pubbliche amministrazioni. Le nuove disposizioni costituzionali hanno trovato applicazione a decorrere dall’esercizio finanziario relativo all’anno 2014.
Come si vede non è solo l’articolo 81 che viene modificato con la legge costituzionale sopra richiamata, ma è indubbio che il suo stravolgimento costituisce il cuore dell’operazione da cui il resto di conseguenza dipende.
L’appello inascoltato a non fare scattare la maggioranza dei due terzi
Poco prima del voto finale in quarta lettura al Senato, un’assemblea di giuristi democratici, dopo avere espresso un parere fortemente negativo sul merito della modifica costituzionale, prendendo contemporaneamente atto della impossibilità di convincere delle loro ragioni gli esponenti e i senatori del Pd, avanzò una proposta minimale. Chiese che alcuni senatori del Pd, pur condividendo la modifica, lasciassero l’aula al momento del voto finale, in modo da impedire il raggiungimento di una maggioranza dei due terzi, il che avrebbe permesso la convocazione di un “referendum confermativo”, come si chiamano quelli chiamati a confermare o cassare le riforme costituzionali, che peraltro non prevedono l’esistenza di un quorum di votanti a differenza di tutti gli altri referendum. Un’altra stramezza francamente incomprensibile nel sistema normativo che regge l’istituto referendario nel nostro paese.
La risposta venne direttamente nel corso di quella assemblea e fu quanto mai autorevole. L’allora capogruppo dei Ds al Senato, Anna Finocchiaro, affermò che, pur apprezzando alcune argomentazioni che erano state portate, non poteva che confermare la decisione presa, poiché apparteneva ad un partito ove la disciplina verso la linea assunta aveva un peso e una tradizione. Con il senno di poi viene da sorridere se si comparano queste dichiarazioni con quanto poi successe in altre occasioni, non ultima le votazioni che poi portarono al richiamo di Napolitano al Quirinale. Ma in ogni caso il provvedimento passò con una maggioranza che un tempo si sarebbe detta bulgara.
A questo punto restavano aperte solo tre strade per tornare al testo precedente della Costituzione. Il rovesciamento per via elettorale di quella maggioranza e il definirsi di un percorso contrario al precedente, sempre ai sensi dell’articolo 138 rimasto immodificato, per una contro modifica parlamentare del nuovo testo costituzionale attraverso le tradizionali quattro letture. Ma quella strada venne subito chiusa dall’esito delle elezioni politiche del 2013 e dalla formazione del governo Renzi.
A questo punto l’unica possibilità, se non si vuole attendere le prossime elezioni politiche dall’esito poco probabilmente favorevole, non resta che la strada del referendum o quella della iniziativa di legge costituzionale di iniziativa popolare.
Il referendum sulla legge di applicazione dell’articolo 81
La seconda strada è stata posta in essere da uno schieramento trasversale, ove cioè figurano politici, intellettuali e sindacalisti che svariano dalla destra della fu Alleanza nazionale a esponenti e “consigliori” del Partito democratico, fino alla stessa Cgil. Uno schieramento di partenza abbastanza sorprendente, ma che forse trova una sua logica motivazione nelle esplicite argomentazioni con cui i proponenti presentano la loro iniziativa. Non si tratterebbe tanto di cancellare il principio del pareggio di bilancio dalla nostra Costituzione, quanto di togliere quelle eccessive asperità che la legge italiana ha introdotto e che non sono richieste dalla stessa Unione europea. Nella nota giuridica di accompagnamento alla proposta referendaria si legge infatti che «l’obiettivo complessivo dei quesiti è dunque modificare in più punti la legge n. 243 del 2012 che ha dato attuazione al principio costituzionale di equilibrio del bilancio (si noti che non si usa il termine pareggio di bilancio accettando la foglia di fico dei suoi ideatori) ed esattamente abrogare quelle parti che prescrivono un’applicazione nazionale esasperata e pertanto ingiusta degli obblighi di bilancio assunti in sede europea».
L’Italia non era obbligata dall’Ue a inserire in Costituzione le nuove norme
Qui si tocca un punto essenziale dell’intera vicenda. In effetti non è affatto vero che l’Unione europea ha esplicitamente chiesto di introdurre in Costituzione la normativa sul pareggio di bilancio. D’altro canto la Francia di Hollande, pur allineandosi subito al principio, si è ben guardata di accoglierlo nel dettato costituzionale. Non c’è dubbio che in sede europea si siano prodotti una serie di documenti, che vanno nella direzione dell’introduzione del principio del pareggio di bilancio e di norme che garantiscano l’applicazione di politiche di austerità. Come il Patto euro plus – accordo però non giuridicamente vincolante adottato dai Capi di Stato e di governo nel marzo 2011 – che inviterebbe gli Stati dell’eurozona, e non solo, a recepire nelle Costituzioni o nella legislazione nazionale le regole del Patto di stabilità e di crescita.
Lo stesso Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance nella Unione economica e monetaria, cosiddetto Fiscal compact, – concordato al di fuori della cornice giuridica dei Trattati – all’articolo 3 ha impegnato le Parti contraenti ad applicare e introdurre, entro un anno dall’entrata in vigore del Trattato stesso, con norme vincolanti e a carattere permanente, preferibilmente di tipo costituzionale, alcune norme, in primo luogo quella che il bilancio dello Stato deve essere in pareggio o in attivo. Il giro di vite europeo è stato quindi molto stretto e doloroso, ma un vero e proprio obbligo generalizzato alla costituzionalizzazione del pareggio di bilancio è solo una invenzione che è servita per giustificare la scelta della maggioranza del parlamento italiano, evitando così di assumersene la piena responsabilità. Quindi se si volesse essere fedeli all’indicazione europea non basterebbe mitigare la nuova formulazione dell’articolo 81, ma toglierlo dalla Costituzione o rovesciarne completamente il significato.
I pesanti dubbi sull’ammissibilità dei quesiti da parte della Corte
Ma c’è altro piombo che pesa sulle ali della iniziativa referendaria. E’ infatti assai dubbio – per usare un’espressione molto prudenziale – che la Corte Costituzionale dia il via libera ai quesiti proposti. La ragione non sta tanto nel fatto che una materia come questa invade il campo del secondo comma dell’articolo 75 della Costituzione che recita: «Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali». I proponenti del referendum hanno infatti evitato di proporre abrogazioni di parti di trattati internazionali, ma si sono concentrati sulla legge applicativa del nuovo articolo 81, che è una legge ordinaria. Appunto la legge 243/2012. Solo che questa è una “legge rinforzata”, secondo quando prevede esplicitamente il comma sesto del novellato articolo 81 della Costituzione, ovvero richiede per la sua approvazione la maggioranza assoluta dei membri del Parlamento.
La giurisprudenza della Corte Costituzionale prevede che in un caso del genere non sia possibile l’apposizione di quesiti referendari abrogativi. Ce lo dice la sentenza 16/1978 della Corte, finora mai smentita, che descrive i casi di inammissibilità di richieste referendarie, considerando tra queste anche “gli atti legislativi dotati di una forza passiva peculiare”, come è appunto il caso delle leggi rinforzate come la 243/2012. E’ quindi assai difficile, a meno di un cambiamento di direzione nel consolidato criterio di valutazione della Corte Costituzionale, che i quesiti referendari superino il vaglio di ammissibilità.
La proposta di legge di revisione costituzionale di iniziativa popolare
Resta un’ultima strada: quella di una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare. Certamente la sua efficacia è dubbia. Ma meno di un quesito referendario respinto dalla Corte. In assenza di un regolamento delle Camere o meglio ancora di una norma legislativa che imponga l’esame delle proposte di legge di iniziativa popolare entro un certo periodo, e comunque entro la legislatura durante le quali sono presentate, è evidente che nessuna legge di iniziativa popolare arriverà mai in porto. Ma nessuno vieta di unire alla lotta contro il pareggio di bilancio quella per una modifica della normativa che regola la discussione delle proposte di legge di iniziativa popolare.
Nel contempo la legge di iniziativa popolare ha un vantaggio indubbio sul referendum: è propositiva e non solo abrogativa. Il testo di proposta di legge cui un gruppo di giuristi, fra i quali Azzariti e Rodotà, sta lavorando – e che vedrà la luce quando questa rivista sarà nelle librerie – è molto semplice. Si basa sul principio che i vincoli di bilancio non possono violare i diritti fondamentali delle persone.
Sì tratta di inserire così, in Costituzione, un principio fondamentale, del tutto coerente con la prima parte e tutto l’impianto del nostro dettato costituzionale: il primato dei diritti delle persone – fra i quali rientrano la soddisfazione gratuita di quei bisogni su cui si è venuto costruendo lo stato sociale nel Novecento – sulle compatibilità di bilancio e sui vincoli internazionali in materia. Come è noto analogo principio è inserito nelle più recenti e avanzate Costituzioni moderne, in particolare modo di paesi dell’America latina. Non si tratta ovviamente di copiare norme che traggono origine da storie politiche, sociali ed economiche diverse, ma di muoversi verso quella indispensabile universalizzazione dei diritti, quella costituzionalizzazione della persona, che è parte integrante della lotta contro l’arretramento e la devastazione di democrazia, di solidarietà, di socialità, di civiltà imposte dalle presunte leggi economiche del neoliberismo.
Aprire una campagna su una simile proposta di legge di iniziativa popolare ha anche altri importanti significati. Smonta in partenza la propaganda di chi vuole manipolare la Costituzione in senso regressivo, che attribuisce a chi vi resiste la qualifica di conservatori. A parte che è cosa saggia conservare ciò che è buono – e questo è valido anche nei processi apertamente rivoluzionari – in questo modo si risponde in positivo a quella campagna denigratrice, dimostrando che una manutenzione intelligente e accrescitiva in senso valoriale della nostra Costituzione è necessaria e può essere operata senza stravolgerne i principi fondamentali, ma, al contrario, implementandoli.
La valenza europea di una campagna in Italia contro il pareggio di bilancio
Infine una campagna di massa per la raccolta di firme attorno ad una simile proposta di legge ha il pregio di unire finalmente ciò che è rimasto diviso: i temi che riguardano l’economia e quelli che concernono gli assetti istituzionali e costituzionali, peraltro in una dimensione che è di tipo europeo, vista la connessione logica-politica della questione del pareggio di bilancio con la governance economica della Ue, le politiche di austerità e in particolare il fiscal compact. L’abolizione di quest’ultimo non è materia che può essere risolta in un solo Paese, ma è la fondamentale battaglia da fare per la modifica della politica economica europea. La campagna contro il pareggio di bilancio in Italia la può aiutare.Wolfgang Munchau, direttore del Financial Times Deutschland, si è domandato in una recente intervista a un quotidiano italiano «come un economista del calibro di Mario Monti abbia potuto firmare un trattato (quello sul Fiscal Compact) che, se applicato alla lettera, porterà l’Italia al fallimento: ridurre al 60% il debito in venti anni significa andare incontro ad una recessione che sottrarrebbe il 30-40% del Pil nello stesso periodo. Un disastro, e la fine dell’euro». Touché.
L’aggravarsi della crisi sta convincendo anche i portatori di teorie mainstream del fallimento di tutte le teorie legate all’austerity. E’ vero: queste teorie hanno ancora il bastone del comando in mano, ma il loro consenso è in caduta. Alcuni parlamentari del Pd, come Fassina ed altri, hanno dichiarato che introdurranno nella discussione sulle riforme costituzionali che approdano alla Camera, la cancellazione del pareggio di bilancio. Avessero fatto mancare la maggioranza dei due terzi a suo tempo, oggi saremmo già in un’altra condizione. Ma meglio tardi che mai. Persino gli economisti del Fmi riconoscono che il valore del moltiplicatore di sviluppo economico derivante dall’incremento della spesa sociale è certamente e nettamente superiore a quello che può derivare da una riduzione delle tasse.
Si potrebbe dire, rinnovellando una famosa frase di Gramsci, che viviamo in un’epoca di crisi in cui il vecchio sta morendo, ma il nuovo stenta a nascere. Aiutiamo questo difficile parto.