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di Luca Billi – 13 giugno 2015
Quelli della mia generazione non hanno conosciuto Enrico Berlinguer, neppure quelli che – come me – hanno la fortuna di aver avuto i genitori comunisti. Io avevo quattordici anni nel 1984 e naturalmente sapevo già chi era Berlinguer, era il Segretario del Partito – con le lettere rigorosamente maiuscole – il compagno che andavamo ad ascoltare in occasione del comizio finale della Festa nazionale dell’Unità. Ma è stato proprio in quei giorni di giugno di trentun’anni fa, quei lunghi giorni di sgomento, di dolore, di attesa e infine di lutto, sincero e partecipato, che mi sono reso conto quanto fosse importante Enrico Berlinguer, cosa significasse per tante persone quell’uomo esile e dal viso serio, di cui però le fotografie in bianco e nero ci restituiscono un sorriso allegro e aperto.
Per quelli della mia età il ricordo di Berlinguer è legato essenzialmente alla sua morte e a quel grande rito laico che furono i suoi funerali, probabilmente l’ultima volta in cui il popolo della sinistra si ritrovò unito in piazza, con un comune sentire. D’altra parte credo sia onesto riconoscere che Berlinguer sia diventato un mito, soprattutto per noi che non lo abbiamo conosciuto, proprio grazie a quella morte improvvisa, a suo modo eroica. La morte crea gli eroi.
Negli anni successivi naturalmente ho provato a capire, a farmi una mia idea su chi fosse Berlinguer, su cosa avesse rappresentato davvero nella storia d’Italia. E in qualche modo ho provato – anche questo credo sia un passaggio inevitabile, a un certo punto – a smontare il mito. Non è facile affrontare quella storia, perché si tratta di un personaggio complesso, che ha attraversato da protagonista molti anni della vita politica italiana ed europea e proprio perché è diventato, certamente al di là delle sue intenzioni, un mito. Ed è sempre difficile confrontarsi con la storia di un mito, trovi sempre qualcuno pronto a difenderlo o a criticarlo, a prescindere.
Per cercare di risolvere questa complessità, ho provatoo provare a definire Berlinguer con un solo aggettivo. Nonostante le tante sfaccettature della persona e della sua lunga storia, le luci e le inevitabili ombre di una carriera politica, è stato piuttosto naturale e spontaneo scegliere l’aggettivo comunista: e sono convinto che, alla fine, sia quello che lo definisca meglio. Berlinguer è stato un comunista – certo un comunista italiano, come volevamo sempre precisare, per mettere una qualche distanza tra noi e un mondo che non ci piaceva (che forse neppure a lui piaceva più) – ma credo che anche lui avrebbe preferito questa definizione più diretta e semplice.
Naturalmente la parte complessa comincia adesso, perché è difficile definire cosa significhi l’aggettivo comunista: rischiano di esserci tante definizioni di questa parola, almeno quanti sono i comunisti. Come sanno quelli che hanno fatto un po’ di militanza, trovi sempre qualcuno più comunista di te.
C’è una frase di Berlinguer che io amo molto e che penso spieghi meglio di altre cosa significa davvero essere comunista.
Noi siamo convinti che il mondo, anche questo terribile, intricato mondo di oggi, può essere conosciuto, interpretato, trasformato e messo al servizio dell’uomo, del suo benessere, della sua felicità. La lotta per questo obiettivo è una prova che può riempire degnamente una vita.
Ci sono tante cose in questa frase; provo a metterne in evidenza qualcuna.
È stato davvero terribile e intricato il mondo che ha conosciuto Berlinguer: la guerra latente, seppur mai combattuta, tra Stati Uniti e Unione Sovietica e la sempre incombente minaccia di una guerra nucleare, i conflitti purtroppo combattuti, spesso con fino ad allora inimmaginabili livelli di ferocia, in quello che si chiamava Terzo mondo, dall’Africa al Sud-est asiatico, dal Medio oriente all’America latina, la scoperta che la fine del colonialismo rappresentava non una liberazione per milioni di persone, ma l’inizio di un periodo di terribile povertà, la piena consapevolezza che il progresso scientifico e tecnologico non era necessariamente un elemento di progresso, ma poteva rivelarsi letale per l’ambiente e per la vita stessa dell’umanità. Tutte questioni che Berlinguer ha affrontato con rigore intellettuale.
In Italia gli anni di Berlinguer sono stati segnati dalla violenza politica, dalla reazione rabbiosa di forze oscure contro la crescita sociale e civile del nostro paese, dall’affermarsi di una cultura individualista. Berlinguer ha intuito meglio di altri questi fattori di crisi; io credo ad esempio che la sua riflessione sull’austerità – allora fortemente criticata – sia di grandissima attualità, perché ci pone di fronte al tema di uno sviluppo che è diventato fine a se stesso.
Probabilmente alla capacità di analisi non è seguita un’altrettanto felice capacità di trovare delle risposte; ad esempio io continuo a pensare che Berlinguer abbia sbagliato a immaginare di poter resistere alla reazione di quei grandi poteri, più o meno occulti, che facevano riferimento alla destra internazionale, alleandosi con un partito come la Democrazia cristiana, che da quegli interessi dipendeva.
E’ importante capire questa storia, per capire da dove siamo arrivati fin qui, ma probabilmente non è questo il punto essenziale per capire davvero Berlinguer e il suo essere ostinatamente comunista. Nella frase che ho citato prima ci sono tre aspetti per me essenziali. Il primo è avere fiducia nei propri valori e consapevolezza dei propri obiettivi, in sostanza credere che la nostra azione possa rendere migliore il mondo e più felice la vita degli uomini. Il secondo è che questa azione di miglioramento tesa alla felicità e al benessere, in cui al centro c’è l’uomo, passa necessariamente attraverso una trasformazione radicale della società. Il terzo è l’essere cosciente che il tuo contributo alla lotta può apparirti insignificante, vano, e che tu puoi anche essere alla fine sconfitto, ma che la lotta è qualcosa che andrà avanti indipendentemente da te e che quindi ne è valsa la pena. E c’è un fortissimo valore etico in questa lotta, perché una vita spesa così è degna di essere vissuta.
Ho avuto l’impressione negli ultimi anni, accostandomi sempre di più alla figura di Berlinguer, che in lui fosse forte la consapevolezza di questa sua personale sconfitta, anche legata al fatto che una persona della sua intelligenza e della sua capacità d’analisi, doveva aver capito – ben prima di intervenire con le sue dichiarazioni pubbliche – che il modello di una società socialista creato in quei tempi era non solo fallito, ma era contrario ai principi per difendere i quali era nato. La “tristezza” di Berlinguer nasceva forse da questa consapevolezza, ma c’era, altrettanto radicata, l’idea che la lotta dovesse continuare, perché, anche se il comunismo storico aveva fallito, la sfida che esso aveva lanciato era rimasta. Ed è rimasta.
Berlinguer è un uomo del suo tempo ed è sbagliato appropriarsene per ragioni di parte, facendone un “santino” democratico o un paladino ante litteram della lotta alla corruzione della politica – anche se fu anche questo e capì prima degli altri, inascoltato, cosa stava succedendo – o un padre della battaglia contro l’Europa della troika. Però, specialmente noi che militiamo nella sinistra, dobbiamo avere la capacità di capirne l’insegnamento di fondo. Berlinguer ci insegna che della lotta c’è bisogno, perché questo mondo è ancora terribile e intricato, perché non possiamo chiudere gli occhi di fronte al fatto che nella maggior parte dei paesi del mondo i due terzi, o i quattro quinti o addirittura i nove decimi, della società sono fatti da poveri, perché la sinistra esiste in natura laddove c’è un uomo che soffre a causa delle ingiustizie.
Non possiamo accettare queste ingiustizie e dobbiamo lottare per sconfiggerle. Allora sì, ha ancora senso definirsi comunisti.