RICORDI DELLA VENEZUELA DEGLI ANNI 80 E IL REALE MERAVIGLIOSO
Sfollato da Pozzuoli nel 1983 in quanto abitante della zona rossa e rifugiato a Napoli a casa di amici, si presentò un’occasione di lasciare l’Italia, in quanto mi ero candidato a una missione all’estero. Avevo ansia di altre esperienze, vivere l’avventura in un paese sconosciuto dove c’era molto da edificare, anelavo a un cambiamento di orizzonte. Ottenni un contratto di docenza e ricerca in una Università del Venezuela che apriva nuove carriere. La mia famiglia non era favorevole, ma mi appariva maturo il momento per rispondere a un impulso interno.
Fu il mio primo viaggio in aereo.
Visto retrospettivamente, era l’archetipo di tutto il mio andirivieni posteriori.
Quel pomeriggio allo sbarco nell’aeroporto di Caracas pensai di essere arrivato per errore a Pechino o Calcutta, così mi apparve misteriosa la lingua che mi accoglieva, molto diversa di quello spagnolo frettolosamente studiato all’Istituto Santiago di via S. Giacomo. Una lingua con una sonorità e gestualità proprie. Solo la perseverante applicazione e ripetizione a pappagallo mi permise riunire in pochi giorni una impalcatura per l’avventura che cominciava. Mi aspettava una città sconosciuta, l’hotel, l’Istituto Universitario, i nuovi programmi, le relazioni da redigere e soprattutto, parlare di lì a pochi giorni davanti agli studenti! La mia occupazione principale era la ricerca e lo sviluppo per sostituire le importazioni nell’area delle telecomunicazioni, quindi docenza accompagnata dallo studio. Mi ero lanciato all’avventura per mettermi alla prova, perché si trattava di nuove discipline proprie di corsi di laurea in ingegneria. Per giunta, gli incarichi erano già stati assegnati e a me fu dato un corso impegnativo dell’ultimo anno, il cui programma era tutto da specificare, trattandosi della prima volta che iniziava la carriera in telecomunicazioni. Realizzai a poco a poco la difficoltà e cominciai a raccogliere letteratura.
Le regole del gioco in Venezuela si mostrarono a poco a poco, mentre conquistavo lentamente la lingua castigliana parlata nel Venezuela, dotata di una musicalità e un lessico proprio, ricco di espressioni locali che da sole identificavano l’origine e gli studi eventuali dell’interlocutore. Col passare del tempo cominciai a percepire il nomadismo spontaneo degli abitanti che si rivelava al parlare. La informalità innata delle persone alleggeriva un poco i compiti e le contingenze che ogni giorno si presentavano. Compresi presto l’aver lasciato indietro in Europa abitudini rigide e riti di esecuzione precisa, perché ora mi riceveva un mondo flessibile, spontaneo, aperto e accogliente. Il dominio dell’idioma venne dopo, mentre la disposizione dell’anima serviva da ponte per superare incertezze ed ostacoli. Venezuela si presentava come una Nazione giovane che cercava di proiettarsi verso il futuro. Sempre ho avuto l’impressione, nelle persone con le quali avevo contatto professionale o sociale, di uno sforzo costante di superazione, desiderio di formazione, di migliorare le condizioni economiche, di partecipare alla vita culturale. Sebbene Venezuela fosse conosciuto principalmente come paese esportatore di petrolio, guardava al mondo apertamente. Gli Stati Uniti erano il principale riferimento commerciale, da dove si importavano tecnologie, mode e automobili. Europa era il nesso naturale delle emigrazioni della Spagna, Portogallo e Italia. Francia era riferimento artistico e culturale. Le famiglie abbienti mandavano i figli a studiare all’estero. Conobbi vari professionisti con studi superiori in Francia e Canadà e non era raro incontrare un medico formato negli EE.UU. Nel campo della salute, Venezuela aveva avuto vari risultati nella lotta contro le malattie tropicali contagiose.
Il Sud America era rappresentato dai tanti esiliati delle dittature del Cile, Uruguay, Argentina, Brasile. Ne ho conosciuti vari con storie tragiche di scomparse di familiari e persecuzioni.
In fin dei conti, gli anni passati nella Terra di Grazia, così la chiamò Colombo allo sbarco sulla costa, equivalgono alle anime che sono apparse sul palco del mio vissuto condiviso, alimentando ciò che ho pensato, sentito e voluto con loro. I primi tempi ero naturalmente spaesato e isolato, e ciò mi spinse a fare nuove amicizie. Le persone conosciute mi apparivano più predisposte per la novità, la creatività, con saperi semplici e profondi, libere da compromessi intellettuali e poco disposte a cristallizzare le loro convinzioni e scambiarle con erudizioni. L’erudito e il saccente sono stato io per un certo tempo, finquando fu crollato quel piedistallo su cui il sapere europeo si era montato. E dal quale discesi impercettibilmente, nella misura in cui appresi a leggere e conoscere, e allora si aprirono orizzonti sconosciuti. Strumento di questo procedere fu pur sempre il repertorio culturale occidentale, ma mi cimentai onestamente di fronte alle visioni del nuovo e dell’incognito. Ebbi i miei intrecci sentimentali e i primi entusiasmi, mi lasciai coinvolgere, registrai stupori ed emozioni in un tempo che si dilatava e mi accoglieva. Ero pur sempre uomo occidentale che per circostanze del destino si era inoltrato nel cosiddetto Nuovo Mondo, che non era affatto nuovo. Insoddisfatto di ciò che ha lasciato indietro, aperto al destino. L’esplorazione della geografia venezuelana, la navigazione sui fiumi, le interminabili piogge, la costa e il mare dei Caraibi, le Ande, unito a qualche avversità e contrattempi furono metafore di quando saggiamo passo a passo il cammino della vita per intravedere il destino, fino ad esserne, eventualmente, artefici.
In fondo l’informalità, la flessibilità e l’approssimazione sono stati poi uno sfogo per la mia anima. E poi l’essere nato a Napoli ed averci vissuto tre decenni mi dette quel passaporto di informalità sufficiente ad essere riconosciuto come originario del Sud, e persone avvedute riconobbero la mia affinità con le loro origini latine.
Appresi tanto accettando gli eventi giornalieri e la ricchezza dell’imprevisto. La vita mi è apparsa sempre più ricca di quanti oroscopi e pronostici.
Riconobbi a poco a poco le impronte del mescolamento etnico conseguenza delle invasioni, conquiste e incontri tra popoli diversi, tra i nativi, gli originari dell’Africa e quelli di discendenza europea. Riconoscibili ad una visione attenta nei tratti fisionomici ereditati. Quel mescolamento ha fecondato anime, sensibilità e modi di essere. Naturalmente, la presenza di afro discendenti era ed è prevalente nella vicinanze delle coste, e lascia sempre l’impressione di esclusione strisciante, di un velato razzismo nelle sfumature linguistiche. Mi colpivano particolarmente le differenze di condizione sociale evidenti sul territorio urbano delle città, dove a lato di edifici moderni e di urbanismo a livello europeo si addensavano quartieri di costruzioni precarie e misere a dir poco. Mi furono vietate le cosidette zone rosse dove, si diceva, albergava insicurezza e criminalità. Eppure, una volta mi addentrai, non ricordo più il motivo. Come esprimere in parole quella sensazione provata entrando in una casa povera, se non evocando l’immagine del colore umile? Le pareti con colori spenti, stanchi, polverosi. Mi sedetti dove era possibile. Accettai una tazzina di caffè, riscaldato al momento, condivisi il sentimento di chi ha poco, lo condivide e lo mette a disposizione. Soprattutto, il silenzio. Ma l’impressione dei colori spenti persisteva, rivelava l’esistenza fatta di carenze vissuta tra le quattro pareti. Conobbi la Caracas delle classi alte, la zona dei Musei e degli eventi culturali, il Teatro Teresa Carreño, l’Ateneo, Los Espacios Càlidos, i Parchi. Caracas ed altre città erano a metà degli anni 80 sedi di mostre d’arte, di cinema e teatro di buona qualità. Ebbi la fortuna di conoscere presto persone che facevano capo alla Sezione locale di Amnesty Internacional, tutte di origine latino americana. E col passare del tempo riuscii a leggere in originale García Márquez, Roa Bastos, Borges, Bioy Casares, Octavio Paz, Alfonsina Storni ed altre spiritualità dell’idioma castigliano. Me ne rallegrai tanto e ne trassi motivo di sforzi rinnovati per poter apprezzare questo idioma arricchito da tante espressioni in voga in Colombia, Argentina, Messico. Cominciai a conoscere riviste d’arte e culturali, autori e autrici ancora sconosciuti in Europa, e la lingua italiana cedette il campo, rimase una risorsa che limitavo a telefonate o una esclamazione dialettale spontanea. Evitavo contatti con compaesani e seguivo l’impulso a frequentare persone che parlassero spagnolo. Ma sempre il mio parlare fu tradito da sedimenti irriducibili della lingua materna, nonostante il mio impegno nel far sentire la “esse” finale o caricando la “j” oltremisura. Tante volte le persone mi smascheravano scherzosamente assegnandomi all’Italica Penisola, o confondendomi con argentino o cileno. Altri più attenti riuscivano anche a scoprire la regione d’Italia! Invece, nella scrittura in spagnolo mi sono sempre sentito più sicuro nella calma della riflessione e ho potuto fruire del patrimonio di parole disponibili per chi voglia portarle alla luce sulla carta. La redazione di appunti e relazioni fu il mio primo impegno e acquistai presto una certa pratica apprendendo a sufficienza per essere preciso e sintetico. Ero facilitato naturalmente perchè la frase in linguaggio scientifico è priva di sfumature e va diritto a formule e concetti chiari. Come dimenticare le prime volte in classe quando il mio idioma traballante suscitava ilarità per l’accentuazione sbagliata e l’uso di parole improprie e fuori constesto! Meno male che le formule sulla lavagna non erano ambigue e solo rimaneva la lettura da pronunciare correttamente. In ogni modo, ebbi studenti pazienti e comprensivi. Evitai per quanto possibile l’uso del tu, frequentissimo in Venezuela, il che mi dava un certo rango le prime settimane. Il ritmo della Università era intenso soprattutto la mattina quando la temperatura era ancora accettabile, poi calava nelle prime ore del pomeriggio e tutte le attività rallentavano. Ricordo sempre la pioggia all’uscita per la convergenza inter tropicale. Eravamo in un capannone al lato della fabbrica Fiat di Venezuela e si usavano solo ventilatori quando il caldo diveniva intenso.
Ricordo vari episodi accaduti nel Venezuela degni di essere segnalati.
Tante esperienze nella Terra di Grazia furono insolite. Mi sorprendevo facilmente, cercavo di essere attento, esploravo con precauzione il cammino, ma allo stesso tempo ero incuriosito dai nuovi costumi culturali. Una volta morì tragicamente in un incidente stradale un vicino della fattoria dove abitavamo, agricoltore molto stimato. Mi offrii per collaborare con il servizio funebre, si trattava di portare a spalla il feretro dall’auto alla piccola Chiesa del paesello, poche decine di metri da percorrere tra due gruppetti di conoscenti e famigliari. Io cercavo di avanzare lentamente sollevando la bara, ma i miei compagni iscenarono una specie di balletto improvvisato muovendosi avanti e indietro, avanti e indietro, e rischiai di perdere l’equilibrio. Fino a che mi sussurrarono: così va condotto il defunto, vuole dare l’impressione di incertezza di fronte al mistero, di indecisione prima di varcare la soglia dell’aldilà.
Un’altra volta eravamo andati alla Laguna di Sinamaica al confine con la Colombia, avevamo alcune amicizie tra le donne indigene della Goajira per via dell’artigianato di tappetini e federe, tessuti con vivaci colori. Il caso volle che c’era la commemorazione postuma di un parente sepolto trenta giorni prima nel Cimitero indigena. Era costume dirigersi direttamente al Cimitero, e lì parenti e amici rimanemmo varie ore tra i modesti monumenti condividendo ricordi e un paio di bottiglie grandi di rum. Si beveva rum Pampero in bicchierini di plastica, senza ghiaccio, senza possibilità di diluire almeno con acqua. Ricordo una giornata soleggiata, apparvero amache e sediolini che furono disposte tra le tombe, le quali erano rivestite in maggioranza con piastrelle decorative, umili e semplici, testimonio spontaneo della auto costruzione. L’auto costruzione di casette e umili dimore è pratica comune. Le conversazioni erano amene tra gruppetti come una festa domenicale, si cercava riparo dal sole all’ombra degli alberi. A una certa ora, già avanzato il giorno, già con varie bottiglie vuote, le donne si disposero a sacrificare una capretta portata apposta, la quale in poco tempo fu destinata a una agape fraterna. Apparvero pentole, si accese il fuoco, di lì a poco la carne fu servita con spaghetti, e il napoletano mangiò senza proteste per la cottura della pasta e l’insolita preparazione, anzi ringraziando per il pranzo improvvisato che contrastava l’ebrietà. Un’esperienza che poche persone possono vantare quella di aver pranzato in un Cimitero!
I compleanni in Venezuela costituiscono appuntamenti religiosamente condivisi. L’onomastico invece è quasi sconosciuto, i nomi delle persone non richiamano i santi cattolici ma sono una composizione creativa che risponde alla multi etnicità, alla sonorità implicita, a una ispirazione repentina al momento della nascita. Ricordo appunto un compleanno in casa di una cara amica con varie persone, allietato da musica. Era un ambiente festivo, emozionato e, come è tradizione, con abbondanza di birra e rum. Ad un certo punto mi spostai in cucina per preparare qualcosa da mangiare, sempre nel tentativo di ridurre gli effetti dell’alcol. Arrivato il momento di cantare gli auguri e di tagliare la torta ci accorgemmo che la festeggiata padrona di casa era…. da alcuni minuti crollata a dormire ebria sul letto. Sorpresi e incerti sul da farsi, ci ritirammo in buon ordine. Non cantammo nè tagliammo la torta che rimase lì sul tavolo.
La casa nella fattoria fu una volta teatro di un vento di arte plastica. Una amica di Puerto Ordaz e un’altra amica poeta dello Stato Tàchira organizzarono la esposizione di quadri di una coppia di artisti residenti a Guatire, entrambi pittori. Il motivo era quello di riuscire a vendere qualche quadro, e si approfittarono tutte le pareti della casa e del chalet. L’evento fu pubblicizzato nell’abituale circolo di amicizie di Maracay, vennero in tanti, finanche un marchant d’arte conosciuto. Per alcune ore arrivarono persone conosciute a frotte per percorrere l’esposizione e approfittare del generoso buffet, con un entusiasmo degno di una migliore causa. Dopo l’inaugurazione, con il tradizionale taglio del nastro e i discorsi, aprimmo il buffet e si formarono allegri gruppetti intorno ai tavoli. Devo dire che non si vendette nulla. Noi due come anfitrioni comprammo la sera un quadretto per sollevare la morale della coppia. All’imbrunire, con pochi intimi una cenetta chiuse l’evento e stendemmo un velo pietoso di silenzio su quello che sarebbe potuto essere e non fu.
Trovavo in tali episodi un nuovo sentimento di realtà, molto più diretto e quotidiano. La scoperta del Reale Meraviglioso appartiene di diritto ad Alejo Carpentier, scrittore cubano con radici in Belgio e una lunga permanenza nel Venezuela. Si tratta di una nuova percezione della realtà in cui confluiscono tradizioni, etnie e costumi diversi in feconda combinazione, una realtà dunque arricchita dalle tante possibilità, dall’insolito vissuto intensamente, dunque fonte di scoperte inattese. Dietro un semplice avvenimento si possono allora scoprire differenti contributi che Vecchio e Nuovo Mondo si scambiano, ma allora non siamo più tanto certi che il Vecchio Mondo sia quello occidentale, anzi.
Durante un viaggio a Güiria, nell’estremo oriente del Venezuela a circa 10 ore di strada, in una delle nostre frequenti uscite per rinnovare l’immaginario e conoscere meglio le bellezze del territorio, ci imbattemmo nel porto omonimo in una escursione che si accingeva a prendere il mare per arrivare a Macuro sulla costa dei Caraibi. Macuro, chiamato anche Puerto Colòn, è il luogo dove Cristoforo Colombo toccò per la prima volta la terra del Continente nel suo terzo viaggio alle Indie. Ci unimmo entusiasti alla gita, e una volta sbarcati visitammo uno splendido terreno con piante di cacao e banane, un torrente di acque cristalline che scendeva fino al mare, il tutto in mezzo a una vegetazione lussureggiante. La penisola di Paria è spesso battuta dalle piogge ed ha quell’aspetto lussureggiante che fece esclamare all’Ammiraglio di trovarsi in una Terra di Grazia. Ne parlammo col proprietario, ci avrebbe ceduto terreno, piante di cacao, finanche un asino; alimentammo le nostre fantasie una notte intera, per poi rinunciare. Il ritorno al porto di Güiria fu avventuroso perchè bisognava avvicinarsi alla zona di confluenza delle acque dei Caraibi e quelle dell’Atlantico, a poca distanza dalla Boca del Dragòn il cui nome evoca acque turbolente, come Colombo aveva segnalato. Eravamo a bordo di una lancia veloce della Guardia Nacional, ed assistetti a una scena degna del migliore reale meraviglioso, quando al timoniere sfuggì di mano il manubrio, certamente mal avvitato, e dovette manovrare con le dita della mano afferrando solo l’asse! Per giunta eravamo senza luci di posizione. Comunque, rientrammo nel porto senza maggiori inconvenienti superando le onde e i marosi.
FILOTEO NICOLINI
Immagine: Hector Poleo, artista plastico venezuelano