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di Luca Billi 14 settembre 2016
In questi giorni abbiamo parlato – e sparlato – di Roma, forse dimenticando quanto sia bella quella città. Voglio attirare l’attenzione dei miei pazienti lettori su una piccola notizia che riguarda la capitale e il suo patrimonio artistico. Tra qualche giorno sarà riaperta la scalinata di Trinità dei Monti, dopo i lavori di restauro e di ripulitura finanziati da Bulgari. Il presidente della notissima casa di moda, facendosi forte dei molti soldi che ha speso – e da cui la sua azienda ricaverà vantaggi fiscali e una grande pubblicità – propone di mettere una cancellata che chiuda la scalinata, affinché non torni – come dice lui – un bivacco. Bulgari infatti auspica che le persone non possano più sedersi su quei famosissimi scalini, ora ripuliti a sua spese.
Una prima riflessione: la scalinata di Trinità dei Monti prima di essere una delle “cartoline” più famose di Roma è appunto una scalinata che, nella città dei sette colli in cui questi ripidi passaggi sono inevitabili, collega il Pincio e piazza di Spagna. Ed è, come tale, uno spazio pubblico, che non rientra tra le proprietà della maison Bulgari, per quanto denaro abbia versato per il suo restauro. Se finanzi un restauro non diventi padrone dell’opera, che deve essere lasciata alla sua funzione, nel caso specifico quella di essere una scala che collega due punti e su cui è possibile anche sedersi, su cui le persone si sono sedute per secoli, anche prima del turismo di massa. Purtroppo nel tempo in cui tutto si può comprare, immagino sia difficile convincere di questo il signor Bulgari.
Al di là della proterva arroganza di questo personaggio, che, essendo molto ricco, si crede padrone di questo pezzo dell’Urbe, il tema è molto interessante perché pone a tutti il problema di come vivere una città. E ci interroga sulle nostre città, sul progetto che abbiamo per queste realtà, specialmente quando hanno una storia così lunga e complessa, come appunto è quella di Roma.
Immagino che l’idea di “chiudere” la scalinata di Trinità dei Monti troverà molte persone favorevoli perché in questo secolo sembra ormai assodato che si debba conservare tutto, esattamente come lo abbiamo trovato. Eppure siamo i primi a ragionare in questo modo. Quando entrate in una qualsiasi chiesa del nostro paese, anche se non siete esperti d’arte, vedete che in quell’edificio hanno lavorato molte persone, in tempi molto diversi, riconoscete gli interventi fatti nei secoli successivi a quello in cui è stata costruita. Spesso queste aggiunte sono poco felici – o almeno appaiono a noi così, mentre a quei tempi piacevano – eppure quella chiesa ormai la conosciamo così, con il suo, a volte disomogeneo, impasto di stili. Noi abbiamo deciso che quella è la forma definitiva di quella chiesa, che quella chiesa non potrà mai subire alcuna modifica. E infatti, se un terremoto fa crollare quella chiesa, pretendiamo che venga ricostruita dov’era e com’era, con la sua abside barocca al termine di una navata romanica, e le sue decorazioni settecentesche, malamente restaurate alla fine dell’Ottocento. Pensate a un nostro pronipote che tra cinque secoli entrerà in quella stessa chiesa: la troverà esattamente come l’hanno lasciata i nostri bisnonni dell’Ottocento e chissà cosa penserà di noi del Novecento che non abbiamo lasciato alcun segno su quel monumento. Certo vedrà le chiese costruite da noi, belle o brutte giudicherà lui – così come le giudichiamo noi – magari leggerà i nostri dibattiti sul tema del restauro, ma gli rimarrà l’impressione di una sorta di buco. Pensate che opportunità sarebbe per le giovani artiste e i giovani artisti poter lavorare in questi cantieri, poter dedicare la propria passione e il proprio genio a modificare questi capolavori, in un confronto continuo con l’antico. Io sono convinto che i nostri pronipoti ce ne sarebbero grati.
E pensate a come cambia continuamente una città. Se pensiamo a Parigi ci vengono in mente la Tour Eiffel, i grandi boulevard, i palazzi così caratteristici di quella città, eppure questa è una Parigi “moderna”, la città ridisegnata da Haussmann nel Secondo Impero e poi quella “creata” per l’Esposizione universale del 1889. Questi interventi hanno in gran parte stravolto la capitale francese, perché è stato necessario radere al suolo molti edifici e ridisegnare l’impianto stesso della città. Anche allora non mancarono le polemiche, i rimpianti, ma quella era la città di cui i cittadini avevano bisogno e di cui si voleva trasmettere l’immagine al mondo e si andò avanti. Oggi sarebbe impensabile fare un intervento del genere e forse non sarebbe neppure giusto farlo con quelle proporzioni e quella mancanza di rispetto per il passato, ma certo quello che manca è proprio l’idea di città che si vuole costruire. E quindi, non sapendo bene cosa fare, ci rifugiamo nel rispetto, asettico e poco rischioso, della città-museo, della città in cui non è possibile spostare una pietra, in cui è obbligatorio tenere tutto com’era, anche a scapito dell’uso che se ne vuole fare.
Chiudiamo pure la scalinata di Trinità dei Monti, trasformiamo pure quel passaggio in una sorta di tableau vivant, in cui non è possibile sedersi né mangiare né fermarsi, e cosa avremo ottenuto? Una bella immagine da offrire ai turisti, tanto la nuova cancellata si potrà sempre togliere con photoshop, un luogo in cui fare le sfilate di moda della maison Bulgari, magari una location da affittare a chi se lo potrà permettere – così come affittano Ponte vecchio e il Colosseo e ogni altra cosa abbiano per le mani – ma avremo tolto alla città una spazio da vivere, e da sporcare. Forse lungo la scalinata di Trinità dei Monti, visto che viene usata per sedersi e per mangiare, sarebbe bene mettere dei cestini, magari belli, magari di un disegn così moderno che, quando tra cinque secoli i nostri pronipoti guarderanno quel monumento, apprezzeranno la scala e i bidoni, così come noi apprezziamo le cose giustapposte dai nostri bisnonni sui monumenti creati dei loro bisnonni. Ovviamente non bastano alcuni cestini dei rifiuti per immaginare l’idea di una città, ma almeno servirebbero a renderla più pulita. Servirebbe investire sulle città, coinvolgere i giovani architetti, i giovani studiosi di arte, i giovani artisti – e non solo i quattro tromboni che vediamo in televisione – servirebbero intelligenza e coraggio, servirebbe ricominciare a studiare, che è difficile, ma è l’unico modo per costruire il futuro, attraverso il passato. E l’unico modo per restaurare la nostra società.