Fonte: Il Manifesto
Url fonte: http://www.altraeuroparoma.it/blog/renzismo-sarebbe-meglio-parlare-di-cosa-vogliamo-noi/
di Aldo Carra – 31 ottobre 2014 –
Nell’analizzare la “redistribuzione renziana” abbiamo scritto (il manifesto del 18 ottobre) che si tratta del passaggio dalla lotta di classe all’invidia di classe (chi ha un lavoro è più privilegiato per chi non lo ha, chi lo ha fisso rispetto a chi è precario…). Di fronte ad un processo così devastante, che penetra nelle pieghe e nelle piaghe sociali del paese, la sinistra corre dei rischi enormi: tra i due populismi, renzismo e grillismo, che si alimentano a vicenda e che superano entrambi la distinzione destra-sinistra, la sinistra rischia di restare schiacciata e di apparire come un inutile residuo del passato.
Sottrarsi a questa morsa non è facile, ma è di questo che dovremmo parlare nel dibattito che si è aperto. Dovremmo farlo, però, partendo dai problemi e dai soggetti sociali che ci interessano e cercando di non fare riemergere due nostri vecchi vizi: quello dei confini — la sinistra si autodefinisce in funzione della distanza che prende dal Pd o dalla vicinanza a Rifondazione – e quello delle “certezze” che stanno, spesso, più nel dire quello che non vogliamo, piuttosto che quello che vorremmo.
Questi vizi ci hanno portato nel pantano in cui ci troviamo oggi.
Sarebbe meglio, perciò, parlare di cosa vogliamo, di come pensiamo di raggiungerlo, e mettere sul piatto i nostri dubbi ed i nostri travagli con la massima franchezza e correndo il rischio di sbagliare, rischio che fa parte di qualunque ricerca. Il mondo del non lavoro di cui ci stiamo occupando è, a mio parere, il tema numero uno da affrontare. Come pensiamo di parlare con i soggetti che lo compongono, indicando percorsi credibili che diano speranza, che li coinvolgano e li facciano diventare protagonisti del loro futuro?
Nell’80 la fascia a basso reddito era tassata del 10%, la più alta del 75%. Oggi sono al 23% e al 41% Naturalmente le coordinate di fondo non possono che essere queste: investimenti pubblici per creare nuovo lavoro, riconversione del modello di sviluppo e, per reperire le risorse necessarie, redistribuzione dall’alto verso il basso. Per fare questo non ci sono altri strumenti che la tassazione dei grandi patrimoni con aliquote progressive ed una maggiore progressività della tassazione dei redditi (in Italia, nel 1980, l’aliquota sulla fascia di reddito più bassa era del 10% mentre quella sulla fascia più alta era del 72%; oggi l’aliquota sui redditi più bassi è salita al 23%, quella sui redditi più alti è scesa al 41%). Quindi lotta all’evasione, tassazione dei grandi patrimoni e progressività sono le stelle polari che debbono orientare la politica fiscale e redistributiva della sinistra.
Ma riaffermare questi principi generali non è sufficiente, né convincente perché la globalizzazione ed il ricatto della fuga dei capitali verso i paesi a più bassa tassazione rendono difficile la realizzazione a breve di quegli obiettivi. Per realizzarli serve una nuova politica europea che superi l’austerità, che unifichi i bilanci dei paesi, che promuova investimenti per una nuova politica industriale.
Insomma un’Altra Europa. Obiettivi per i quali ci vogliono tempo, alleanze, processi.
C’è poi un’altra domanda che non possiamo eludere: pensiamo veramente che, anche se dovessimo riuscire a sconfiggere l’austerità e ad attivare un nuovo modello di sviluppo, sia possibile creare occasioni di lavoro sufficienti per quegli otto milioni di senza lavoro di cui abbiamo parlato mentre, nel frattempo, fioccano chiusure e crisi che espellono altri lavoratori oggi occupati?
Francamente penso di no e penso che, per essere credibili, dobbiamo elaborare e proporre la “nostra” idea di redistribuzione del lavoro nella società contemporanea. Nel confronto con gli altri paesi europei siamo tra quelli con la disoccupazione più alta, ma anche un paese in cui i pochi occupati che abbiamo lavorano molto di più della media europea. Questo fenomeno è dovuto alla minore presenza in Italia di lavoro a tempo parziale ed al maggiore ricorso al lavoro straordinario: se si allineassero le ore di lavoro all’Europa, si potrebbe creare qualche milione di posti di lavoro in più.
Possiamo allora non affrontare seriamente il tema della redistribuzione delle ore di lavoro? Certo il tema è delicato, ma una sinistra che voglia guardare al futuro deve affrontarlo e ragionare su modalità, forme e tempi. Alcune precise proposte esistono.
1. Abbassare l’età pensionabile rendendola flessibile per permettere al singolo lavoratore o di andare in pensione prima con una pensione ridotta, oppure di ridurre il suo orario di lavoro, negli ultimi anni del percorso lavorativo, consentendo, così, all’azienda di assumere nuovi dipendenti a tempo parziale e contrattualizzando questa transizione;
2. Ridisegnare l’imposizione fiscale e contributiva in base all’orario di lavoro imponendo una aliquota più ’62assa per il lavoro part-time, più alta per l’orario normale, più alta ancora per il lavoro straordinario;
3. Detassare i contratti aziendali di solidarietà, per governare i processi di ristrutturazione, riducendo al minimo licenziamenti e disoccupazione connessi a crisi aziendali;
4. Istituire contratti di solidarietà territoriali, di “solidarietà espansiva”, che consentano, in settori di lavoro non attraversati da crisi aziendali, di contrattare riduzioni di orario in cambio di nuove assunzioni.
Naturalmente questo percorso implica misure di difesa dei redditi esistenti e, per ridurre al minimo la perdita di potere d’acquisto, si dovrebbe agire sulla riduzione degli oneri sociali come si è fatto in Germania con alcuni contratti di solidarietà che hanno fatto scuola in materia. Ma non c’è dubbio che queste ed altre scelte simili potrebbero contribuire a creare nuovi posti di lavoro e rispondere in maniera più convincente al mondo di cui stiamo parlando.
A questa linea di redistribuzione si dovrebbe affiancare, inoltre, anche una credibile proposta di reddito di cittadinanza. Proposte in materia sono in campo, ma esse hanno un punto di debolezza nel carattere assistenziale che esse assumono se sganciate da una prestazione lavorativa. Un modo per superare questi limiti potrebbe essere quello di configurare un reddito di “cittadinanza attiva” e cioè di collegare il reddito erogato a prestazioni lavorative effettive.
Ma la leva fiscale da sola non è sufficiente per ridurre il divario sociale e cambiare la mappa del lavoro.
Si può, cioè, pensare ad un segmento nuovo di lavoro e di reddito: quello del “lavoro di cittadinanza attiva” connesso a prestazioni lavorative di utilità sociale, sia come sostegno minimo per chi non possiede altri redditi, sia come reddito integrativo per compensare riduzioni di orario e di retribuzione volontarie o necessitate, ma sempre connesse ad una prestazione di lavoro da effettuare per la collettività sulla base di precisi progetti territoriali. In questa direzione va il tentativo, in atto in Puglia, di istituire un “lavoro minimo sociale di cittadinanza”.
Ci sarebbe il rischio di ripetere la triste esperienza dei lavori socialmente utili? Questo rischio si potrebbe evitare adottando una modalità nuova di finanziamento dei progetti locali. Essa potrebbe consistere nel condizionare il finanziamento al raggiungimento di obiettivi precisi, misurabili e certificati e trasformandolo in “finanziamento vero e proprio” in caso di obiettivi raggiunti ed in “prestito da restituire” in caso contrario.
Una redistribuzione di lavoro e reddito come quella tratteggiata contrasterebbe le spinte alla frammentazione ed alla contrapposizione che il renzismo alimenta e sfrutta, darebbe sollievo alle situazioni di maggiore disagio economico, creerebbe convergenze tra chi sta dentro e chi sta fuori dal mercato del lavoro, contribuirebbe, quindi, ad un processo di riunificazione del variegato mondo del lavoro di oggi.
Una redistribuzione, insomma, alternativa a quella proposta dal governo che potrebbe dare un respiro nuovo ad una sinistra del ventunesimo secolo.
pubblicato su il manifesto del 1 novembre 2014