Fonte: facebook
di Michele Prospero 26 settembre 2014
L’editoriale del sempre cauto, per quanto smemorato terzista, Ferruccio De Bortoli che, alla stregua di un Piero Pelù qualsiasi, denuncia il cattivo “odore di massoneria” sprigionato dal patto del Nazareno (perché però rimuovere il senso politico-tattico recondito e non meno inquietante del viaggio segreto dell’allora gigliato sindaco, visitator cortese nella villa della lussuria sita in Arcore?); le indiscrete lenti della procura genovese che indaga sulla vita spericolata delle aziende di famiglia. Insomma, per Renzi è cominciato un periodo difficile: anche gli alti prelati lo guardano in cagnesco.
I conti con il renzismo, come con qualsiasi fenomeno politico rilevante e dai riflessi apertamente degenerativi nel loro impatto istituzionale, devono però essere politici, non di altra natura. E, proprio nel versante della politica, crescono i segnali di uno sgretolamento irreversibile della coalizione delle grandi potenze (in primo luogo economiche e mediatiche) che avevano accompagnato Renzi prima alla segreteria e poi a Palazzo Chigi.
La carta di una nuova parentesi “comica” come preferibile alla soluzione di impronta tecnica (di cui Letta in fondo era una riedizione, con talune iniezioni all’insegna di un timido ritorno della politica) si è rivelata del tutto infruttuosa. Gli indicatori dell’economia reale non lasciano speranze. E i signori del denaro a certe curve negative degli affari sono particolarmente sensibili. Per questo non possono più evitare un bilancio a tinte fosche dell’anno renziano e sono costretti dalle cose negative a pensare alle contromisure necessarie per riparare ai guai del loro incauto affidamento.
Una stagione comica con un nuovo e più colorito repertorio, rispetto all’usurato avanspettacolo di un attempato Berlusconi, era da molti auspicata per ridurre il peso dei poteri forti di matrice bancaria-finanziaria, con influenti vertici accasati nei piani alti della Bce (e di cui Letta era un garante accorto) e conferire un maggiore ruolo di pressione ai capitani delle industrie manifatturiere (Marchionne, Squinzi etc.) che invocavano aiuti sonanti, in denaro o in norme favorevoli, e brandivano lo scettro padronale nelle nuove relazioni sindacali.
Da una cospicua componente dei poteri forti lo stile di Renzi è percepito come quello di un politico inaffidabile perché il suo abito comico-populista (battute, siparietti con il gelato, annunci a ripetizione, imitazioni, scherzi, slogan disarmanti) non aiuta l’adozione di risoluzioni efficaci, di quelle misure inevitabili da varare secondo i rigidi (e fallimentari) parametri dell’austerità e del rigore. La preferenza per un ritorno di stile, per un bagno di devota attenzione rispetto alle sacre compatibilità europee, ispira chi tra le élite deluse cerca una sostituzione di Renzi con personalità in grado di rinverdire il filone tecnico inaugurato con Monti.
Poco credibile come politico autorevole, in grado in un sussulto di realismo di ridare ordine ai conti e di progettare la ripresa gestendo gli inevitabili costi sociali dei sempre in auge tagli lineari, Renzi è anche screditato come politico dell’innovazione che, in esplicita controtendenza rispetto al paradigma liberista che in ogni angolo lascia solo macerie sociali, sfida i parametri europei ancora ciecamente dominanti. Non è infatti possibile che proprio il nemico giurato del sindacato che agita lo scalpo del dimezzamento dei permessi, il censore dell’amministrazione pubblica piena di grasso che cola, il denigratore del lavoro dipendente come un dorato mondo abitato dai titolari di vetusti e ingiusti diritti, si tramuti in un alfiere di una nuova sinistra europea sensibile alle nuove domande di eguaglianza e di critica dell’esistente.
Per sopravvivere Renzi intende arroccarsi in una trincea indifendibile: seguire gli ordini dell’Europa, che minaccia di destituirlo con inflessibili commissari sempre ligi al santo rigore, e però addolcirli con i ritrovati della comicità con i quali il leader sempre parlante simula le maniere di un inflessibile castigatore dei politici, di un persecutore dei giudici perditempo, di un censore dell’amministrazione pubblica, di un giustiziere del conservatorismo dei diritti del lavoro.
E’ un bene che la minoranza del Pd torni a fare politica per non restare spettatrice nel lungo duello tra i due ceppi del capitalismo italiano per accaparrarsi risorse e influenza. Con la mistica della rottamazione, tutti i dirigenti di provenienza Pci sono stati messi alla porta e irrisi in pubblico come campioni inservibilidi una vecchia guardia di eterni perdenti. Recuperare le chiavi interpretativeper una lettura critica della società e dei suoi conflitti non sarà agevole.
Senza una coerente e ferma resistenza interna al cammino verso un partito invertebrato, vince la strategia della omologazione in salsa fiorentina che edifica trame di sostegno servile alla persona sola al comando e accantona culture, smobilita organizzazioni, spezza legami storici con le classi lavoratrici e le loro rappresentanze.
E’ inutile, per contrastare la deriva verso il partito personale, invocare un pronunciamento della direzione, ridotta a luogo della sceneggiata con il capo che gioca, riceve stucchevoli acclamazioni dai suoi tifosi, chiama tutti per nome, e parla di ogni cosa senza mai seguire una relazione ben strutturata. Emerge in fondo, nell’uso strumentale che Renzi fa della direzione come mera occasione per la conferma della piena sovranità del capo, la carica potenzialmente autoritaria che una torsione personalistica delle primarie aperte può comportare.
Con un sostegno dell’80 per cento dei membri della direzione (i posti al Nazareno sono concessi non in virtù delle percentuali riscosse dei congressi di sezione ma del voto di tutti i passanti ai gazebo!), il segretario unto dalle primarie riceve una delega assoluta che utilizza per minacciare, spegnere, irridere persino. Il confronto e la critica non sono tollerati in un non-partito ad una sola dimensione, quella del capo in campagna elettorale quotidiana che non sopporta differenze e reclama obbedienza.
Ad un luogo ormai inutile di supina ratifica di scelte già prese altrove, la minoranza di sinistra dovrebbe preferire il confronto reale fra gli iscritti e nei gruppi parlamentari. In queste “zone di incertezza”, e non nella direzione che è priva ormai di ogni effettiva autorevolezza politica, è possibile incalzare Renzi fino ad indurlo a più miti consigli. Non esiste in Europa un leader di partito e un capo di governo che non siano anche un riconosciuto e rispettato leader parlamentare.
Imbrigliarlo, metterlo sempre più sotto tutela, costringerlo alla resa esplicita sui punti nodali, e indurlo ad obbedire ad una logica di partito, e quindi in sostanza obbligarlo alle direttive dei gruppi parlamentari, è possibile ora che tutti ammettono che non è affatto vero che dopo Renzi c’è solo il diluvio. Tirare la corda del contrasto e agire a viso aperto non solo è possibile, è necessario. La fiducia e la sfiducia ai governi e ai loro leader la conferiscono ovunque i gruppi parlamentari. E’ in aula che la sinistra dovrebbe spingere Renzi ad ammainare la sua insana vocazione di potenza e a riconoscere, nelle asperità di ogni giorno, il suo hic rodhus hic salta!
Articolo inedito del prof. MicheleProspero
1 commento
Pienamente d’accordo con il prof. Stupenda “la insana vocazione”.