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di Michele Prospero 28 aprile 2016
Quando Renzi gettava il guanto della sfida contro Davigo, e lo esortava a fare nomi e cognomi dei politici condannati, aspettava l’elenco dei reprobi, ma solo per invitarli al Nazareno o in parlamento a contrattare. E avviene così che un Pd ferito, colpito al cuore dalla questione morale, cerchi la via del risanamento stipulando un accordo di legislatura con l’immacolatissimo Verdini, il profilo giusto per una grande ricarica etica.
Mentre il giornale apocrifo,oltre che con l’Anpi e i costituzionalisti canuti, se la prendeva con Saviano, dipinto come “il mafiosetto”, le procure, interessate alle vicende criminogene delle mafie reali, mettevano nei guai il presidente campano del Pd. Per risolvere le grane di un partito rimasto acefalo, con una élite locale accusata di autentiche nefandezze nel governo del territorio, Renzi pensa di ricorrere al corpo riparatore di De Luca. Esempio di un’assoluta e incondizionata etica della convinzione di chi, per essere eletto governatore, aveva caparbiamente respinto qualsivoglia intesa con liste dalle candidature equivoche.
Dopo la caduta di Graziano, la parabola triste di un tipo intraprendente come Genovese, traghettatore divenuto leader del Pd in Sicilia, lo scioglimento per mafia di comuni in Emilia, la melma di mafia capitale, gli strani intrecci con Cosentino e i casalesi, gli arresti in Calabria e in Basilicata appare evidente che cosa sia la “politica” che il presidente del consiglio intende difendere dalle intrusioni della magistratura. Un comitato d’affari che in troppi luoghi stravolge il senso stesso del fare politica.
Lo scontro tra Davigo e Renzi è per questo surreale. Una politica che ha smarrito autonomia di pensiero e di organizzazione, e sempre più appare come il prolungamento in sedi istituzionali degli appetiti famelici di gruppi in cerca di oro, non difende certo la funzione del pubblico e la responsabilità della decisione combattendo le espressioni forti dell’Anm. Cercando lo scontro con la magistratura, non è la politica che viene preservata nella sua alta dignità ma la opaca contaminazione di potere e denaro che divora le istituzioni.
Deve essere chiaro che non esiste una astratta conflittualità tra politica e magistratura. Il senso del contrasto, che può sorgere tra toghe e potere, dipende sempre dalle condizioni particolari, che sono mutevoli. Non c’è dubbio che, nei primi anni ’90, l’impatto politico delle inchieste di mani pulite fu la liquidazione di un sistema di partito. Il regime non fu emendato dalla corruzione tramite la comparsa delle procure nelle sedi di partito ma, al di là delle intenzioni,venne liberato dalla residuale indipendenza della politica dai gruppi economici e finanziari dominanti.
Un sistema di partito debole, per l’esaurimento del ciclo storico-politico post-bellico, fu travolto dalle indagini senza che nel corso di un ventennio siano più ricomparse le forme autorevoli di una politica organizzata. La colpa del declino democratico non ricade però sull’accanimento dell’azione penale sulle macerie di un regime in disfacimento ma sulla fragilità mostrata dai ceti politici nell’opera di ricostruzione della mediazione di partito.
Oggi l’esecutivo si vanta di aver riscoperto il primato della politica e inveisce contro il giustizialismo che minerebbe le condizioni del buon governo. Questa immagine però non regge perché ad essersi dileguata è la politica come impresa collettiva in conflitto con il capitale per la trasformazione sociale. Il passaggio che si è consumato dagli anni ’90 ad oggi sembra essere questo. Dall’uso politico della corruzione, il sistema è precipitato alla corruzione organica della funzione politica. Il potere è appannaggio di centri privati e le decisioni sulla destinazione delle risorse sono oggi concordate tramite sms o influenze oblique.
Tra politica ed economia sfuma ogni significativa distinzione. Non suggerisce nulla l’immagine del presidente del consiglio che si fa riprendere ancora una volta in luoghi istituzionali con un computer con ben visibile il marchio di una multinazionale? E l’appoggio unanime dei media al governo cos’altro indica se non un continuum politica-affari che pare inestricabile? Non è il primato della politica che viene dunque difeso dall’ingerenza delle procure ma i calcoli di un ceto politico legato a lobby, petrolieri, gruppi di pressione che è il simbolo, esso si, di una politica umiliata. L’attacco ai sindacati, ai residui corpi intermedi, ai professoroni e alle toghe fa parte della strategia generale di un potere che non tollera controlli, limiti e pensa di blindare il palazzo con riforme costituzionali illiberali.