Fonte: Il Manifesto
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Michele Prospero,
Classe unica e magica porzione di antipolitica: così il premier lascia senza scopo anche la destra di governo. Ma senza un’alternativa bisogna rassegnarsi alla decadenza della democrazia.
Prima Landini e poi Bersani hanno agitato le acque della pax renziana violandola proprio mentre la propaganda gonfiava i primi segnali tecnici di ripresa e li attribuiva al polso energico del condottiero di Rignano. Non si tratta di pure scaramucce. Esiste un nodo di fondo che si ripropone quasi oggettivamente: la mancanza di ogni rappresentanza sociale e politica di un mondo di bandiere rosse che negli anni settanta conquistò il consenso di quasi il 50 per cento del paese.
Se questa carenza di una sinistra politica e sociale è un problema, anche di sistema, che si intende superare, occorre comprendere le ragioni (cioè i punti di forza) dell’avversario e penetrare, se ci sono, nelle sue zone di debolezza. Con Renzi, il Pd porta alle conseguenze estreme delle tendenze interne verso approdi post-ideologici operanti già al tempo del Lingotto. Però quest’anima interclassista e moderata, con il suo disegno di sfondare al centro con la promessa di una rivoluzione liberale, che con Veltroni e Rutelli si arenò, ora trova espressioni inedite che sembrano rivitalizzarla. Perché Renzi riesce dove Rutelli ha già fallito?
Alla spinta centrista e modernizzatrice, condita con la salsa di un liberismo ostile ai diritti, egli aggiunge una magica porzione di antipolitica. Mettendo insieme il nucleo del programma della Confindustria (riduzione dello spazio pubblico e semplificazione delle regole del lavoro) e lo stile antipolitico, Renzi intercetta domande di novità e distrugge, con la maschera della discontinuità radicale, il vecchio ceto politico di estrazione comunista. Muta anche, con l’assalto al sindacato, la composizione sociale del partito, al punto da penetrare in aree e interessi sociali delle microimprese attratte dalla distruzione delle cosiddette rigidità del mercato del lavoro (e dalla enfasi renziana contro i controlli burocratici eccessivi, che riscontrano irregolarità nel 65 per cento delle aziende visitate) e che difficilmente avrebbero guardato a sinistra.
Dalla prima anima, quella in senso lato confindustriale, Renzi ricava media e denaro che coprono le sue gesta con un conformismo assoluto (c’è una sorta di giornale unico nazionale che da Repubblica passa per il Corriere, La Stampa, Il Messaggero, Il Sole 24 ore). Dalla seconda anima, quella del capo di governo che è nemico del ceto politico, egli assorbe un desiderio di vittoria (comprensibile dopo che il Pd si era accasciato a terra proprio al momento del trionfo) e una invocazione di nuovo e di rottura verso schemi tradizionali.
La forza di Renzi (ancoraggio ad interessi d’impresa e copertura della scena pubblica con una asfissiante comunicazione post-politica) è anche la sua debolezza. Senza un partito strutturato, privo di un sistema di potere consolidato che si estenda oltre i meri traffici clientelari del giglio magico, senza un vero gruppo dirigente e una valida classe di governo, privo di un collegamento con ampi soggetti sociali, il grado di autonomia di cui Renzi gode rispetto alle potenze economiche e finanziarie è quasi insussistente.
Sfrutta al massimo le loro risorse, le esibisce in un pubblico sfarzo alla Leopolda e amministra spesso con arroganza le loro munizioni, ma non ne è il padrone. E quindi naviga a vista perché il sostegno dei poteri forti è sempre condizionato al rapido incasso in moneta sonante. La coalizione sociale che con Monti e poi con Letta ha gestito il potere nella fase di transizione post-berlusconiana è la stessa, con varie sfumature, che sorregge adesso Renzi.
La novità è soprattutto il grado di antipolitica che il fiorentino aggiunge alla commedia e lo smantellamento di un partito (mai consolidato) tramutato in una sua appendice personale. Il dominio renziano sembrerebbe incontrastabile, con lo spread che si calma, con il trasformismo del venti per cento dei deputati pronti al grande salto nel carro del rottamatore, con l’opportunismo di tanti parlamentari del Pd che hanno fiutato che in un non-partito degli eletti sovrano è solo chi decide le candidature.
Eppure, la mancanza di una sinistra riconoscibile solleva una latente crisi di legittimazione. L’impressione che la politica odierna suscita è quella che ricavava Tocqueville osservando la vita parlamentare del suo tempo. In essa «gli affari vengono trattati fra i membri di un’unica classe, secondo i suoi interessi e i suoi modi di vedere, non è possibile trovare un campo di battaglia su cui i grandi partiti possano farsi la guerra». Con il presidente del consiglio «gasatissimo da Marchionne» e gran veneratore della sacra libertà di licenziamento, nel parlamento opera un solo interesse prevalente, quello dell’impresa.
Per questo è difficile al momento pensare ad una rinascita della destra su basi diverse dal populismo di Salvini. Una destra liberale non ha alcuna possibilità (e necessità) di organizzarsi coltivando ambizioni di alternativa: il suo spazio è già ben presidiato da Renzi. E una sinistra avrebbe le forze per riprendere una funzione rappresentativa? Nel «paese legale», continuava Tocqueville descrivendo l’omologazione dei ceti politici francesi, esiste una «singolare omogeneità di posizioni, di interessi e, per conseguenza di vedute, che toglie ai dibattiti parlamentari ogni originalità e ogni realtà, e quindi ogni vera passione». La stessa sensazione di tramonto dell’autonomia della politica la si ricava osservando le dispute politiche odierne.
Autonomo, al limite dell’ostilità e dell’ingiuria, dal sindacato e dal lavoro, il Pd è privo di ogni argine efficace rispetto alle sollecitazioni della finanza, dell’impresa, dei media. E questo ritorno ad un parlamentarismo monoclasse suscita anche una sensazione di impotenza, di estraneità in consistenti fasce di opinioni. Nel dominio di grandi potenze economiche, diceva Tocqueville, «i vari colori dei partiti si riducono a piccole sfumature e la lotta a una disputa verbale». Non è un caso che, in un clima di similitudine nelle basi sociali riconosciute, avvenga il processo di unificazione tra Pd e Scelta civica o che sfumino del tutto i confini distintivi con il nuovo centro destra.
Quale percepibile differenza identitaria, e di alterità nei riferimenti storici e sociali, si può mai notare tra Guerini e Alfano, tra Boschi e Carfagna, tra Picierno e Gelmini, tra Madia e Lupi, tra Lotti e Verdini, tra Faraone e Fitto? Ancora Tocqueville: in una politica ad una sola dimensione, quella della classe proprietaria, i politici ricorrono «a tutta la loro perspicacia per scoprire argomenti di grave dissenso, senza trovarne». Con le sue politiche in tema di lavoro, Renzi si rafforza perché lascia senza scopo una destra di governo. Però, proprio con questo scivolamento, mantiene sguarnito un ampio fronte sociale, i cui interessi non coincidono con il rafforzamento del potere unilaterale dell’impresa.
Con le sue scorribande istituzionali, Renzi apre una vistosa voragine anche nel campo politico (maltrattamento dei principi dell’antico costituzionalismo democratico della sinistra, demolizione dell’idea di un partito non personale). Colpita sul piano degli interessi sociali di riferimento e sfregiata sull’idea di democrazia e sul senso della politica, è impensabile che la sinistra non provi a reagire alle umiliazioni di chi si vanta di averla asfaltata.
Non per un senso dell’onore, che già Bodin escludeva quale principio della politica, ammettendo la liceità del compromesso e della trattativa al cospetto di un nemico troppo forte per essere sfidato di punto. Ma, alla comprensibile ritirata, che ha accompagnato il celere trionfo renziano, non è corrisposta alcuna azione incisiva per il recupero di forza e capacità di combattimento. È mancata quella che Lenin avrebbe chiamato una «ritirata con giudizio». La controffensiva, dopo la temporanea ritirata, non è stata neppure accennata. E invece andrebbe disegnata.
Con una coalizione sociale di protesta e ostile alla proposta politica? La specificità italiana è che mentre altrove esistono due sinistre, qui non se ne intravede neppure una. La minoranza del Pd deve avere la consapevolezza che il successo di Renzi, e cioè la sua leadership alle prossime elezioni, sarebbe il trionfo di una variante di partito personale a vocazione populista entro cui una componente di sinistra risulterebbe schiacciata e inutile.
Perciò deve immaginare che qualcosa può nascere oltre Renzi e non bisogna dare più come senza alternative il quadro attuale di governo. Se le due sinistre visibili solo in potenza, quella sociale e quella politica, non mettono in atto un processo di alternativa a Renzi, devono rassegnarsi alla rapida decadenza della qualità democratica.