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Amaro lucano per Renzi. Tra padri e fidanzati, con il vizietto dei soldi facili, sta finendo male il governo della rottamazione. La banalità che le colpe dei padri non ricadono sui figli non c’entra nulla. E viene pronunciata solo da chi vuole evitare che si vada in profondità nella questione. Quella che distingue tra padri e figli è una regola garantistica valida nel diritto penale, che prescrive la personalità dei delitti e delle pene e nega quindi reati oggettivi, di gruppo. In politica non vale tale precetto della civiltà giuridica, o meglio va considerato cum grano salis: se i fatti contestati sono commessi da un congiunto che si serve, per un proprio affare, proprio della posizione di influenza politica di una figlia o fidanzata come si fa a separare i loro destini?
Quando il fratello di De Mita (democristiano come la Boschi ma con un’altra sensibilità per le istituzioni) fu sfiorato da un avviso di garanzia, il politico di Nusco si dimise da presidente della commissione bicamerale per le riforme istituzionali. Cioè da una carica che peraltro non era di governo. Un aspirante riformatore della Carta non poteva essere macchiato da certi dubbi, riteneva. Era una esagerazione. Che però la riforma della costituzione passi oggi attraverso il nome della “prima laureata” di una famiglia di Laterina che ha contattato Flavio Carboni per discutere di nomine bancarie è il segno di un decadimento etico-politico di questi tempi meschini.
Che vent’anni dopo il gesto di De Mita qualcuno pensi che la bancarotta, le frequentazioni del padre con l’uomo della P2, P3 non ricadano sulla funzione pubblica della figlia è una difesa di comodo. Non regge. Non perché il ministro debba rispondere delle eventuali imputazioni che riguardano il padre. Ma perché il governo stesso mostra l’insostenibile intreccio familista della vicenda quando interviene con norme ad hoc per affrontare in un certo modo la questione della Banca Etruria. Questo è il punto: il sospetto legame dell’azione pubblica di governo con la condotta privata che ha l’ombra dell’illecito. E’ una spinosa questione politica, che va risolta in modo politico eliminando ogni conflitto di interesse.
Le intercettazioni del ministro con il fidanzato sono delle ulteriori testimonianze dell’incastro tra scelte normative del governo e tornaconti privati che viene oggi chiamato “traffico di influenza”. Il potere pubblico viene accusato di aver utilizzato l’autorità legislativa per perseguire interessi privati nel campo petrolifero. La rovinosa caduta del ministro Guidi è importante perché la donna d’impresa rappresentava l’ampliamento della coalizione economica a sostegno del rottamatore. Due banche locali amiche e un’impresa di vendita dei giornali alle spalle possono andar bene, con la benedizione di qualche odore delle logge, per occupare Firenze. Ma non bastano a conquistare, e poi tenere il potere, a Roma. E allora la nomina di Guidi serviva proprio ad ampliare la base del potere gigliato, con il coinvolgimento nelle commesse di porzioni rilevanti di padronato cui si dava l’appalto del ministero dell’industria. Prima ancora che per illeciti, il governo andrebbe censurato per la sua natura di classe (il premier non a caso dice che “per i lavoratori è più utile Marchionne che i sindacati”) che ne perverte in radice il ruolo pubblico.
Oltre alla confindustria, anche le cooperative bianche erano state agganciate nel nuovo potere con il ciellino Lupi al dicastero, caduto poi in disgrazia per le lancette di un rolex. Un altro pezzo importante del potere erano diventate le coop (una volta) rosse. Furono anch’esse invitate nelle danze con Poletti messo al ministero del lavoro per svolgere la manovalanza più sporca dell’esecutivo contro i diritti. Per ora il castigatore dell’articolo 18 e dei laureati con lode resiste e orchestra i disastri normativi sul lavoro, anche se rovinata è l’immagine delle coop con le disavventure di mafia capitale e le cene poco eleganti con Alemanno e Casamonica.
Con Lupi e Guidi ha subito ceduto, con la Boschi invece Renzi sembra più accanito nella sua resistenza. E non solo perché i fatti contestati al padre del ministro sono affini a quelli imputati al congiunto del premier (qualche dubbio politico può nascere se il direttore della filiale che ha elargito un mutuo al titolare di una impresa già in dissesto poi viene baciato dalla fortuna con un incarico nell’amministrazione o nelle partecipate). Ma perché se precipita la “capa” di Laterina, che adesso denuncia l’accanimento dei poteri forti, cade anche il capo di Rignano, e gli altri della comitiva di Montelupo, di Greve in Chianti. Cioè si sfalda la originaria coalizione dominante di un comitato d’affari della piccola borghesia toscana che ha in mano il potere e che condivide segreti, strategie, riferimenti, contatti.
Con la questione morale che lo tallona come un incubo assillante e con il fallimento delle politiche (?) dei bonus (miliardi regalati alle imprese senza alcun impatto economico reale, anzi cade ancora l’occupazione e la deflazione persiste), Renzi vacilla. Può ancora contare sulla copertura dei media (Scalfari, dopo il cambio alla guida di Repubblica, lo celebra come scopritore italico del solitario comando di un capo), sull’amore di Marchionne, sul rapimento mistico dei vecchi girotondini che fanno a gara a candidarsi in liste fiancheggiatrici di chi ha graffiato la loro costituzione più bella del mondo. Ma il potere è logoro, la fortezza è sotto assedio. Per la prima volta Renzi avverte davvero l’ebrezza fredda dell’uomo solo al timone e nella paura che lo perseguita invita persino a considerare il partito una “comunità”. Vive con incubi, è attorniato da fantasmi.
Ora che il governo della narrazione non ha più una narrazione spendibile (le luci sempre accese di palazzo Chigi, ora che escono i contenuti degli emendamenti notturni, si comprende a cosa servono), il condottiero di Rignano naviga nel vuoto e può sloggiare in due soli modi. Con una rivolta della società contro il Palazzo, che prepara una nuova crisi di sistema. O con l’inciampo in grattacapi giudiziari. Le grane con gli scontrini, sinora prive di impatto, con il tempo possono trasformarsi in qualcosa di altro. Nessun intralcio ha procurato all’ascesa del rottamatore, che ha preteso dinanzi al notaio le dimissioni dei suoi consiglieri per censurare gli scontrini di Marino, la notizia che in provincia spendeva per la rappresentanza istituzionale 600 mila euro in un solo anno. Da incredibile mago, cancella ogni effetto della notizia, in altri paesi devastante, che l’affitto della casa vicina al Duomo se lo accollava un postmoderno benefattore, che poi ha ricoperto incarichi amministrativi.
Sinora una condotta sopra le righe non ha nuociuto al potere incantatorio di una maschera che faceva le primarie volando in aereo privato, poi proseguiva con una grossa mercedes e infine entrava con un camper in città per far vedere che era uno davvero nuovo, incontaminato e senza mezzi finanziari nella sua lotta contro la nomenclatura. Come vittima del richiamo dell’urlo di Moretti a Piazza Navona, una porzione disincantata di pubblico si è lasciata catturare dal mito del “con me si vince” e non si è mai interrogata su certe cose. Poi però il campione del “con me si vince” ha costretto con le sue politiche padronali il popolo rosso dell’Emilia Romagna a scappare dalle urne: a votare è andato solo il 38 cento degli elettori.
Quando da più parti si dice che a Renzi non ci sono alternative, si incrementa la sensazione che da questa fallimentare avventura di governo si possa uscire solo con il risuonar dello stesso tintinnio che negli anni ’90 travolse ogni cosa. Con una certa astuzia territoriale il nuovo potere crede di essere inespugnabile perché pensa di aver lusingato a dovere i controllori: parla con un generale della finanza con toni da caserma, affida consulenze, incarichi, nomine. Queste strategie di seduzione valgono fino a un certo punto. Quando qualche crepa si apre, quelle granitiche protezioni di provincia non valgono più.
Si trema all’idea che qualche traccia sia rimasta nel caos delle intercettazioni (la fretta per affidare le chiavi della sicurezza al fido campione dell’opus dei, è un segno di panico), l’ossessione che nuovi squarci si aprano nel disvelare la contaminazione di politica e affari. Dove la politica manca, avanzano altre soluzioni per abbattere il governo Total (itario), cioè lesto nel soddisfare richieste di una multinazionale della benzina (“non è una marchetta”, diceva il premier). Il giustizialismo, che combatte quello che i magistrati chiamano un sistema di “criminalità organizzata ambientale su base imprenditoriale”, è l’effetto, non la causa della malattia della politica, del vuoto di una sinistra con una forte identità e una radice di classe e quindi anche eticamente diversa.