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di Alessandro Gilioli, 26 dicembre 2016
Diceva Tino Faussone, il montatore di gru de “La Chiave a stella”, che «amare il proprio lavoro è la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra». Il personaggio di Primo Levi, si sa, non lavorava solo per lo stipendio a fine mese, ma soprattutto perché attraverso l’agire si realizzava come persona.
Ciò gli era permesso da un insieme di concause favorevoli: le competenze (il “know how”); l’accuratezza e lo scrupolo (chissà se doti naturali o maturate nei decenni); l’esperienza (quindi gli errori del passato come bagaglio culturale). Un po’ anche la fortuna: che gli aveva regalato un mestiere grazie al quale poteva conoscere luoghi lontani e genti diverse, ovunque nel mondo ci fosse da impiantare una gru. Primo Levi sapeva che, anche a quel tempo, Faussone era un privilegiato, né ignorava l’alienazione della catena di montaggio, ma pensava che il lavoro fosse comunque «manifestazione della libertà umana»: e in un romanzo umanista-ottimista, ce ne ha voluto raccontare una possibilità.
Secondo una ricerca del 2013 dell’università di Oxford (firmata Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne) il 47 per cento dei lavori negli Stati Uniti è a un passo dalla sparizione, causa sostituzione con intelligenza artificiale, computer, robot e algoritmi. Un paper successivo degli stessi due ricercatori ha mostrato come «oggi le tre maggiori società della Silicon Valley capitalizzano in Borsa 1.090 miliardi di dollari con 137 mila dipendenti, mentre 25 anni fa le tre maggiori aziende manifatturiere americane capitalizzavano in tutto 36 miliardi di dollari impiegando 1,2 milioni di lavoratori».
Secondo Moshe Y. Vardi, computer scientist israeliano docente della Rice University di Houston (Texas), entro i prossimi 30 anni in Occidente i robot potrebbero portare a tassi di disoccupazione superiori al 50 per cento.
Il direttore del Center for Digital Business del Mit di Boston, Erik Brynjolfsson, è coautore di un libro (“La nuova rivoluzione delle macchine”, con Andrew McAfee, Feltrinelli 2015) in cui approfondisce lo scenario: non solo i lavori manuali sono destinati alla rarefazione, ma l’intelligenza artificiale farà diminuire significativamente anche quelli di concetto, “intellettuali”. E la regola che ha caratterizzato le due rivoluzioni produttive precedenti, cioè l’aumento complessivo dei posti di lavoro dall’era agricola a quella industriale e dall’industria ai servizi, potrebbe non valere nel passaggio al secolo dei robot che apprendono dalla loro stessa esperienza.
Allo stesso modo, il cofondatore di Google Larry Page ha pochi dubbi su un aumento strutturale e non più contingente della disoccupazione, dovuto agli enormi progressi della robotica e dell’intelligenza artificiale, che porteranno all’automazione di molte professioni di pensiero (intervista al Financial Times, ottobre 2014).
La questione è al centro anche di un libro-inchiesta italiano (Riccardo Staglianò, “Al posto tuo”, Einaudi 2016) ricco di dati, di casi, di esempi; e del più celebre saggio del futurologo Martin Ford, “The rise of robots. Technology and the Threat of a Jobless Future”, del 2015: dove l’autore, una volta certificata la riduzione dei redditi causata dalla digitalizzazione, suggerisce «qualche forma di reddito minimo» per salvare il meccanismo di produzione e consumo, insomma il capitalismo stesso.
E qui arrivano, appunto, le proposte di soluzione. Legate alle urgenze sociali: dare qualche speranza alle nuove generazioni costrette a forme di precariato sempre più acrobatico, o più in generale alle fasce sociali proletarizzate dal dumping salariale, che poi alimentano le tanto temute “forze populiste”. Ma sono proposte connesse anche alle dinamiche economiche, cioè a «salvare il capitalismo da se stesso» (Robert Reich, economista americano ed ex ministro di Bill Clinton), vale a dire dai suoi eccessi, che ormai portano il sistema a rischio di autofagia.
Il reddito minimo garantito – vuoi nella sua forma legata alle condizioni di povertà, vuoi nella variante universale più propriamente detta “di cittadinanza” – è una delle possibili risposte che vengono indicate ormai non più solo a sinistra, ma perfino da studiosi di scuola liberale. Certo, il suo costo è ingente (e diversamente calcolato a seconda della platea e del quantum) ma da più parti si converge sul fatto che ormai sia un “Tina”, per usare un acronimo caro a Margaret Thatcher: cioè There is No alternative. Nell’era dei robot non c’è altro modo per evitare un collasso sociale ed economico. Nonostante ciò, sia detto per inciso, l’Italia è tra i pochi Paesi europei a non prevedere ancora alcuna forma di reddito minimo.
Eppure, paradossalmente, il dibattito sul reddito minimo è già quasi vecchio, quasi scontato. There is No Alternative, appunto, se si vuole evitare che la rarefazione del lavoro causato dall’evoluzione tecnologica provochi sconquassi dai costi – anche economici, ma non solo – molto maggiori del reddito minimo stesso.
La questione più rilevante e di prospettiva, a questo punto, viene dopo: quando la politica avrà già compiuto il salto di inevitabile buon senso che conferirà a tutti o quasi una base reddituale indipendente dal lavoro.
E riguarda appunto Tino Faussone, il protagonista di Primo Levi.
Vale a dire: quali saranno gli elementi esistenziali che rappresenteranno «la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra», quando il lavoro costituirà solo una piccola parte del nostro tempo, della nostra vita? In che cosa ciascuno di noi troverà la massima «manifestazione della libertà umana»? Quali saranno gli elementi di autorealizzazione personale, una volta emancipati dalle necessità produttive e di salario che ci portavano a lavorare, a impersonare un ruolo sociale in quanto idraulici, avvocati, cuochi, medici, operai, ingegneri?
E poi: si profila una nuova e trasversale divisione nella società tra quanti troveranno altrove – cioè anche senza una funzione nel sistema produttivo – le ragioni del proprio vivere quotidiano? E quali saranno i meccanismi (pedagogici, culturali, spirituali, valoriali, creativi, sociali, ambientali, affettivi etc) che costituiranno la ricerca dell’auto realizzazione?
Non è il caso quindi che, data per scontata l’esigenza di un reddito per tutti nel mondo robotizzato, questo tema esistenziale sia la successiva “issue” per preparare la società di domani, in cui si possa comunque ambire a «un’approssimazione concreta alla felicità sulla terra»? Insomma, non dovremmo occuparci di come potrà essere felice Tino Faussone, una volta privato non di uno stipendio, ma dei suoi attrezzi e di una gru da montare?