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di Lucia Annunziata – 20 febbraio 2017
Nella scissione del Pd vince il Re della politica italiana. E non parliamo di Renzi, ma del proporzionale, iI Re della politica italiana è la sua più vecchia guida nonché il suo più vecchio seduttore.
Non a caso sempre accompagnato dal suo miglior amico il Debito Pubblico, e solo malamente arginato dall’arcinemico Vincolo Esterno (l’Europa).
La sua tentazione si è sempre periodicamente ripresentata, nonostante i continui sforzi per metterlo al bando. Tale è infatti la (apparente) semplicità della sua quasi evangelica promessa: “A ognuno il suo”. Sarete tutti rappresentati fino all’ultimo “0 virgola 1” del voto e dunque sarete tutti felici.
Così opera il Faust del sistema italiano: il proporzionale. Ed è proprio il proporzionale il motore vero che ha spaccato il Pd. Con una curiosa convergenza, che nel futuro forse ci sarà più chiara, con quella messa in discussione della appartenenza all’Europa che avvelena il nostro paese.
In queste ore post trauma la vicenda del Pd viene narrata, dentro e fuori, come una tempesta emotiva, un titanico scontro di caratteri, visioni, valori. C’è tutto questo ovviamente, lo abbiamo visto all’opera, ed è parte fondamentale della politica. Ma ancora più parte della politica è la regola matematica che la governa. A dispetto di quel che si pensa, la politica è un’arte precisa. A dispetto delle tante parole che la animano, alla fine la vittoria e la sconfitta vengono definite – anche oggi che la rete penetra la nostra vita e sembra aderire alla nostra stessa pelle eliminando ogni intermediazione – dall’elemento più solido che conosciamo: il numero.
Numeri pesanti perché dietro ci sono (insostituibili anche in questo tempo di virtualità) teste reali: i cittadini. La convenienza numerica vince dunque su ogni ragionamento, per questo la questione della legge elettorale – che una continua e insulsa lamentela tende a relegare a oggetto di inutili discussioni – è in realtà l’asse su cui ruota la terra politica. È il contenitore che dà forma alle idee. A seconda dei sistemi abbiamo dunque un paese o un altro.
Ricordo qui che la storia fra la prima e la seconda repubblica può essere tutta letta attraverso il passaggio dal proporzionale al maggioritario. La seconda repubblica nasce da un referendum che abolisce le preferenze come tagliola sulla propaggine finale di quello che il proporzionale era diventato: individualismo, correnti, pacchi di voti in circolazione, in un parola, corruzione. Come si diceva, non a caso la governabilità della prima repubblica va mano nella mano con il gonfiarsi della spesa pubblica – fatta per accontentare i tanti piccoli partitini e correnti delle fragili coalizioni…
La critica anti-proporzionale dei primi anni Novanta divenne così il grimaldello dell’ordine esistente, e dunque venne allora formulata in maniera un po’ manichea e strumentale. Ma sicuramente l’aspirazione al maggioritario è la leva di una nuova politica che fa nascere il nuovo panorama della seconda repubblica: lo spazio per il partito federatore di Silvio Berlusconi, e dell’Ulivo.
L’Ulivo che, non si ripete abbastanza, non fu affatto una esperienza idillica. Al contrario. Produsse dal 1996 al 2001 quattro governi, e tre premier, almeno una scissione, e quando si andò alla sfida, a Silvio Berlusconi nel 2001 si scelse come sfidante un altro leader che non era stato al governo.
Le tensioni dentro l’Ulivo erano sgradevoli, violente, e persistenti. Alcune sono arrivate intatte fino a noi – tutto il vortice intorno a D’alema è un esempio per tutte. Chi ha l’età per ricordare sa che l’Ulivo non fu un posto da educande. E, se devo aggiungere, persino peggiore dell’attuale Pd.
L’unica cosa che mise insieme l’Ulivo e lo tenne insieme (ma questo vale per tutto il sistema dei partiti di allora) fu quel corsetto di stecche di balena che era il sistema maggioritario. A sua volta quel corsetto era tenuto insieme da un altro elemento, esso stesso oggi logorato: l’ambizione di essere europei.
Quanti ricordano oggi la lunga, e non scontata, battaglia di preparazione all’entrata nell’Euro fatta dalla élite del paese, i Ciampi , i Prodi, gli Amato, gli Scalfari, i Cassese, i Napolitano? La bandiera che venne brandita da tutti loro aveva un lungo e quasi oscuro nome: “il vincolo esterno”. Che faceva riferimento non solo alla moneta. Era quel legarsi a un sistema più avanzato, quello Europeo, per poter riportare a ragione le storture del sistema italiano. La governabilità e la semplificazione del sistema politico erano un passaggio obbligato per entrare in quella nuova fase.
Oggi quel rapporto con l’Europa è il cardine della crisi italiana e non solo. E come cade questa fede europeista, cade anche il sistema maggioritario – esploso con l’entrata in scena nel 2012 di una forza politica, il M5s, che ha vinto proprio su una critica radicale delle élite e dell’Europa.
Che i pentastellati siano apertamente favorevoli a un sistema di proporzionale estremo, è solo la logica conseguenza della loro nascita. La scissione a sinistra, e le tante altre scissioni e separazioni che si moltiplicano come funghi oggi, sono dunque solo un dato dei tempi. Così come segno dei tempi è l’impennata del debito.
Le scissioni, dunque, prova la storia, non sono in sè né bene né male. Sono una dinamica. Questa del Pd appena consumata, poi, mi sembra, al di là delle parole, molto consensuale. Il Pd che rimane e il Pd che lascia hanno un’idea diversa di realtà, partito, e obiettivi – valoriali e di sistema. È il sistema premia oggi la separazione. Così sia. È una forma anche questa di semplificazione. Da oggi infatti a sinistra non ci saranno più alibi per nessuno.