Fonte: dirittiglobali.it
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L’Introduzione di Sergio Segio al 16° Rapporto sui diritti globali “Un mondo alla rovescia”, 14 dicembre 2018
«Da quassù la terra è bellissima, senza frontiere né confini», Jurij Gagarin
«Fra tre o quattro anni vi sarete abituati alla miseria e purtroppo vi sembrerà la normalità». Così disse al suo interlocutore locale la scrittrice e attivista Naomi Klein mentre visitava la Grecia nel 2013, constatando le crescenti ferite sociali prodotte dalla crisi economica e ancora di più dalla “cura”, vale a dire dai Memorandum imposti da Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale, la cosiddetta Troika.
È ciò che, in effetti, si è verificato. E che ha consentito il 20 agosto 2018 di celebrare la fine della prima fase di quella cura, e del terzo piano di “salvataggio”, come fosse stato un successo. L’operazione è riuscita, ma il paziente è morto. Grazie anche al fatto, per dirla con il premier Alexis Tsipras, che pure si è piegato alle medicine tossiche imposte al suo Paese, che «la democrazia è stata umiliata, con banchieri che sono diventati ministri, e ministri banchieri».
La cravatta del debito
La Grecia è vicina, titolavamo l’edizione 2012 di questo Rapporto sui diritti globali. Ora, sei anni dopo, guardata dall’Italia e dal suo immane debito pubblico – nell’Unione Europea secondo giustappunto alla sola Grecia – lo appare ancora di più. Un debito che inesorabilmente cresce, giunto (nel luglio 2018) a 2.341,7 miliardi di euro, oltre il 130% del PIL. E ciò nonostante le imponenti privatizzazioni, l’austerity e i severi tagli alla spesa pubblica e al welfare di questi decenni. Particolarmente vistosi in materia di pensioni, laddove l’Italia ha l’età pensionabile più alta d’Europa e in soli sei anni ha realizzato 80 miliardi di risparmi con la legge Fornero: un «golpe previdenziale» avvenuto al prezzo di enormi drammi umani e sociali e di centinaia di migliaia di “esodati”, ovvero persone rimaste senza stipendio, senza pensione e senza ammortizzatori. Un sistema reso vieppiù punitivo dal criterio introdotto dalla “riforma” del 2011 che ha esteso a tutti i lavoratori il metodo di calcolo contributivo della pensione, che in Europa esiste solo in Italia, Svezia e Lettonia, ma che la narrazione neoliberista presenta come equo, ovvio e inevitabile (Massimo Franchi, L’inganno delle pensioni, Imprimatur, 2018).
All’inizio della crisi, nel 2008, il debito italiano era di “soli” 1.669 miliardi, poco sopra il 100% del PIL. Alla metà dei vituperati anni Settanta del Novecento, nel 1974, era al 54,5%; nel 1980 si trovava ancora sotto il 60%; dieci anni dopo aveva superato il 100%; nel 1994 era già salito al 124,3%. Questo andamento all’aumento, quasi costante, a welfare decrescente ci dice quanto poco veritiera sia la vulgata liberista, secondo la quale l’Italia continua a spendere in servizi pubblici e garanzie sociali che non potrebbe permettersi; così come quella populista, secondo cui sono i “costi della politica” a impoverire il Paese. Nemmeno è la decrescita del PIL post-crisi a poter essere considerata sola o principale responsabile di un indebitamento che è funzionale al sistema speculativo della finanza globale e al modello insostenibile e suicida della crescita infinita; indebitamento invece determinato sostanzialmente dal servizio al debito, ossia dal pagamento degli interessi, che sono la vera cravatta, divenuta nodo scorsoio, al collo del Paese, destinato all’asfissia se dovesse rispettare integralmente il fiscal compact.
È il debito, insomma, che alimenta se stesso. Debito che è detenuto per quasi il 50% da banche, fondi e assicurazioni italiani, per il 15,9% dalla Banca d’Italia, meno del 5% da piccoli risparmiatori; il 32,3% è posseduto dagli investitori stranieri, tra cui i fondi finanziari maggiormente interessati a speculazioni.
Con ordini di grandezza diversi, è lo stesso meccanismo che ha strangolato la Grecia, che ha dovuto girare alle banche creditrici, in particolare tedesche, gran parte dei circa 280 miliardi di prestiti ricevuti dalla Troika, nel frattempo immiserendo la popolazione e privatizzando il privatizzabile, per ritrovarsi alla fine con un debito pubblico attorno al 180% (317 miliardi), superiore a quello antecedente alla “cura” dei Memorandum e quasi doppio rispetto a quello anteriore all’ingresso nell’euro, nel 2002, allorché era al 100%.
Eppure, dal 1992 (con la sola eccezione del 2009) l’Italia è in avanzo primario, ossia ha una spesa pubblica inferiore a quel che incamera dal gettito fiscale, spese per interessi a parte. Un risparmio quantificato sinora in quasi 800 miliardi. È stato calcolato che dal 1980 al 2017 l’Italia ha pagato oltre 3.400 miliardi di euro di interessi (65 solo nel 2017), dunque una somma ben più alta del debito stesso.
Peraltro, dopo la Germania, l’Italia ha il surplus commerciale più elevato d’Europa (nel 2017 +47,5 miliardi, il 2,8% del PIL), ampiamente in grado di ripagare il deficit interno.
A ben guardare, «l’accanimento contro il solo debito pubblico per contestare le scelte di politica economica non ha una ragione strettamente economica ma esclusivamente politica e ideologica. Si tratta di impedire che un Paese membro possa adottare una politica espansiva basata sul deficit spending in grado, potenzialmente, di evitare lo smantellamento del welfare e la finanziarizzazione privata dei servizi sociali». Ne consegue che il debito pubblico è «un “business”: favorisce la rendita finanziaria e coloro che sono già i più ricchi». Anche la manovra economica gialloverde, centrata sulla “flat tax”, lungi dall’essere “nuova”, si inserisce nella stessa logica e alimenta tale business (Andrea Fumagalli, Il grande business del debito italiano, ottobre 2018).
Le chiese del libero mercato
Sulla facciata della Stazione Centrale di Milano e di altre grandi stazioni nel 2018 è stato collocato per un periodo un enorme pannello con un contatore che aggiornava continuamente la cifra del debito italiano, con sotto la scritta, ansiogena e colpevolizzante: «Da quando sei partito da Roma il debito pubblico è cresciuto. Oltre duemila miliardi che pagherai anche tu. Pensaci. Ogni promessa è debito». L’iniziativa – che si immagina peraltro assai costosa – è dell’Istituto Bruno Leoni, che si dichiara nato per promuovere le “idee per il libero mercato”. Come se questo non fosse già completamente libero, e anzi globalmente sfrenato da svariati decenni, e come se l’ammontare e il lievitare di quel debito non fosse principalmente dovuto proprio allo strapotere di banche e finanze speculative, le chiese del libero mercato. E come non vi fosse chi (lavoratori e ceto medio) da tempo – verrebbe da dire da sempre, quanto ai primi – paga i costi di quel debito e di quei meccanismi finanziari, mentre altri (imprese, rentier, ceti benestanti, evasori) simmetricamente si arricchiscono.
La regola ferrea è difatti quella dei profitti privati e delle perdite pubbliche, come anche negli anni più recenti i salvataggi bancari in Italia hanno reiterato, dalla Banca Etruria alle popolari venete, per non dire degli incentivi e decontribuzioni periodicamente regalati alle imprese (ben 18 miliardi in tre anni con il Jobs Act). Una regola di antica data e intramontabile ma ancor più marcata, e sfacciata, dal tempo delle grandi svendite del patrimonio pubblico e da quanto la privatizzazione si è fatta ideologia (bipartisan, manco a dirlo) che ha saputo costruirsi un retroterra di consenso sociale e di senso comune.
Il silenzio del lavoro e la bestia capitalista
È la fotografia delle diseguaglianze cresciute in questi decenni, tante volte descritte, documentate e analizzate da economisti e sociologi e vissute sulla propria pelle da miliardi di persone nel mondo. È il risultato, citando ancora una volta il compianto sociologo Luciano Gallino, di quella vittoriosa “lotta di classe dall’alto” di cui abbiamo scritto tante volte in questo Rapporto nel corso ormai di sedici anni. Ma ora è in corso una fase diversa, che non pare avvertita da molti, ed è la lotta interna alla classe capitalista, di cui i dilaganti nazionalismi sono espressione. Ha ragione l’economista Emiliano Brancaccio quando ritiene che «la sinistra non capisce quasi nulla di tutto questo. Per anni si è crogiolata nella pia illusione di un capitalismo ormai pacificato, proiettato verso il sol dell’avvenire della democrazia azionaria. E oggi risulta spiazzata da una lotta tra capitali sempre più feroce, che diffonde nel resto della società i semi della barbarie. Una nuova sinistra dovrebbe in primo luogo comprendere che il silenzio a cui è stato ridotto il lavoro ha reso ingovernabile la bestia capitalista» (Emiliano Brancaccio, Classe (lotta di), “L’Espresso”, 7 ottobre 2018).
Da molto tempo, in effetti, è completamente uscita dal linguaggio politico e dal dibattito pubblico in generale, nonché dal vocabolario propositivo della sinistra, la nozione di “imposta patrimoniale”, che dovrebbe essere architrave di ogni incisiva riforma sociale redistributiva. In Italia se ne ricorda solo il sindacato. In Spagna, invece, l’accordo intercorso tra il governo di Pedro Sánchez e Podemos la prevede nella manovra economica per il 2019 e grazie a essa si finanzierà l’aumento delle pensioni minime e dei salari. La sinistra italiana potrebbe, in effetti, fare un istruttivo periodo di formazione e studio in Portogallo e in terra iberica per capire come si può governare realizzando politiche efficaci e coerenti a favore di lavoratori e strati sociali più deboli; in quel modo, sottraendo anche spazi e consensi alle destre populiste.
Mentre si discute di reddito di cittadinanza, il sindacato risulta però talvolta attardato su una concezione “lavorista”, su una desueta visione della composizione di classe che non coglie il crescente aspetto alienante, avvilente e disciplinante del lavoro, specie al tempo della gig economy e del capitalismo delle piattaforme, del precariato a vita e del lavoro gratuito coatto. Aspetto invece, e forse non a caso, prontamente colto dai nuovi sindacalisti immigrati, come Aboubakar Soumahoro: «Prima il lavoro, si dice, d’accordo. Ma prima del lavoro c’è il lavoratore. E, prima ancora, gli esseri umani. […] Nell’era digitale il lavoro ti impedisce di realizzare le tue aspettative e al tempo stesso colonizza il tempo di vita» (Aboubakar Soumahoro, Lavoro, “L’Espresso”, 7 ottobre 2018).
Parlare di un vero reddito di base universale, di reddito di dignità, quale quello ad esempio proposto dalla Rete dei Numeri pari e dal Basic Income Network, significa parlare di questo. Altro che il workfare autoritario del sussidio condizionato su base etnica o della tessera annonaria da Stato etico nella quale il ministro del Lavoro Luigi Di Maio ha infine tradotto la proposta caratterizzante del suo Movimento 5 Stelle.
Il quale Movimento, nella prevedibile (anche se non da tutti prevista) deriva a destra e, autolesionisticamente, paraleghista, è finito per sposare persino una proposta, invece intramontabile, sia pure ora velata sotto nomi più presentabili dal governo gialloverde: “condono fiscale”. Ovviamente, non si tratta di questioni nominalistiche, ma delle strategie e delle risposte concrete (e dei rispettivi beneficiati) che la politica intende dare ai problemi economici sul tappeto, rientro del debito compreso.
Nel frattempo, ci siamo talmente abituati alla dittatura dello spread e delle agenzie di rating da non avvertirne più la brutalità ricattatoria e la logica d’ingiustizia. Anzi, da usarla come argomento dissuasivo nei confronti dei pochi, timidi, contradditori, propagandistici e limitati provvedimenti in materia di reddito e di pensioni “di cittadinanza” con i quali il governo gialloverde ha provato demagogicamente a dare un croissant al popolo impoverito, dopo una manovra economica complessivamente indirizzata invece verso i desiderata degli imprenditori. Con un centrosinistra povero di visione, di idee e soprattutto di capacità di correggersi che, dopo aver stuprato per anni i diritti dei lavoratori a colpi di Jobs Act, di abolizione dell’articolo 18, di legge Fornero ed essendone ricambiato dall’emorragia di consensi popolari, ora non si perita di lamentare il voltafaccia dell’endorsement di Confindustria alla Lega salviniana.
Ma forse ci stiamo abituando a davvero tante e troppe cose, riassumibili in una definizione: la banalità del disumano e la quotidianità dell’ingiusto. Per assuefazione, come un veleno preso a piccole dosi che ha infine anestetizzato coscienza e spirito critico. Per carenza, o assenza, di strumenti teorici e pratici, cioè politici, di opposizione e di costruzione di un’alternativa. Ma anche perché, senza accorgercene, viviamo ormai in un mondo capovolto, dove, proprio come nell’orwelliano e distopico 1984, la menzogna è diventata verità e il bispensiero trionfa.
L’assuefazione al mondo rovesciato
È un mondo alla rovescia quello in cui i responsabili della crisi globale, la grande finanza che ha impoverito larga parte dell’umanità, prodotto disoccupazione su vasta scala, approfondito ulteriormente le diseguaglianze, precarizzato a vita le nuove generazioni, umiliando il loro presente e pregiudicandone il futuro, sono stati premiati, con enormi risorse devolute a sostegno del sistema bancario e con il Quantitative Easing, facendo pagare per intero il costo della crisi a chi vive di lavoro, ai ceti medi, ai pensionati, ai più poveri. Si tratta di cifre stupefacenti (tanto più mentre si sente ripetere la litania del «non ci sono soldi» quando si tratti di spese sociali o di aumenti salariali) e raramente menzionate. Ha provato a rintracciarle e a metterle in fila, districandosi tra le fonti ufficiali, la rivista “Valori” in un corposo dossier (Crisi & finanza. 10 anni dopo Lehman, gli avvoltoi volano ancora, settembre 2018).
I costi potenziali dei programmi di stabilità finanziaria attuati negli Stati Uniti sono calcolati in 1.000 miliardi di dollari solo per Fannie Mae e Freddie Mac, due società di garanzia dei fondi immobiliari e del credito ipotecario, centrali nel meccanismo dei mutui subprime all’origine della crisi; 7.760 miliardi di dollari per il complesso del sistema bancario USA; 24.000 miliardi stimati per la possibile esposizione pubblica nel salvataggio del sistema finanziario. Nel contempo, l’indebitamento delle famiglie americane ha toccato (alla fine del primo trimestre 2018) i 13.200 miliardi di dollari, 500 in più rispetto al massimo del 2008. Le Borse mondiali festeggiano invece nel 2017 una crescita del 7,7% dei dividendi, giunti al primato di 1.250 miliardi di dollari.
Ovviamente inferiori, ma non meno impressionanti, le risorse impiegate nei salvataggi in Europa: 1.400 miliardi di euro per ricapitalizzare le banche e coprirne le perdite; 3.600 miliardi sono invece andati per garanzie e interventi a sostegno della liquidità dello stesso sistema bancario, una cifra superiore all’intero PIL della più forte economia del continente, la Germania (3.277 miliardi di euro).
È un mondo alla rovescia quello in cui alle grandi multinazionali della gig economy e delle piattaforme, di cui parliamo nel Focus del primo capitolo di questo Rapporto, si consentono condizioni di favore e di non pagare le tasse mentre stanno accumulando immani profitti. Solo le “Big five” (Amazon, Apple, Microsoft, Facebook e Google), a inizio 2018 registravano 42 miliardi di utili in un trimestre e la capitalizzazione in Borsa aveva raggiunto 3.700 miliardi di dollari. Le singole persone che le guidano vantano patrimoni personali di decine di miliardi. Jeff Bezos, fondatore di Amazon, possiede addirittura 150 miliardi di dollari, mentre i suoi dipendenti, che lavorano in condizioni di pesante sfruttamento e di un invasivo controllo tecnologico, sono riusciti, nell’ottobre 2018, a ottenere l’aumento del salario minimo a 15 dollari l’ora solo dopo anni di intensa e difficile conflittualità sindacale.
* curatore del Rapporto sui diritti globali e coordinatore della redazione
CONTINUA A LEGGERE L’INTRODUZIONE INTEGRALE NEL PDF ALLEGATO E SCARICABILE, QUESTO L’INDICE:
La cravatta del debito
Le chiese del libero mercato
Il silenzio del lavoro e la bestia capitalista
L’assuefazione al mondo rovesciato
La salute diseguale e la sanità di classe
La scuola cenerentola
Decoro disumano
L’infanzia imprigionata
La criminalizzazione della solidarietà
L’accoglienza e il conflitto
Scegliere da che parte stare
Uomini e no
Prima di Minniti e di Salvini
Crimini contro l’umanità
Da Mare Nostrum a Triton
La lunga catena bipartisan delle responsabilità
La forza dell’utopia
La retorica legalitaria e la pulizia etnica
Odio, dunque sono. L’elogio dei cattivi sentimenti
La solidarietà che sfida la barbarie
Negare il razzismo, fare sponda alle paure
La mappa mondiale dell’infezione populista
Quale Europa? L’onda populista e la resistenza necessaria
Muri nel mondo, muri nelle città
Una «buona notizia», crescono le spese militari
La terza rivoluzione in guerra, i robot assassini
L’Italia che fa la guerra
Due minuti alla fine del mondo
Un presidente deficiente? In ogni caso pericoloso
La catastrofe ambientale
L’ennesimo allarme degli scienziati
L’uscita di sicurezza dei super-ricchi
Raddrizzare il mondo è vitale e possibile