di Raniero La Valle – 28 aprile 2018
È una grande giornata di pace. Perché il 25 aprile 1945 non solo finì una guerra, ma si aprì una nuova pagina della storia d’Italia e della storia del mondo. Noi siamo dentro questa pagina, e ora la dobbiamo scrivere a partire da questo vero centro del mondo che è oggi il Mediterraneo, che deve essere un mare di pace e non di afflizione.
Per questo non è solo un grande onore, ma una gioia per me celebrare la Liberazione qui a Reggio, e non, ad esempio, a Milano, dove soffiò il vento del Nord, o a Roma dove la nuova Repubblica prese inizio. Perché celebrarla qui a Reggio vuol dire cambiare prospettiva, guardare le cose dal futuro, da dove i problemi massimamente si pongono, da questo bacino del Mediterraneo dove la nostra civiltà è nata, e ora deve ripartire per portare a pienezza la civiltà stessa del mondo.
Come ci ha detto la splendida partigiana Anna Condò, noi oggi prima di tutto abbiamo un dovere della memoria. La memoria però non è un deposito dove sono ammassati inerti i fatti del passato, ma è una miccia che accende il presente, che lo fa muovere e vivere; la memoria non è conservatrice, è sovversiva. Per questo ci sono ancora i partigiani. Noi infatti riceviamo il passato come dono, mentre viviamo il futuro come promessa. La Resistenza, la Liberazione, la democrazia, la Costituzione sono i doni che abbiamo ricevuto e che ora dobbiamo mettere a frutto; noi siamo la speranza, concepita nel passato, che ora si realizza. Siamo noi, qui, ciascuno di noi, che decidiamo il destino del mondo.
Che cosa dunque ci porta la memoria? Io allora ero troppo piccolo per fare la Resistenza, ma abbastanza grande per capire da dove venivamo. Lasciatemelo dire con le parole di un grande poeta e di un grande resistente del tempo, un monaco, padre David Maria Turoldo.
Per padre Turoldo la Resistenza era stata una fuoruscita dalla notte oscura del nazifascismo, nel patimento di un Paese occupato, calpestato da neri stivali. «Aquile e svastiche e canti di morte – come scriverà nella sua poesia – salmi e canti e benedizioni di reggimenti col teschio sui berretti neri sulle camicie nere sui gagliardetti neri…». Contro «quella notte oscura» egli aveva scelto la sua Parte. «Sì, insieme al mio fratello di convento, Camillo de Piaz – racconterà quarant’anni dopo – ho fatto la Resistenza: con molti giovani cattolici, e comunisti, e socialisti, e del Partito d’azione, e altri; con Curiel e Gillo Pontecorvo, e Teresio Olivelli, quello della Preghiera del Ribelle; e con Mario Apollonio e amici dell’Università Cattolica, e altri ancora. Sì, in molti avevamo lottato e sperato insieme».
Per uomini di quel sentire era quasi spontaneo uscire dalle città, e ritrovarsi insieme a lottare e sperare: «Scendevano dai monti o sorgevano dal selciato rotto, e cantavano per dimenticare fame e derisione di fratelli, e celare al nemico la penuria di armi. Non avevano armi e pregavano per te Italia: “o umile Italia, ti liberiamo. La paura ci ha abbandonati vivi in mezzo alle macerie”».
Ma per che cosa avevano combattuto? «Pure voi ricordate i sogni di vita libera e felice, il sogno d’essere uomini! Uno diceva: “Non invidio quelli che vivono, ma quelli che vivranno”; un altro diceva: “Mi hanno messo in catene ma il mio cuore è libero di sperare, di credere: se domani muoio, slegatemi i piedi”. E un altro: “Muoio giovane, molto giovane, ma non mi uccideranno, mi faranno vivere per sempre”». E il sogno era questo: «La pace è l’uomo, e quest’uomo è mio fratello il più povero di tutti i fratelli. La libertà è l’uomo e quest’uomo è mio fratello il più schiavo di tutti i fratelli. La giustizia è l’uomo e quest’uomo è mio fratello: per un’idea non posso uccidere! Per un sistema non posso uccidere, per nessuno, nessuno fra tutti i sistemi».
L’altro dovere che abbiamo, dopo quello della memoria, è il dovere del ringraziamento. Grazie a questi uomini, a queste donne, noi abbiamo potuto vivere settant’anni con la Costituzione. Pensate, anche di fronte alle lacerazioni e ai pericoli di questi giorni, che cosa sarebbe l’Italia senza Costituzione. È vero, essa è ancora in gran parte inattuata e Reggio Calabria, come tutto il Sud, conosce bene il dolore di questi decenni e ne ha portato e ancora ne porta il peso maggiore. Perché è vero che, dopo la Costituzione, come già dopo l’unità d’Italia, è subito scattato il riflesso dei vecchi poteri, sia dei poteri legali che di quelli illegali, è scattato il riflesso del Gattopardo: che tutto cambi perché tutto resti com’era, questo era il disegno. Però la Costituzione ha impedito che questo accadesse, e la partita è ancora aperta; quei poteri ci minacciano ancora ma non hanno vinto. Noi combattiamo ancora, voi combattete ancora, resistete ancora: basta camminare per queste strade (i negozi da difendere!) per vedere che la lotta continua, per una vera comunità politica, contro la comunità del crimine.
Perciò noi dobbiamo essere grati ai protagonisti di allora, non solo ai partigiani, del Nord e del Sud (perché ci furono molti partigiani meridionali nel Nord) ma anche essere grati alle popolazioni del Sud che pur già liberate portarono tutto il peso delle rovine di un’Italia da rifare; e dobbiamo essere grati anche alla lotta politica che si assunse il compito di rifondare il Paese, a questa politica oggi diffamata ma che ha costruito l’Italia; ed essere grati ai grandi partiti popolari che realizzarono quello straordinario incontro di culture che è la nostra Costituzione, comunisti, socialisti, democristiani, da Dossetti a Togliatti, e poi essere grati agli uomini politici che finirono martiri per realizzarla, la Costituzione, e qui faccio solo tre nomi: Aldo Moro per il suo disegno di una democrazia compiuta; Piersanti Mattarella per la sua opposizione alla mafia (e qui rivolgiamo un saluto al presidente Mattarella); Pio La Torre per la lotta contro i missili in Sicilia e per la pace. E dobbiamo altresì essere grati ai giudici che sono morti per difendere la legalità e lo Stato di diritto.
Al crocevia del mondo
E ora fatemi dire perché è importante celebrare la Liberazione qui a Reggio, ed è così importante che l’Anpi sia riuscita a riportare questo evento nel cuore di questa città. Ho rivisto ieri nel vostro meraviglioso museo i bronzi di Riace, venuti dal profondo del Mediterraneo a ricordarci quali sono le nostre vere radici, da dove vengono i valori più alti che dopo una lunga storia di lacrime e sangue sono da ultimo approdati nella nostra Repubblica e nella nostra Costituzione. Questi valori da qui devono ripartire per rifare il mondo da capo. È infatti qui, nel Mediterraneo, nelle terre che lo circondano, a questo crocevia tra il Nord e il Sud del mondo, tra Oriente e Occidente, tra i popoli dell’Asia e delle Americhe, dell’Africa e dell’Europa che si decide il futuro. E ciò perché è cambiata la geografia del mondo!
Il centro non sta più nell’Atlantico del Nord, come pensavano quelli che, dichiarandosi vincitori della guerra fredda, addirittura volevano mettere la Nato al posto dell’Onu e decidere le nuove guerre da fare, a cominciare da quella contro la Jugoslavia. Il centro non sta più nell’Occidente, come pensavano quelli che in nome degli idoli e delle ideologie dell’Occidente volevano e forse ancora vogliono trascinarci in una guerra perpetua contro l’Islam, crociata che giustamente la Chiesa di Papa Francesco rifiuta. Il centro non è più l’Europa, come credevano quelli che perduto l’Impero, sciolta la Compagnia delle Indie, finito il dominio dei bianchi in Sudafrica e dei francesi in Algeria, volevano sostituire questo dominio con il nuovo imperialismo universale del denaro, del denaro come sovrano globale.
Invece ci sono nuovi popoli e nuovi soggetti storici che stanno uscendo dalle antiche servitù, e avanzano la candidatura a vivere «nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole», come dice lo Statuto delle Nazioni Unite. Questa è la novità.
Il centro del mondo non è la City di Londra o Wall Street, ma è dovunque si gioca l’alternativa tra la vita e la morte, tra la cultura dell’accoglienza e quella dello scarto, ed è qui dove si gioca l’alternativa tra un Mediterraneo come cimitero dove si pescano i morti o un Mediterraneo come una sorgente di acqua viva da cui scaturiscano la giustizia e la pace.
La giustizia e la pace sono le due grandi conquiste della lotta di Liberazione su cui è stato costruito poi l’intero edificio della nostra Costituzione. Esse non erano però solo delle stazioni di partenza ideali, ma traguardi reali da raggiungere, erano la costituzione materiale da attuare e non solo per noi, ma per tutti. Infatti sono beni comuni universali, e proprio qui, nel Mediterraneo, la giustizia e la pace hanno avuto la loro culla.
Da dove viene la giustizia
Quanto alla giustizia, fatemi citare solo l’art. 3 della Costituzione che dice che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Ciò in un senso più generale vuol dire che la Repubblica, lo Stato, sono lì per sostenere la società, per fare da supporto ai deboli, ai poveri, per portare sulle spalle i miseri, per prendere su di sé le esigenze, i bisogni, le speranze del popolo; e l’art. 10 estende allo straniero questo farsi carico, quest’attenzione della Repubblica per l’uomo in difficoltà, a cominciare dal perseguitato, dall’esule, dallo straniero.
Ma quattromila anni fa, attorno al Mediterraneo, già si scrivevano e si progettavano queste cose. E ciò accadeva, prima ancora che si scrivesse la Bibbia, proprio in quei luoghi della Mesopotamia e del Medio Oriente che oggi l’Occidente ha messo a ferro e fuoco per esportarvi la sua democrazia. In quelle antiche società la giustizia del re, cioè del potere di allora, consisteva nel far giustizia al povero, all’orfano, alla vedova, allo straniero, cioè nel compensare con la sua forza la debolezza del debole e con il suo potere l’impotenza degli oppressi; dunque si trattava di un potere che prendeva parte, che si accorgeva di chi è curvo, un potere che vede il colore della pelle di chi invoca giustizia.
Per esempio nel secolo XXI a.C., 4000 anni prima di Keynes, prima dello Stato sociale, nel Codice di Ur dei Caldei, dove ora c’è l’Iraq, il re Urnammu si vantava che ad Ur l’orfano non era più in balia del ricco, la vedova in balia del potente, l’uomo di un siclo di quello che possedeva una mina; nel 1700 a.C., 3600 anni prima della dichiarazione universale dei diritti umani, nel Codice di Hammurabi il re si dava carico che «il forte non avesse ad opprimere il debole» e poneva la legge «per garantire la giustizia agli oppressi». In Egitto, al tempo del Medio Impero, un contadino si appellava al vizir del suo distretto per avere giustizia dicendo: «Tu sei il padre dell’orfano, il marito della vedova, il fratello della divorziata, il grembiule di chi non ha madre…» [1].
Da dove viene la pace
Questo, quanto alla giustizia. E quanto alla pace fatemi citare l’art. 11 della nostra Costituzione che ripudia la guerra e dice che è compito della Repubblica, anche a scapito della sua sovranità, volgersi a costruire «un ordinamento di giustizia e di pace tra le nazioni». Ma già tremila anni fa sulle rive del Mediterraneo le profezie bibliche annunciavano che le lance sarebbero state tramutate in falci, che sarebbe stato spezzato l’arco di guerra e un popolo non si sarebbe più levato in armi contro un altro popolo, e poi il cristianesimo annunciò che Dio stesso si era fatto mettere in croce per far fiorire la pace sulla terra. E i bronzi di Riace, se davvero alludono a Eteocle e Polinice, ci parlano di Antigone, della prima obiezione di coscienza contro la guerra fratricida, contro la città che si vendica.
Allora che cosa vuol dire ripartire da qui, dal Mediterraneo, per realizzare nel mondo questi valori? Si tratta di passare dalla globalizzazione dell’indifferenza, dell’inimicizia, della diseguaglianza alla globalizzazione della pace, dell’accoglienza senza esclusioni e della dignità umana fondata sul lavoro.
Come ancora sono lontane
Per quanto riguarda la pace, è chiaro che oggi essa è negata da gran parte della politica nazionale e mondiale. L’art 11 della Costituzione è contraddetto dalla politica nazionale quando si estende la formula della difesa fino all’invio di forze armate in Africa per intercettare le carovane di profughi nel deserto o per attivare la marina libica alla caccia e alla cattura dei migranti nel Mediterraneo, fino alla negazione di ogni umanità nei campi profughi. La pace è negata dalla politica nazionale quando l’Italia non approva, non firma e non ratifica il trattato dell’Onu sull’interdizione delle armi nucleari, mentre rifornisce di armi Paesi che ne bombardano altri e primeggia nel mercato degli armamenti realizzando uno dei più alti avanzi commerciali del settore.
La pace è negata dalla politica internazionale quando Trump reintroduce nelle opzioni americane la risposta nucleare a offese “convenzionali” e perfino al terrorismo. La pace è negata dalla politica internazionale quando si continuano ad agitare gli spettri di false armi di distruzione di massa per scatenare guerre o bombardamenti reali, come ieri contro l’Iraq e oggi contro la Siria. La pace è negata dalla politica internazionale quando l’Onu viene esclusa dal compito che dovrebbe svolgere di fronteggiare le minacce e le violazioni della pace, della sovranità e gli atti di aggressione. La pace è negata dalla politica internazionale quando le potenze nucleari respingono il bando delle armi nucleari, e quando Stati o sedicenti Stati alimentano la guerra mondiale diffusa già in atto e avallano e praticano politiche di genocidio.
L’Italia deve aderire al patto antinucleare, non deve fornire armi all’Arabia Saudita, al Kuwait, alla Libia e ad Israele che continua a negare lo Stato di Palestina: perfino a Roma l’Anpi ha dovuto respingere la richiesta della comunità ebraica di non far sfilare i palestinesi nel corteo del 25 aprile; i palestinesi non devono esistere, non devono più essere visibili.
Quello che invece si deve fare, con una grande lotta politica nazionale e internazionale, è di dare seguito al capo VII della Carta dell’Onu che postula una forza di polizia internazionale comandata dai cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza, e attuare le risoluzioni dell’Onu. E si deve riprendere la grande proposta avanzata da Gorbaciov e dall’indiano Rajiv Gandhi alla fine della guerra fredda di «un mondo senza armi nucleari e non violento». Un mondo, si può oggi aggiungere, sollecito verso la propria conservazione e salvaguardia anche fisica secondo le richieste della intera comunità scientifica fatte proprie anche dalla Enciclica «Laudato sì». Allora diventerà nuovamente possibile dare effettività all’art. 11 della Costituzione.
Per quanto riguarda l’accoglienza il punto è di riconoscere e realizzare l’unità umana. Deve cadere la discriminazione della cittadinanza che è l’ultima discriminazione che è rimasta dopo che tutte le altre (di sesso, di razza, di religione) almeno in via di principio sono cadute. Questa discriminazione dell’altro, di chi è nato altrove, di chi non è cittadino deve ora essere superata attraverso politiche programmate e controllate di accoglienza, protezione e integrazione. Esse devono mirare a realizzare lo ius migrandi, il diritto di migrare, già proclamato come diritto umano universale all’inizio della modernità. La realtà delle migrazioni è un prodotto irrecusabile della globalizzazione che noi stessi abbiamo voluto e perseguito. Non è possibile nasconderla, segregarla o reprimerla perché questo porta con sé, in nuce, il genocidio. La xenofobia è una nuova declinazione del fascismo, e il genocidio è il suo punto finale. Quello delle migrazioni non è più pertanto un problema esterno degli Stati, ma un problema interno dell’unica Nazione umana e del suo ordinamento giuridico sulla terra. L’Italia per la sua posizione geopolitica, ma ancora di più per il suo dna, deve essere all’avanguardia nell’avviare questo processo e nel rivendicarlo dagli altri, prima che la catastrofe avvenga.
Per quanto riguarda la dignità umana fondata sul lavoro noi siamo oggi di fronte a un’impotenza del sistema economico vigente che non è più in grado di creare il lavoro necessario alla vita. E non è in grado non perché il lavoro costa troppo, come vuol far credere il Jobs act, ma semplicemente perché il lavoro non c’è, esso è stato e in misura crescente viene distrutto dalle macchine, dall’automazione e dai capitali che corrono liberamente dove i poveri sono sfruttati le tasse non si pagano e i diritti non ci sono. Ciò è avvenuto non gradualmente, come all’inizio della rivoluzione industriale, ma è avvenuto con enorme rapidità, anche perché sono stati fatti massicci investimenti nell’innovazione tecnologica proprio allo scopo di distruggere lavoro umano o per delocalizzarlo in zone meno protette, dove non costa nulla, o addirittura c’è di nuovo il lavoro schiavo; ce ne sono infatti 45,8 milioni in tutto il mondo, di cui 18,35 solo in India.
La mancanza di lavoro sta raggiungendo tali dimensioni di massa da alterare tutti gli equilibri dei rapporti economici politici e sociali.
In Italia, venendo meno il lavoro, la Repubblica perde il suo fondamento (art. 1 Cost.) e perciò la sua stabilità e la sicurezza del suo futuro; in Europa l’Unione economica e monetaria perde il primo dei tre obiettivi fondamentali per cui è stata costituita e via via potenziata, ossia «piena occupazione, progresso sociale e tutela e miglioramento della qualità dell’ambiente» come prevede l’art. 3 del Trattato sull’Unione; nel mondo il sistema economico perde l’equilibrio dialettico tra capitale e lavoro, deprimendo fino a sopprimerlo il fattore lavoro. La resa in tal modo imposta a uno dei due protagonisti del conflitto capitale-lavoro, non lo risolve, ma ne spegne la spinta propulsiva e spinge la polarizzazione delle diseguaglianze fino agli estremi di una ricchezza detenuta da una decina di uomini pari a quella complessiva di 3,6 miliardi di persone sulla terra.
Per ristabilire gli equilibri e una società vivibile è ora necessario creare nuovo lavoro e, renitente il mercato, questo non può farlo che il soggetto pubblico, nelle sue varie articolazioni e competenze, sia in Italia che in Europa che a livello globale.
A tal fine la prima cosa che l’Italia dovrebbe fare e nel contempo proporre all’Europa, è di riaprire il glorioso capitolo dell’intervento pubblico nell’economia, contro il dettato del Trattato europeo che proibisce gli “aiuti di Stato”, che non sono aiuti ma la manifestazione stessa della comunità politica sovrana come soggetto anche economico.
Non si tratta di “uscire dall’Europa” o dall’euro, si tratta di promuovere una revisione delle norme istitutive: se più volte si è cercato di cambiare la Costituzione italiana, tanto più si può cercare di modificare un trattato europeo. Del resto lo stesso Trattato sul funzionamento dell’Unione europea all’art. 107 ammette l’intervento dello Stato quando ci siano regioni «ove il tenore di vita sia anormalmente basso, oppure si abbia una grave forma di sottoccupazione». Ebbene, questa situazione indubbiamente esiste in Italia quando ci sono 5 milioni di persone che vivono “in povertà assoluta”, 18 milioni “a rischio di povertà e di esclusione”, e la disoccupazione è all’11 per cento con 3 milioni di disoccupati tra cui il 37 per cento dei giovani, soprattutto nel Sud: ciò che non è un semplice “difetto” della politica, è un crimine.
Se da qui, da questo centro del mondo, riusciremo a promuovere queste politiche, non solo per noi, ma a livello globale, secondo i vecchi principi dell’internazionalismo, allora i grandi valori umani universali concepiti sulle sponde del Mediterraneo e giunti fino al giorno della nostra Liberazione e fino ad oggi, potranno dar luogo a un nuovo costituzionalismo, a una nuova comunità internazionale di diritto, il mondo troverà la sua unità e, come dicevano le antiche Scritture, giustizia e pace si baceranno sulla terra.
*Discorso tenuto alla festa della Liberazione promossa dall’Anpi di Reggio Calabria – 25 aprile 2018
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[1] Vds. Jacques Dupont, Le Beatitudini, Edizioni Paoline, Roma, 1976, vol. I, parte II, cap. II, pp. 577 seg.