Fonte: Limes
RABBRIVIDIRE PER KIEV?
Le tre ipotesi di reazione all’invasione russa dell’Ucraina: guerra al Cremlino, sanzioni economiche, stare a guardare. Perché abbiamo scelto la numero due, che assomiglia abbastanza alla tre. Derussificare i nostri consumi fossili è possibile. Ma con giudizio.
1. Proviamo a banalizzare, e non senza una qualche dose di cinismo. L’esercito di uno Stato sovrano (per esempio la Russia) penetra sparando nel territorio di un altro Stato sovrano (facciamo l’Ucraina). In teoria (banalità) abbiamo tre opzioni. La prima è l’opzione militare, e dunque dispiegare le forze in soccorso dell’invaso. La seconda è l’opzione economica, laddove ci teniamo lontani dal terreno ma ci ingegniamo a punire l’invasore impoverendolo attraverso «sanzioni» economico-finanziarie; e la terza è non far nulla e lasciar fare. Ciascuna opzione ha conseguenze proprie (cinismo). Se imbocchiamo l’opzione militare si muore tutti. Se imbocchiamo l’opzione economica si diventa più poveri tutti. Se lasciamo fare si muore e si diventa più poveri essenzialmente in Ucraina. Donde il paradosso per cui la terza opzione è in realtà molto gettonata; però per ragioni di political correctness sempre e comunque e solo (o quasi) sotto falso nome.
2. La declinazione dei nomi dell’opzione 3 ha la sua versione più nobile nell’appello alla diplomazia. Niente guerra; niente sanzioni; tanta trattativa e una spruzzata abbondante di diritto internazionale. Si vis pacem para bellum è massima che questa declinazione non può che obliterare. Quali strumenti di negoziato, al netto della buona volontà, restino disponibili confesso non essermi chiaro. Qualcuno è giunto a sostenere che se disarmassimo ci sederemmo più forti al tavolo; ma a me che pur spero di sbagliarmi pare solo andargli a proporre di arrenderci noi invece dell’Ucraina. Temo accetterebbero.
Poi ci sarebbe la spruzzata di diritto internazionale, ma non è chiaro come funzioni. L’Onu è impedita al peacekeeping dal diritto di veto della Russia; e i tribunali internazionali mostrano propensione a perseguire crimini di guerra solo dopo che il presunto responsabile è stato sconfitto o quantomeno è caduto in disgrazia. L’opzione diplomatica ha il fascino del rinvio al ripudio costituzionale della guerra e alla sua (del ripudio) santità; ma a volte per potersi permettere di evitare la guerra bisogna ripudiarla almeno in due. La nobiltà si coniuga all’inefficacia; onde nella prassi l’abbandonarsi a una teoria pura dell’azione diplomatica equivale in realtà all’adozione dell’opzione del lasciar fare.
Poi ci sono tante e altre declinazioni, che hanno come nocciolo una qualche forma di comprensione dell’invasione. La guerra continua dal 2014, e noi non abbiamo mai voluto ascoltare le ragioni del Donbas russofilo che ora la Russia difende. I russi vanno protetti dagli ucraini doc, che è da tutto il secolo che i loro leader indipendentisti sono nazisti dichiarati e pure antisemiti. E così di seguito; con una munita squadra di commentatori allo sbaraglio che si sono convertiti da virologi in ucrainologi. Lungi da me entrare nel merito, che lascio agli storici 1. Il punto non è la storia. È il presente. Possiamo e/o vogliamo fare qualcosa di concretamente dissuasivo per arrestare o almeno rallentare bombe e morti? La via diplomatica si arresta sullo scoglio del «concretamente» e la linea delle loro (russe) ragioni porta non solo al laissez faire ma anche ed esplicitamente al rifiuto di fare.
3. Poi qualcosa abbiamo deciso di fare. Esclusa l’opzione militare ci abbiamo provato (Europa e Stati Uniti) con quella economica (con la Cina vigilmente assente). Ho affermato in premessa che così diventiamo tutti più poveri. E adesso mi tocca di motivare. Muovendo dalla globalizzazione e dai suoi effetti. La globalizzazione può piacere oppure no, e di regola chi vi si scaglia contro è mosso da fobia per il complotto dei poteri forti della finanza che ne sarebbe insieme causa e beneficiario. In punto di industria e commercio la globalizzazione è comunque (stata?) stato di fatto; e rendendo virtualmente infinito l’interscambio globalizza e internazionalizza la divisione del lavoro della fabbrica di spilli di Adam Smith e rende prassi la teoria dei vantaggi comparati di Ricardo.
Che cosa vuol dire, spinta all’estremo, «sanzione» economica? All’ultimo stadio, significa semplicemente esclusione del sanzionato dalla globalizzazione; ovvero chiuderlo autoreferenzialmente dentro un recinto industriale, valutario e commerciale. Qui così diventiamo più poveri tutti; e dal nostro punto di vista lo diventiamo perché la chiusura del recinto ci priva insieme di un mercato e di un fornitore. Laddove quella del mercato si traduce essenzialmente in perdita di export; e quello del fornitore diventa un tema di catene di approvvigionamento o se preferite di catene globali del valore 2. La specializzazione indotta dalla globalizzazione ha spesso rilocalizzato la produzione; ma soprattutto ha moltiplicato le origini dei componenti del manufatto. Per far d’esempio, uno smartphone oggi incorpora componenti (dalle terre rare ai chips) di regola provenienti da un paio di centinaia di fornitori variamente sparsi per il mondo. Se qualcuno di quelli critici viene rinchiuso dentro un recinto la sua sostituzione può essere meno che immediata, e il processo produttivo quantomeno rallentato.
Quanto si rischia di diventare più poveri? Il presunto rinchiuso, sembrerebbe, più di noi. Il suo pil è tributario del suo interscambio con l’Unione Europea per un 15%; e noi tributari suoi per l’1,35. Il suo export merceologicamente impatta sulla nostra catena del valore con componenti all’apparenza non insostituibili (dal metallurgico al neon per semiconduttori) 3; e per contro l’export italiano (nel 2021 superiore ai 7,5 miliardi di euro) rappresenta grosso modo l’1,5% del nostro export complessivo. Ci sarà e c’è un tema di distribuzione del diventare più poveri; ma l’impoverimento in nome del non poter giusto lasciar fare sembrerebbe per misura mantenersi nei limiti del sopportabile.
Se non fosse che abbiamo sin qui omesso l’essenziale. Nel dare i numeri abbiamo ignorato la partita energia; e nel parlare di recinto abbiamo omesso la Cina.
4. La Cina, ovvero il recinto dimezzato. Lo steccato è in Occidente; ma in Oriente la globalizzazione è ancora possibile. Si rischia sanzionando di essere inefficaci; e insieme, e soprattutto, di benedire il formarsi e il rinsaldarsi di un blocco Cina-Russia contrapposto al blocco occidentale. Che avrebbe tra l’altro come possibile esito quello di creare due catene di approvvigionamento reciprocamente indipendenti 4. Due (semi)globalizzazioni al posto di una. Laddove la rappresentazione è estrema (che l’interscambio se pur antagonista continui e anzi si arricchisca sarebbe nell’interesse di entrambi); ma serve a sottolineare come in prospettiva questa divisione lascerebbe nelle mani e sotto il controllo dell’«altro» una quota più che preponderante dei minerali indispensabili (terre rare e quant’altro) alla digitalizzazione e all’energia prossime venture; con ciò riducendo l’Occidente a una condizione di dipendenza e quindi di subalternità.
Segnalo la rappresentazione del rischio, e lascio agli analisti della geopolitica di valutarlo. Qui il punto che interessa è più limitato. E dunque sta nel capire se le sanzioni dell’Occidente siano o meno il fattore scatenante di un asse Russia-Cina.
Proviamoci a raffigurare stato e percorso dello sviluppo russo. Ancora oggi la base economica è fatta di esportazione di risorse e di produzione energivora (metallurgia e dintorni). Fuor di dichiarazioni e buone intenzioni non si vede all’orizzonte un modello di sviluppo alternativo.
Difficile perciò non mantenere come priorità il mantenimento e se possibile la crescita sine die della rendita fossile. L’Europa annuncia impegno estremo alla decarbonizzazione, e dunque (già da tempo prima dell’invasione) non fa che ripetere alla Russia che non vede l’ora di non essere più suo cliente. La Cina, per contro, ha rispetto a noi spostato in là nel tempo l’orologio della decarbonizzazione. Si dà come obiettivo net zero per il 2060 anziché per il 2050; continua a costruire nuove centrali a carbone; e dipendendo ancora dal carbone per oltre il 60% della propria generazione elettrica ha ampi margini (e politiche dichiarate) di sostituzione della generazione a carbone con quella a gas, con gli analisti che ipotizzano un raddoppio dei consumi di gas naturale da qui al 2035 5. A chi dovrebbe guardare la Russia per prolungare per più tempo possibile la propria rendita fossile? La decarbonizzazione spinge inevitabilmente il russo verso il cinese; e l’Ucraina al più può accelerare un processo che è comunque nelle cose.
Nel 2021 la Russia ha esportato via gasdotto in Europa grosso modo 170 miliardi di mc di gas naturale; e in Cina 16,5. Il gasdotto che va in Cina dovrebbe a regime arrivare a 38 miliardi; e il nuovo gasdotto di cui è stata approvata la fattibilità (Power of Siberia 2) se e quando realizzato avrà a regime capacità per altri 50 miliardi (Power of Siberia 2 tra l’altro originerà dalla regione di Jamal, quella da cui originano i gasdotti che vengono in Europa). Siamo ancora molto lontani dalla possibilità che i volumi cinesi possano compensare l’eventuale perdita dei volumi europei; ma la possibilità della sostituzione è obiettivo cui la Russia sta comunque e con priorità lavorando.
Se vuoi avere la capacità di attrarre la Russia negli anni a venire e prevenire la saldatura col cinese devi qualificarti come autorevole partner del suo cambiare progressivamente modello di sviluppo e dunque del suo affievolire la propria dipendenza dalla rendita fossile. È un ruolo che con le dirigenze politiche dell’oggi non può neanche essere immaginato; e però in prospettiva o ci proviamo o le ragioni della rendita non potranno che continuare a spingere Mosca verso Pechino. Il processo di avvicinamento è nelle cose; e l’invito a mitigare la sanzione per prevenire la saldatura russo-cinese in questa prospettiva rischia di ridursi a una variante definitoria dell’opzione laissez faire.
5. L’energia, ovvero della dannazione reciproca. Loro ci danno grosso modo un 40% del gas che importiamo; e però i proventi fiscali dell’esportazione di idrocarburi gli coprono più del 40% del budget federale. In termini di ricavi, l’anno scorso la Russia ha incassato quasi 231 miliardi di dollari dall’esportazione di idrocarburi (con i ricavi da petrolio e suoi prodotti che hanno generato grosso modo il 70% dell’incasso) e qualche altra decina dall’export di carbone. Non sembrerebbe che di questi ricavi, a pena di collasso del sistema e della sua economia, possano permettersi di fare a meno. Nella guerra delle dichiarazioni di queste settimane a quelle apparentemente più minacciose (dal preallarme nucleare alla minaccia di pesanti controsanzioni) ha sempre fatto rassicurante seguito il ribadire «la continuità delle forniture di gas all’Europa».
Il segnale forte è che se non ridotti alla disperazione loro il rubinetto non lo chiudono (al punto che dal giorno dell’invasione le esportazioni russe via tubo ucraino sono aumentate). E dunque se davvero si ha da sanzionare toccherebbe a noi chiudere, posto che con grande sorpresa (???) abbiamo recentemente scoperto che con l’idrocarburo che esportano si finanziano non solo welfare e investimenti, ma financo l’esercito invasore.
Il problema è che loro non possono fare a meno di noi; ma anche noi (qui intesi come Europa) sembra che non possiamo fare a meno di loro. Il 40% del gas, il 27% del petrolio e il 46% del carbone che importiamo viene dalla Russia; e soprattutto non è immediatamente sostituibile (per dare un’idea, da un recente incontro tra la presidente della Commissione europea e il presidente degli Stati Uniti sarebbe emersa la possibilità di aumentare le nostre importazioni dagli Stati Uniti di 15 miliardi di mc; e noi come scritto dalla Russia via tubo se ne importa correntemente un 170 miliardi/anno). Noi poi (qui intesi come Italia) siamo quelli con la maggiore quota di gas (16%) nel paniere del fabbisogno energetico nazionale. A chi asserisce la sciaguratezza di questa scelta, andrebbe comunque fatto notare che negli anni Settanta la crescita dei consumi e la progressiva fuoruscita dalla fonte/carbone ti davano come uniche alternative su piazza gas e/o nucleare; e se poi vi identificano la sciagura con la quota russa, osservategli che per anni abbiamo importato di più dall’Algeria che dalla Russia e che prima dello sviluppo del mercato del gnl il gas te lo dovevi comunque andare a prendere non solo dove c’era, ma anche da dove potevi portartelo via tubo.
Embargare il fossile russo sarebbe «la» sanzione; e però anche un’autosanzione. All’embargo contro il petrolio russo hanno sin qui entusiasticamente aderito solo paesi che non importano petrolio russo. E per noi embargare il gas naturale significherebbe nell’immediato e per impossibilità di reperire offerta sufficiente 6 riuscire a diminuire di un 15% i nostri consumi. E insieme al deficit dei volumi ci toccherebbe probabilmente fare i conti con una devastante spirale di prezzo. Già oggi soffriamo pesantemente per i prezzi dell’energia e per il ripartire della spinta inflattiva; e inconsciamente col passare del tempo li associamo entrambi all’invasione dell’Ucraina e alla guerra in corso. In realtà nel post-Covid i due fenomeni si sono manifestati per problemi strutturali dei mercati e delle economie di riferimento, e la guerra a guardare i numeri vi ha sin qui poco o nulla influito. Il prezzo del gas 2021 a dicembre è arrivato a sestuplicare da inizio anno; e l’inflazione americana è arrivata al 7% tra ottobre e novembre; molto prima dunque del 24 febbraio e in tempi in cui i mercati non sembravano ritenere realistica l’ipotesi invasione. Togliendo l’idrocarburo russo dal tavolo si sottrae in definitiva offerta a un mercato che già soffre di contingente scarsità; e non basta un price cap a tenere il genio dentro la bottiglia. L’inverno prossimo, in queste condizioni, me lo vedo particolarmente freddo e difficile; e la tenuta sociale anche.
Che fare? Il meglio che possiamo permetterci se vogliamo sanzionare l’energia è la sanzione variabile; ovvero progressiva. Embargo quel che non mi serve, perché nel frattempo sono riuscito a rimpiazzarlo o a comunque diminuire i consumi. È la strada che sembra voler imboccare l’Unione Europea. Che ci promette un piano per tagliare di due terzi le importazioni di gas russo entro quest’anno (laddove il terzo che resta è parente stretto del 15% di taglio dei consumi cui si accennava sopra) e l’embargo pieno entro 5 anni 7.
Prendergli solo il gas che non riusciamo a comprare altrove. Suona, detta così, un poco provocatoria. Penso che una gradualità meno perentoria avrebbe lasciato più spiragli al negoziato (e mi riferisco essenzialmente a quello bellico). Magari si sarebbe potuto cominciare dal limitare l’acquisto ai volumi sotto contratto di lungo periodo con esclusione di qualunque volume non già contrattualizzato, e con implicita riserva di non rinnovo alla scadenza; e poi riservarsi di inasprire. Si è voluto da subito esplicitare l’obiettivo massimo (l’embargo totale a data fissa). Della saggezza dell’approccio ci dirà il domani.
Soprattutto ci dirà della reazione del russo. Meglio almeno nel breve periodo farsi pagare poco che niente, oppure meglio rovesciare subito il tavolo e prendere l’iniziativa di anticipare la chiusura del rubinetto? Col pretendere il pagamento del gas in rubli Putin ha fatto il muscolare; ma in punto di tecnica bancaria un salvafaccia per tutti è ancora possibile (tipo versare dollari alla Banca centrale russa con delega di pagamento in rubli a Gazprom; o similari). Il taglio delle forniture non ha invece salvacondotto «tecnico». Il salvafaccia per tutti si fa obiettivo impervio.
L’energia che rischia di diventare il pezzo forte di un ulteriore escalation. Ne vale davvero la pena?
6. Tocca tentare una risposta al se ne valga la pena. E temo mi uscirà più emotiva che politica. Nonno in trincea ha perso un occhio. Papà la guerra dopo era partigiano. Anche grazie a loro sono arrivato alla mia quasi veneranda età senza mai contemplare la possibilità stessa di un’altra guerra europea. Vero, ci fu la ex Jugoslavia; ma a torto o a ragione la percepimmo tutti come conflitto «locale», e non come conflitto «europeo».
Il 24 febbraio mi è cambiato il mondo. Per la prima volta ho contemplato la possibilità di una nuova guerra «europea». E insieme mi è preso il senso del non capire dove andavo; e però la certezza che non si sarebbe più tornati al prima.
In qualche modo ho messo insieme Afghanistan e Ucraina. L’integralismo religioso che si fa Stato. E uno Stato sovrano che invade un altro Stato sovrano scatenando una guerra di potere ed espansione territoriale, una forma bellica che in Europa pensavamo rimanesse chiusa nel Museo del Novecento.
In Afghanistan la nostra reazione è stata laissez faire, e pure comunicato in anticipo. Ma si sa, l’intensità con cui difendiamo i diritti e i valori è a volte funzione di etnia e di distanza. Con l’Ucraina c’è vicinanza, e anche in qualche modo sentore di Europa. E comunque rifiuto, e doveroso, di lasciare scappare i fantasmi dal museo.
Per il nostro rifiuto abbiamo scelto la forma sanzione. E ci rendiamo tutti conto che per renderla efficace ci tocca sacrificare al Moloch energia. Di assumere l’obiettivo di derussificare il nostro fossile. Poi tante sono le forme e i tempi per farlo; e in presenza di un’escalation muscolare la forma si fa sostanza (Sarajevo, temo, docet). Confesso disagio per la forma che la Ue sembra aver scelto. Si può fare più progressivamente, e si può fare senza urlarlo. Però il dissenso sulle forme del fare non può farsi dissenso sul fare. Anche sapendo che la reazione potrebbe essere forte, e contribuire a farci (ancora) più poveri e anche più freddi.
Il primo rischio che ci prendiamo è quello, l’inverno prossimo, di rabbrividire per Kiev.
Note:
1. Due le principali figure di riferimento della «nazificazione». Symon Petljura (immortalato in negativo in La guardia bianca di Bulgakov e brevemente – 1918-1919 – a capo della Repubblica Popolare Ucraina) come nazista era abbastanza ante litteram, posto che è morto nel 1926; e il suo ruolo di promotore attivo di pogrom è stato almeno in parte messo in discussione dalla storiografia recente. Stepan Bandera è invece nazista e antisemita dichiarato con varie imprese criminali a carico; e che in anni recenti l’Ucraina lo abbia elevato a rango di eroe nazionale non ha certo giovato alla causa nazionale. Poi però, senza pretese di invadere il pascolo degli storici, magari con le simpatie popolari c’entra che gli indipendentisti a reprimerli si trovavano di regola i russi (per inciso, sia Petljura sia Bandera sono tramandati assassinati da mano armata dai sovietici) e che l’Holomodor (la grande carestia ucraina indotta dalle politiche staliniane nel 1932-33) non ha a sua volta contribuito alla fratellanza tra i popoli. Spesso diamo una lettura tutta politicista del XX secolo; laddove esplorare l’idea che le differenze «ideologiche» possano essere derivate di irreconciliabili conflitti di nazionalità e di etnia potrebbe non essere idea infertile. I croati non erano filonazisti perché studiavano Julius Evola; e il comunismo serbo magari non era figlio dei Grundrisse.
2. Per un’efficace introduzione al tema, G. Giovannetti, E. Marvasi, L’Italia nelle catene globali del valore, Soveria Mannelli 2022, Rubbettino.
3. Per il dettaglio dell’importazione Ue di minerali dalla Russia, F. Maronta, «La madre di tutte le sanzioni è un’arma spuntata», Limes, «La Russia cambia il mondo», n. 2/2022, pp. 87-99.
4. Per un’analisi recente, G. Ottaviano, «Le sanzioni recidono i legami, scenari di riglobalizzazione selettiva tra Paesi affini»; e P. Bricco, «Il colpo di grazia alla globalizzazione», Il Sole-24 Ore, 20/3/2022.
5. I. Razlomalin, I. Sushin, O. Waterlander, «The road to China: An opportunity for Russian gas to play out», Oil & Gas Practice, McKinsey & Company, novembre 2018.
6. Per un’eccellente analisi dei limiti a trovar rimpiazzo al gas russo, B. Mcwilliams, G. Sgaravatti, S. Tagliapietra, G. Zachmann, «Can Europe survive painlessly without Russian gas?», bruegel.org, 27/1/2022
7. La posizione europea è dettagliata in un discorso del commissario Gentiloni all’Università di Oxford (22/3/2022), Speech by Commissioner Gentiloni: Turning point (europa.eu)