di Alfredo Morganti – 10 gennaio 2018
Quel poco che resta della politica oggi, lo esemplifica sinteticamente su ‘Repubblica’ Ezio Mauro. Quale deve essere, secondo Mauro, il primo comandamento in politica? Vincere. Solo quello. Unirsi, nella totale diversità, anzi nell’abisso reciproco. Sferrare l’assalto al Palazzo, anche coi mercenari, anche senza un comando unico oppure obiettivi condivisi. Colpire il nemico, e non importa che le strade degli ‘alleati’ siano così lontane, divergenti, e non si incrocino nemmeno un po’. ‘Vincere’, soprattutto, senza nemmeno indicare un-punto-uno di contenuto. Forse nella tragica consapevolezza che i programmi li scrivono altri (le imprese, i lobbisti, chi detiene le risorse, gli sponsor, i referenti dei vari ‘mondi’), e sono, a queste condizioni e nei termini del paradigma che descrive Mauro, programmi tutti uguali o molto somiglianti. Quasi scambievoli. Programmi per cui si punta a ‘fare’ soltanto ‘meglio’ degli altri.
Perché non vi telefonate, dice l’ex direttore di Repubblica? Vi telefonate, vi mettete d’accordo, scegliete un candidato comune pronto a scendere in campo e provate a vincere, sennò vince la destra. Questa è la politica? Questa la democrazia? Ma questa è una specie di simulacro della democrazia, uno spettro quale risultante finale di una visione ‘calcistica’, tecnica, muscolare, interessata del governo della polis. Ed è fatta propria da un giornale che della sinistra vorrebbe essere nume tutelare, faro splendente nella notte, e che da decenni aspira a guidarla, la sinistra, riuscendoci pure. Questo resta, dunque, di tanto discutere, animarsi, appassionarsi? Una telefonata per fare l’alleanza, decidere le percentuali reciproche e poi partire alla conquista della piazza? Ok, però, sullo stesso giornale non accusate poi la politica di essere ‘piatta’, sorda, grigia, freddamente calcolatrice, ancella della comunicazione. E solo bramosa di scranni, solo desiderosa di conquistare la vetta e poi rinserrarsi lì, come aliena nelle istituzioni. Una sorta di ET.
Se proprio ‘Repubblica’ ci tiene così tanto a fare un partito piuttosto che un giornale, si faccia carico in toto di questa tragedia, di questa politica liscia e uniforme, su cui i destini della nazione e le responsabilità (comuni o divise) scivolano via come acqua. E non ne chieda la ‘vittoriosa’ riconferma. Quel che posso dire io è: una forza politica deve crescere, deve aprirsi al Paese, indicare prospettive, rappresentare, essere presente tra i cittadini e nelle istituzioni. Non c’è un ‘nemico’, non ci sono partite da ‘vincere’, ma un dialogo da ricucire coi cittadini, una rappresentanza da ricostruire, istituzioni da far rifunzionare, una presenza da mettere in scena. Certo che il ‘governo’ è il primo obiettivo, e governare è la ragione per cui in democrazia si compete! Ma se si assalta il Palazzo come l’armata Brancaleone o come una squadra di commandos (l’una modalità vale l’altra), e lo si fa senza nessuna delle cose che ho detto (presenza, rappresentanza, dialogo coi soggetti sociali, forza reale, prospettiva, idee comuni, valori condivisi) vuol dire che l’alleanza è di comodo, è di interesse, riguarda solo la piazza che si vuole occupare, e serve solo a portare a casa percentuali, o seggi, o consulenze, gestendo alla meglio programmi, tutti uguali, scritti da altri. Eccola la morte della sinistra: della sinistra che vuole trasformazione, cambiamento sociale, più democrazia, più giustizia sociale e diritti, più solidarietà, per i molti e non per i pochi, e non solo un Palazzo d’Inverno (o della Regione) da occupare come se si trattasse di un gioco di società o di una partita di calcio, oppure l’esito di un giro di roulette.