Fonte: huffingtonpost.it
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di Stefano Fassina – 12 ottobre 2015
È davvero triste lo spettacolo della politica e della comunicazione su Roma, sul Pd, sull’ex-sindaco. Tutto precipita sugli scontrini di Marino. Le tifoserie sono protagoniste. Da un lato, la schiera pressoché unanime degli editorialisti, spesso su fogli di padroni colpiti dalle scelte del “marziano”, divenuti improvvisamente esigente e inflessibile coscienza critica della Nazione tradita dalla sua capitale. Dall’altro, a sostegno del “marziano”, una attiva moltitudine di cittadini romani, accompagnati da qualche intellettuale in servizio civile per l’occasione, comprensibilmente timorosi di veder tornare i soliti interessi particolari a guidare le scelte del Campidoglio: non solo e non tanto i rubagalline, malavitosi ingigantiti a Capi dei Capi, e i loro miseri passacarte nell’intero circuito politico-istituzionale; ma i veri saccheggiatori di Roma, i grandi interessi immobiliari, finanziari, dei business dei rifiuti, dell’acqua, dell’energia, della sanità privata.
Sono stato tra i sostenitori di Marino sin dalle primarie, pur lontano dalla sua cultura politica venata di anti-politica (“non è politica, è Roma”). Non sono pentito. Era necessaria una radicale discontinuità con il Pd romano. Sono rimasto con lui fino alla sua partenza per le vacanze, nell’agosto scorso, quando il Consiglio dei Ministri stava per commissariare Roma. L’ho vissuta come un’inspiegabile e irrecuperabile diserzione. Adesso, in giornate amare, propongo di guardare oltre la strumentale gazzarra intorno a un sindaco che lascia un bilancio politico in attivo, nonostante gli insuperabili limiti dimostrati dopo l’esplosione di “Mafia Capitale”. È evidente la responsabilità del Pd di Roma: prima dell’elezione del 2013; durante il primo anno e mezzo di amministrazione Marino; dopo il disvelamento del malaffare sistemico.
Un partito arrivato all’appuntamento elettorale senza un progetto per la città, dominato da un ceto politico attento soltanto al “successo” personale e preoccupato dell’incontrollabile Sindaco. Un partito ostile, in larga parte del Consiglio Comunale, all’offensiva della Giunta contro le rendite consolidate e amiche. Un partito, dopo il terremoto provocato dalla magistratura, chiuso da un commissario autoreferenziale, indisponibile a coinvolgere nella ricostruzione le tante energie positive presenti nei circoli e nei Municipi per accreditarsi, insieme ai suoi, come salvatore della Patria.
È ancora più evidente la responsabilità del Pd nazionale: Marino non “è stato sfiduciato dai cittadini”, come dice la narrazione bugiarda del segretario del Pd e Presidente del Consiglio. No. Il Sindaco è stato innanzitutto sfiduciato da Matteo Renzi, nonostante i colpevoli tentativi del nostro Primo Cittadino di accreditarsi presso Palazzo Chigi come il rottamatore romano. Nessuna sorpresa: il Pd di Renzi è il partito dell’establishment, il “partito che piace alla gente che piace e che conta” (Galli della Loggia, sul Corriere della Sera). Ignazio Marino, in modo improvvisato e approssimativo, dava fastidio all’establishment romano e, quindi, al Governo Renzi.
Lasciamo stare il totonomi per il dopo Marino. Guardiamo alla questione di fondo. La “questione romana” oggi è, sostanzialmente, assenza di vocazione economica della Capitale. L’ha fotografata bene Walter Tocci in un pamphlet di qualche mese fa. La cosiddetta crisi del 2008, per Roma, è stata in realtà la chiusura definitiva di una lunghissima stagione, estesa almeno quanto lo Stato unitario, al suo massimo splendore dopo la seconda guerra mondiale, poi in ritiro dalla fine degli anni ’80. Roma capitale si è sempre alimentata attraverso tre principali fonti: la rendita immobiliare e l’attività edilizia; le pubbliche amministrazioni centrali; le sedi di comando delle grandi aziende pubbliche (dall’IRI, alle banche). Fonti principali, non esaustive. Insieme a esse, ma spesso in una relazione di dipendenza, il turismo laico e religioso e i centri di produzione di saperi (dalle università ai policlinici alle imprese della “Tiburtina Valley”).
Oggi, le tre fonti sono certamente ancora presenti, ma a scala ridimensionata o quasi annullata (il comparto legato alla rendita fondiaria e agli immobili), drammaticamente insufficienti per un’area metropolitana di 3,5 milioni di abitanti e, soprattutto, per la multiforme area sociale (impiegati pubblici e privati, insegnanti e personale della Sanità, lavoratori autonomi del commercio e dell’artigianato, giovani professionisti del terziario avanzato) a ridosso o appena sopra la soglia di accesso alle classi medie. Le tre fonti sono irrecuperabili nella loro funzione storica dato il quadro irreversibile della competizione globale, del fiscal compact e delle privatizzazioni, della fine dell’edilizia espansiva. Una questione strutturale, profonda, specchio dell’incerto futuro dell’Italia. Aggravata dall’insostenibile zavorra del debito pubblico scaricato sulle spalle della Giunta Marino dalle amministrazioni presenti. Una “questione nazionale”.
Ecco il nodo da affrontare. Una sfida impossibile per qualunque super-uomo o donna, per quanto assistito da geniali operatori del marketing della comunicazione politica e per quanto aiutato dai migliori esperti su piazza. Anche nel caso di una posizione meno ostile o finanche collaborativa di Palazzo Chigi. Una sfida che Marino e la sua giunta non potevano vincere. Non per i limiti soggettivi di Ignazio Marino o di una squadra complessivamente debole. Ma per il vuoto di progetto di città. Un vuoto dovuto all’assenza, da almeno un decennio, di un partito come attore culturale e sociale, epicentro di elaborazione programmatica, palestra di formazione e selezione di classe dirigente. Un vuoto allargato dalla decadenza, morale innanzitutto, di altri segmenti decisivi della casse dirigenti Roma: la guerra civile nella Camera di Commercio della Capitale, incomprensibile fuori da una logica di potere, è indicatore inequivocabile.
“Scoprire” o “inventare” la vocazione economica di Roma all’avvio del XXI secolo è una sfida possibile soltanto attraverso il coinvolgimento capillare e attivo, sistematico e ordinato, delle migliori energie morali e professionali presenti, dietro il basso livello medio di capitale sociale, nelle amministrazioni dei Municipi, nelle rappresentanze economiche e sociali, nell’associazionismo culturale e sociale. Insomma, attraverso un partito nelle forme adeguate a oggi.
È ora di girare pagina. La pochezza della nostra discussione pubblica porta alla spasmodica insistenza sul candidato. Vincere le elezioni è condizione necessaria, ma almeno in queste ore dovrebbe essere chiaro, non sufficiente a governare. L’alternativa non può essere tra restaurazione e discontinuità improvvisata, senza progetto. La stagione Marino si è chiusa. In modo ingiusto, ma si è chiusa. È necessario aprire, qui è ora, in alternativa al Pd, una stagione di discontinuità progettuale da affidare a una classe dirigente adeguata. Al lavoro, insieme, per Roma.