Il gesto femminista

per Gian Franco Ferraris

IL GESTO FEMMINISTA – a cura di ILARIA BUSSONI e RAFFAELLA PERNA –  ed. DERIVE APPRODI

di SIMONETTA FIORI, la Repubblica | 03 Luglio 2014

Per la prima volta un libro fotografico racconta il simbolo delle lotte femministe

QUASI sempre sorridono. E anche quando la bocca disegna rabbia, lo sguardo è ironico, luminoso, fiero della nuova sfida. Ridono le donne, così meravigliosamente diverse tra loro. Giovani e vecchie, anche molto vecchie, filiformi e grasse, borghesi up-to-date e casalinghe in vestaglia, botticelliane e goffe, tutte lunarmente distanti da canoni estetici omologanti. Sono le donne degli anni Settanta, ritratte mentre compongono nell’aria quel gesto spudorato che segnerà la storia del femminismo. Un triangolo fatto con le dita, unendo le punte dei pollici e quelle degli indici. In mezzo il vuoto, il varco di libertà attraverso cui passò una rivoluzione. Forse l’unica che ci sia stata veramente in Italia.
È merito di una piccola casa editrice, Derive Approdi, riproporre dopo quarant’anni l’album fotografico del gesto iconico delle lotte femministe. Nelle mani era custodito lo scandalo. Le dita ribelli annunciavano al mondo che le donne erano padrone: del corpo, della sessualità, della contraccezione. Di nuove relazioni sentimentali e sociali. Di un modo diverso di stare a casa, in fabbrica o all’università. E di un nuovo immaginario che ribaltava logiche patriarcali. La favola bella della costola di Adamo era finita. Cominciava un’altra storia, narrata per la prima volta da una voce femminile ( Il gesto femminista. La rivolta delle donne: nel corpo, nel lavoro, nell’arte , a cura di Ilaria Bussoni e Raffaella Perna, pagg.168, euro 20).
Ma come nacque quella “mossa simbolica” destinata a sconvolgere un paese che ancora ammetteva il delitto d’onore, “le pene corporali” dei mariti e dei padri, un diritto di famiglia arretrato? Al pari di tanti segni consegnati al mito, è difficile rintracciarne l’origine. Rovistando tra le memorie femministe, Laura Corradi ci conduce a Parigi, tra migliaia di persone riunite alla Mutualité. È il 1971, l’atmosfera carica di pathos. Performance musicali, filmati e testi recitati evocano le violenze contro le donne. Tra gli ospiti illustri anche Simone de Beauvoir. Dalla platea s’alza una giovane militante italiana che unisce pollici e indici per aria. Il gesto della vagina. «Istintivamente mi venne da fare così», racconta ora Giovanna Pala. «Il simbolo, per la prima volta, l’avevo visto sulla copertina di una rivista francese, Le Torchion Brule . Mi aveva colpito per l’immediatezza del messaggio. Quando alcuni ragazzi alzarono il pugno chiuso, io feci quell’altro segno, anche per affermare la mia diversità». L’Espresso, ancora in formato lenzuolo, uscì con una foto di Giovanna in copertina. E in pochi mesi l’impudico gesto si sarebbe impadronito del movimento delle donne.
Se molte cose del femminismo le avevamo importate dal Nord America, la rivoluzione del triangolo fece il percorso inverso, dall’Europa a New York. Bisogna però aggiungere che Oltreoceano, sin dalla metà degli anni Sessanta, la Vagina painting della giapponese Kubota aveva inaugurato la stagione creativa delle Betty Dodson, Judy Chicago e Niki de Saint Phalle, tutte decise a violare nell’arte il tabù dell’iconografia vulvare. Per l’ignaro Courbet dell’ Origine del mondo cominciava un’epoca di rinnovata fortuna.
Non tutte le donne approvavano. Molte se ne ritraevano con fastidio o ne denunciavano l’ambivalenza. Miriam Mafai, rievocando le piazze ardenti di quegli anni, confessa lo smarrimento delle più anziane. Anche Paola Agosti, sapientissima fotografa del movimento, ammette la fatica del confronto con “l’ideologia femminista”. E gli uomini?
Tra tante militanti, sociologhe, antropologhe, filosofe, storiche dell’arte e registe interpellate dal Gesto femminista , s’avverte la mancanza di una voce maschile. Come reagirono alla provocazione? “Sordi” e “ciechi”, sintetizza nel suo bel saggio Letizia Paolozzi. Sappiamo poco di ciò che accadde all’identità dell’uomo. Quasi nessuno intercettò il baldanzoso gesto che rovesciava il mondo. Ritirarsi nel proprio guscio fu la pratica più diffusa. Far finta di niente, sperare che la ricreazione finisse.
Ma la campanella sarebbe suonata troppo tardi.
E oggi, cos’è rimasto del significato politico di quel simbolo? Se esporre allora l’organo della sessualità ebbe un’innegabile carica dirompente, riproporlo oggi diventa un atto imputabile di ambiguità. Consegnato il gesto delle mani al robivecchi del femminismo, sopravvive invece il segno genitale che in anni più recenti ha nutrito in America l’iconografia delle Vagina Warriors e del V-day. Una bandiera estetica che rischia di annacquare la portata sovversiva delle origini. Le “vagine parlanti” di Eva Ensler – nota con lucidità Laura Corradi – tendono a inchiodare le donne al sesso biologico, esattamente come nel passato. La sessualità diventa la componente predominante dell’identità femminile, lasciando in ombra quelle trasformazioni sociali ed economiche che un tempo erano parte essenziale della protesta. Lo spiegano bene le femministe culturalmente più agguerrite: emanciparsi non significa solo far carriera o amabilmente colloquiare con il proprio organo sessuale. Non è un caso che sull’attivismo nordamericano cresciuto intorno ai Monologhi della Ensler siano fioccate accuse di colonialismo: è la critica mossa dalle donne escluse, quelle del vasto mondo non occidentale. Anche sul topless delle Femen, le studentesse che mettono in mostra il corpo al posto delle armi, s’allunga il sospetto di voyerismo. E qualche perplessità sollevano gli show che spettacolarizzano il dolore delle donne puntando sull’effetto mediatico e su corpi attraenti.
Il salto di civiltà viene disegnato anche dalle diverse “parole d’ordine” scandite nel tempo. Da “Il corpo è mio e lo gestisco io”, didascalia del femminismo storico, a “Figa è bello” e “Fuck me” ora orgogliosamente esibiti su magliette aderenti. Ancor più di poderosi trattati, pochi slogan possono raccontare il tramonto di una speranza collettiva. E spiegare perché oggi le ragazze, molto più libere sessualmente, sorridano di meno di quelle nonne assai più libere nella testa.

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