di Nicola Boidi
Gli economisti neoclassici confidavano nella teoria secondo cui la piena occupazione era la posizione di equilibrio di lungo periodo verso la quale il sistema di economia di mercato tendeva spontaneamente. J.M. Keynes rispose:«sul lungo periodo saremo tutti morti».
E’ possibile affidare ai stessi poteri, istituzioni e luoghi decisionali che hanno causato la più grande recessione economica dai tempi del «giovedì nero» di Wall street (l’altra rovinosa crisi speculativa dell’ottobre 1929), al morbo che ha causato la malattia, la sua cura? Eppure è quello che è successo negli ultimi sette anni nell’Europa dell’euro. Il governo della troika europea, insieme ai suoi «emissari», i governi UE, dopo aver fatto pagare il risanamento del fallimento delle banche ai bilanci pubblici degli Stati, dopo aver imposto le politiche di austerità che hanno strangolato la domanda, gli investimenti, la produzione, l’occupazione, la protezione sociale, si sono messi a invocare la crescita come rimedio universale di questi mali.
L’invocazione del mantra della crescita da parte di questi poteri ha servito due scopi: 1) nascondere che la recessione economica è stata causata da loro stessi, dall’acquiescenza se non complicità delle istituzioni politiche nazionali e sovranazionali nei confronti del sistema finanziario i cui interessi sono stati anteposti a quelli del 90 % dei loro cittadini; 2) reiterare la logica secondo cui la priorità negli interventi a sostegno dell’economia vada assegnata a meccanismi che favoriscono l’autoregolazione o autocorrezione del sistema di mercato, perché da questi deriverebbe un processo di crescita economica da cui, immancabilmente, scaturirebbe la crescita dell’occupazione. Ma è davvero così?
Possiamo prendere a paradigma di questa logica reiterativa – una sorta di «coazione a ripetere» – la recente famosa misura attuata dalla Bce (Banca centrale europea): il quantitative easing. La «facilitazione quantitativa», l’immissione di liquidità negli Stati e nei mercati europei (in tempi antichi si sarebbe detto «stampare moneta») ha visto per la prima volta, a tredici anni dalla sua costituzione, la Bce svolgere la funzione fondamentale di Banca centrale (mentre fin’ora si era comportata da quello che effettivamente è, un consorzio delle più potenti banche private europee). Il quantitative easing, come è risaputo, prevede, dal prossimo marzo fino a settembre 2016, l’acquisto di titoli di stato pubblici e privati da parte della Bce nei 19 Paesi dell’ eurozona per un ammontare complessivo di 1140 miliardi di euro (60 miliardi di euro al mese). L’ acquisto di titoli tramite immissione di moneta, titoli di cui sono pieni i bilanci delle banche commerciali, fa salire il loro prezzo (perché c’è più domanda) e calare il tasso d’interesse che su quei titoli ogni Stato paga per finanziare il proprio debito.
Questo meccanismo fa calare i tassi d’interesse anche su tutti gli altri titoli ( obbligazioni delle banche e aziende) e sui mutui per la casa. L’immissione di moneta sui mercati dovrebbe avere anche un benefico effetto di svalutazione dell’euro rispetto al dollaro e alle altre valute, favorendo in questo modo le esportazioni delle imprese dei paesi Ue. L’aumento di offerta di moneta dovrebbe inoltre far salire l’inflazione dei prezzi (attualmente siamo in leggera deflazione) fino a quella soglia giudicata ottimale del 2%. Con svalutazione e inflazione controllata dei prezzi le imprese dovrebbero essere invogliate a investire e rilanciare la crescita economica. Anche gli immobili dovrebbero vedere una risalita del loro valore e di conseguenza i proprietari di immobili dovrebbero ritrovarsi più ricchi ed essere indotti a spendere di più.
Ultima, «indiretta» ma decisiva conseguenza di questa manovra: le banche, alleggerite dal carico eccessivo di titoli di stato, «dovrebbero» essere incentivate a utilizzare i soldi incamerati per dare più prestiti alle imprese che vogliano investire. Il condizionale virgolettato è d’obbligo, perché qui «sta l’inghippo» , anzi il doppio inghippo. Per spiegare il concetto confrontiamo la situazione degli Stati Uniti e dell’Unione Europea. Negli Stati Uniti, sotto la spinta dell’amministrazione Obama, a partire dal 2009, la Federal Reserve ha sviluppato il suo quantitative easing (acquistando titoli di stato del tesoro Usa e titoli privati con sottostanti immobiliari) immettendo un’enorme quantità di liquidità – oltre 3.000 miliardi di dollari– nel sistema economico, contribuendo alla ripresa dell’occupazione (facendo scendere la disoccupazione dal 10% del 2009 al 5, 9% del 2014).
Ma il fatto è che l’economia statunitense è costituita da grandi imprese e famiglie che per l’80% si finanziano direttamente dal mercato finanziario (borse), per cui l’immissione di grandi quantità di liquidità ha avuto un beneficio immediato su quelle imprese e famiglie, mentre ciò non accadrà in Europa e specificatamente nell’Europa del sud, Italia compresa. Se prendiamo la situazione italiana appunto – un mercato economico costituito per ben il 99,8% da medie, piccole e piccolissime imprese – vediamo che l’85% del credito arriva alle imprese dalle banche. Non è quindi per niente certo che il cosiddetto «bazooka» del presidente della Bce Draghi, che ha fatto, anzi meglio, farà quello che è nelle sue possibilità, non si trasformi in un’innocua pistola ad acqua. Per evitare questo bisognerebbe obbligare le banche europee a finanziare le piccole e medie imprese e le famiglie. Come ottenerlo è la classica domanda dalle cento pistole; quello che è certo, laddove ciò non avvenisse, è che l’immensa liquidità non arriverà all’economia reale, ma si fermerà nei depositi delle banche o sarà dirottato sui mercati finanziari, tanto quelli regolamentati o in «chiaro» che quelli non regolamentati (la finanza «ombra») restando appannaggio esclusivo degli istituti finanziari e delle grandi imprese che operano su quei mercati.
Inoltre, anche ammettendo che le banche europee siano ben disposte nei confronti delle imprese e delle famiglie e pronte a concedere crediti in misura generalizzata, è tutto da dimostrare che poi le imprese, da parte loro, utilizzino i prestiti ricevuti per investimenti in innovazioni tecnologiche che portino a maggiori profitti e da qui, in un secondo momento, ad aumentare l’occupazione. Qui sta il doppio inghippo o una doppia strozzatura del meccanismo che dovrebbe rilanciare la crescita economica e con essa l’occupazione in Europa.
Con questo «pompaggio» di liquidità nel sistema delle banche (dei 1140 miliardi di euro 125 miliardi sarebbero destinati al mercato italiano) praticamente la Bce andrà a comprare gli stessi titoli che le banche acquistarono con i suoi soldi (concessi al tasso simbolico dell’1%) tra il 2011 ed il 2012, in coincidenza con la scadenza del prestito (3 anni). L’alleggerimento dai loro titoli di Stato «allevierà» dalle loro sofferenze molti di quegli istituti di credito europei ancora segnati da gravi buchi di bilancio e crediti a rischio, immettendo liquidità nei loro bilanci, ma altre garanzie oltre a queste non ve ne sono sull’esito della manovra monetaria. Proprio le banche italiane hanno fatto incetta di Titoli del Tesoro, speculando sullo spread (differenziale) tra il tasso d’interesse della Bce e quello gravante sui Bond di Stato. Oggi nei portafogli delle banche italiane si trova circa il 65% degli oltre 1,7 trilioni di euro di Titoli di Stato in circolazione, contro il 50% del 2010.
Nel nostro paese, in pratica, la Bce, stando al vincolo del 25% previsto per ogni Stato, potrebbe acquistare bond fino alla cifra astronomica di 400 miliardi. Le banche si “alleggerirebbero” del fardello dei Titoli attualmente posseduti, scaricando per l’80% il rischio d’insolvenza su Bankitalia. Dunque, perché la crescita economica avvenga e perché tale crescita sia strumento del fine ultimo e supremo, la ripresa della occupazione, o che è lo stesso, la lotta alla disoccupazione (a quei 26 milioni di disoccupati dell’Unione europea che comportano un deficit del 5% sul Pil annuo europeo, circa 800 miliardi di euro) bisogna che si concatenino tra di loro due comportamenti «virtuosi» di soggetti economici che in buona misura non hanno dato, negli ultimi decenni, esempio fulgido di un tale comportamento: 1) che le banche utilizzino la liquidità acquisita dalla Bce per agevolare il credito sopratutto a quelle piccole e medie imprese che presentino piani d’investimento credibili, e non la utilizzino per protrarre i giochi di finanza speculativa; 2) che le imprese seriamente intenzionate a sviluppare innovazione e sviluppo in processi di economia reale (e non orientate anch’esse alla speculazione finanziaria) contemplino in questo loro progetto anche l’assunzione di nuovi lavoratori.
Perché un ulteriore ostacolo si frappone in generale a far sì che quel fine sommo di ripresa dell’occupazione sia assecondato: le imprese sono abituate a prendere le loro decisioni d’investimento in base alle informazioni che ricevono e alle aspettative che ragionevolmente si fanno sull’aumento della domanda aggregata (della domanda di consumi) e non tanto alle favorevoli condizioni sul lato del loro finanziamento. Il Qe,invece, non avrà effetti dirimenti sulle decisioni di spesa delle famiglie europee, abituate meno di quelle del ceto medio statunitense a possedere titoli tra fondi comuni e fondi pensione. La morale di questa storia è che senza previsione di aumento della domanda non ci sarà aumento dell’offerta (investimenti): «il cavallo non beve».
A differenza della Ue, la politica di espansione monetaria (quantitative easing) statunitense è stata accompagnata dal concorso d’intervento e di spesa pubblica in deficit dello Stato (passata dal 2,8% del Pil del 2008 al 12% del 2010) . Il paese ha vissuto inoltre una profonda ristrutturazione del suo sistema economico. La presidenza Obama si è esposta moltissimo sulle nuove tecnologie e sulle energie rinnovabili. E’ avvenuta una riconversione di settori industriali maturi o declinanti, come quello automobilistico. La diminuzione di spese in sicurezza e difesa ha colpito alcune industrie che sopravvivono grazie alle commesse pubbliche, ma ha anche spinto alcune aziende di alta tecnologia a rivolgersi al mercato dei clienti privati. E’ stato usato lo stimolo fiscale per aziende che riportano attività manifatturiere a casa o per imprese straniere che vengono a costruire le le loro fabbriche in America.
Il carico fiscale è stato rimodulato (con sgravi per il lavoro dipendente e aumento delle imposte sui redditi alti e sulle rendite finanziarie). Un primo pacchetto di stimolo all’ economia reale (creazione d’impiego, estensione dei sussidi di disoccupazione e sgravi fiscali a imprese e lavoratori) del valore di 787 miliardi di dollari è stato attuato, seguito da un ulteriore pacchetto di stimolo da 447 miliardi che includeva (fra l’altro) un aumento dei contributi previdenziali e degli investimenti pubblici in infrastrutture e istruzione. Anche altri settori industriali, al pari di settori dell’intrattenimento e del consumo, hanno subito una conversione verso internet e conoscono un nuovo inizio.
In sintesi l’America in questi anni si è trasformata in un immenso cantiere a cielo aperto e questa fase di riorganizzazione del sistema economico sta orientando il paese a una minore dipendenza dall’economia virtuale finanziaria, dalla cosiddetta economia «postindustriale». Sostanzialmente l’amministrazione Obama ha mirato ad alterare il rapporto tra poteri pubblici e settore privato a favore dei primi, per frenare l’eccessivo peso e irresponsabilità sociale del settore finanziario privato nei confronti delle autorità di regolamentazione e delle articolazioni produttive dell’economia reale. Nei giorni scorsi Obama ha presentato la sua legge di bilancio in cui ha proposto una «finanziaria» da quasi 4.000 miliardi di dollari che fra l’altro prevede 428 miliardi d’investimento nelle infrastrutture perché necessitano di un rinnovamento e creano lavoro, consumo e crescita.
Allo stesso tempo con questa manovra (che per la sua approvazione dovrà scontrarsi con l’opposizione della maggioranza parlamentare al Congresso dei repubblicani) Obama intende affrontare il nodo della disuguaglianza economica offrendo agevolazioni fiscali alla classe media per circa 300 miliardi, prevedendo al contrario un aumento delle tasse per le grandi corporation – in particolare con l’una tantum del 14% sui 2 trilioni di profitti accumulati all’estero – e per i cittadini più ricchi che vedranno le loro imposte sul reddito aumentare di 630 miliardi. Inoltre saranno regolarizzati molti lavoratori immigrati risparmiando 360 miliardi di dollari. Il messaggio che Obama lancia con le sue dichiarazioni è chiaro: «basta austerity, basta ossessione per il pareggio di bilancio, bisogna tornare a spendere per favorire la crescita. Poi quando la ripresa si sarà consolidata, ci saranno il tempo e le risorse per affrontare la questione del debito e del deficit». Rivolgendosi all’Europa: «non puoi continuare a spremere i Paesi che sono nel mezzo della depressione. A un certo punto ci deve essere una strategia per la crescita affinché possano pagare i debiti ed eliminare una parte del deficit».
L’Europa ascolterà il messaggio di Obama? Accompagnerà il quantitative easing con politiche espansive di spesa pubblica in deficit (attraverso un piano coordinato a livello europeo di interventi e investimenti strutturali del pubblico) che impongono di abbattere il rigido vincolo del deficit degli Stati membri al 3%? Produrrà un politica europea fiscale unificata che allevi il peso fiscale sulle classi medio-basse e aumenti l’imposizione fiscale reddituale, patrimoniale e da rendita finanziaria alla classe dei ricchi e super-ricchi? Produrrà pacchetti di stimolo alla domanda che oltre che a investimenti occupazionali, agevolazioni fiscali versus inasprimenti fiscali, preveda sostegno sul piano del sussidio di disoccupazione, della sanità e dell’istruzione pubblica?
In una parola: si convertirà l’Europa a una politica economica e sociale keynesiana, che preveda la regolamentazione, la correzione e una certa pianificazione dell’economia di mercato da parte delle istituzioni pubbliche, nazionali e sovranazionali? Oppure perseguirà l’eterna ripetizione della logica dell’autoregolamentazione dell’economia di mercato? Nella religione induista l’eterno ciclo di reincarnazioni delle anime in corpi e vite a un grado inferiore del mondo umano e animale (dalla vita umana di una casta superiore a quella di una casta via via inferiore, a quella di un animale di una specie vicino alla specie umana, giù giù fino alla possibilità di reincarnarsi in un insetto) è la espiazione da compiere per le colpe commesse nelle vite precedenti al fine di raggiungere una purificazione. Saremo dunque condannati a un «eterno ciclo di reincarnazione» (di espiazione delle colpe) dell’economia di mercato che impone la propria legge di autoregolazione o riusciremo a raggiungere uno stato di «purificazione»?