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di Luca Billi 26 marzo 2019
Uno dei capolavori assoluti della scultura di tutti i tempi, una delle opere più belle che continueremo per sempre a osservare con stupita ammirazione, è la descrizione di uno stupro: l’Apollo e Dafne che Gian Lorenzo Bernini – con la collaborazione di Giuliano Finelli, che creò le foglie e le radici – realizzò per la collezione del suo potente mecenate, il cardinale Scipione Borghese.
Bernini immortala nel marmo la storia raccontata da Ovidio nel primo libro delle Metamorfosi, e in particolare il momento più difficile da rappresentare visivamente con una scultura, ossia quando il corpo della giovane Dafne comincia a trasformarsi in una pianta di alloro, proprio quando il dio l’ha raggiunta e comincia a toccarla.
E’ nota la storia, almeno per come ce l’ha tramandata il più grande poeta dell’età augustea. Cupido, per vendicarsi di Apollo che l’ha deriso mentre si allenava con il suo arco – dicendogli che le armi sono una “cosa da uomini” – colpisce il dio con una freccia che scatena la sua passione, mentre ne scaglia un’altra contro la bellissima ninfa, figlia del fiume Peneo, che le fa rifiutare l’amore.
Ovidio descrive il lungo inseguimento di Apollo – ossia quello che succede prima del momento miracolosamente scolpito da Bernini – e credo meriti rileggere quei versi, che sono così tragicamente “moderni”. Il dio che non riesce a raggiungere la giovane prima cerca di convincerla a fermarsi, usando l’argomento che lo sta facendo “per il suo bene”: se continuerà a correre così – le sussurra mellifluo il dio – rischia di cadere e di farsi male. Poi, visto che Dafne continua la sua corsa, fa un’altra cosa che noi maschi facciamo – è la variante del “lei non sa chi sono io” – e le enumera i suoi titoli, le sue ricchezze, le fa capire che dovrebbe essere grata che uno come lui insegua una come lei e che quindi dovrebbe fermarsi. Apollo è davvero la quintessenza della parte peggiore di noi maschi e infatti nel momento in cui ghermisce il corpo di Dafne e si rende conto che si sta trasformando in una pianta, pronuncia la frase “sarai il mio albero”. Dafne deve essere sua, a tutti i costi, viva o morta. Apollo è il maschio che considera la donna una sua proprietà.
E adesso torniamo a osservare la scena dello stupro come l’ha scolpito Bernini. L’avvocato di Apollo si sarebbe subito preso la briga di dire che non si tratta tecnicamente di stupro, perché evidentemente non c’è stata penetrazione, e magari un giudice avrebbe fatto notare che Dafne non avrebbe dovuta essere così provocatoriamente svestita, anche se è chiaro che la veste le sta cadendo nello sforzo di sfuggire alle mani del suo stupratore. E invece lo stupro c’è stato perché Apollo riesce a toccare il corpo di Dafne non ancora trasformato: ce lo fa vedere Bernini e ce lo racconta Ovidio, dicendo che riesce a sentire ancora il suo cuore che batte, pur attraverso la pelle che sta diventando corteccia, e che bacia quel corpo in trasformazione. E c’è lo stupro perché Dafne fa in tempo a sentire su di sé quella mano che la sta violando, quelle labbra che non voleva sentire: il dolore del suo volto è perché sente che lo stupro si sta consumando.
C’è ancora una violenza su Dafne nel racconto di Ovidio. Dopo la tirata di Apollo in cui spiega che da quel momento l’alloro diventerà la “sua” pianta e che servirà a cingere poeti e condottieri – quello che oggi fanno i neolaureati, per festeggiare l’inizio del periodo in cui saranno disoccupati – un alito di vento scuote i rami e Apollo – e purtroppo anche Ovidio – considera quel tremito naturale come un cenno di assenso. Il dio vuole che comunque Dafne dica sì.
Naturalmente noi dobbiamo continuare a guardare con meraviglia quella scultura di Bernini, come continueremo a leggere i versi levigatissimi di Ovidio. Ma non dobbiamo usare espressioni ipocrite: Apollo non è innamorato di Dafne, non la sta corteggiando. La sta stuprando, sta esercitando su di lei una violenza terribile. A Dafne dobbiamo, almeno noi, l’uso delle parole esatte.