Quando e perché la sinistra ha perso

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Stefano Zan
Fonte: IDemLab

di Stefano Zan – 4 aprile 2018

Il PD non ha perso le elezioni il 4 marzo. Quel giorno, nel mondo della sinistra, hanno straperso MdP, Liberi e Uguali e gli altri micro partiti. Il PD invece perde da molti anni, dall’epoca Veltroni per intenderci, fatta eccezione per le elezioni europee del primo Renzi.

Oggi tutti dicono che il PD ha perso perché ha “perso” il contatto col popolo. Una spiegazione che mi irrita profondamente per almeno due ragioni. La prima perché è tautologica e vale per tutti i partiti. Infatti, è come dire che un partito perde perché ha preso meno voti, visto che il giorno delle elezioni il popolo coincide con gli elettori. È vero ma è banale e, soprattutto, non spiega niente.

La seconda, ben più grave, è che questa spiegazione ipostatizza l’esistenza di un’entità metafisica, il popolo appunto, caratterizzata da un comune sentire e da una comune volontà, il che è palesemente falso. Quello che chiamiamo comunemente popolo in realtà è un aggregato sociale estremamente composito per caratteristiche sociali, valori e interessi e che è tutt’altro che integrato e unanime. Se così fosse non ci sarebbe alcun bisogno della Politica che, da che mondo è mondo, è il governo delle differenze e delle diversità, della gestione dei conflitti, alla ricerca di una sintesi il più stabile possibile.

Ci sono molti modi per segmentare il popolo, ma in questa sede mi limiterò a prendere in considerazione i meccanismi che portano l’elettore a compiere la sua scelta il giorno delle elezioni.

Scusandomi per la semplicità dell’argomentare (ma voglio essere rapido e incisivo) possiamo dire che gli elettori votano con il cuore, la pancia, le mani, la testa.

Gli elettori che votano con il cuore sono gli idealisti, quelli che hanno aderito da tempo al partito per ragioni ideali perché si identificavano e si identificano con i suoi valori generali. Non solo gli ex PCI, ma anche gli ex DC, i leghisti della secessione, i grillini del vaffaday. Gli idealisti costituiscono lo zoccolo duro di tutti i partiti perché sono i meno critici nei confronti dell’evoluzione della linea del partito e sono portati a giustificare/comprendere anche comportamenti profondamenti diversi da quelli previsti dal modello originario. Sono fedeli ad oltranza.

Quelli che votano con la pancia sono gli arrabbiati, quelli che ce l’hanno a morte con qualcosa o qualcuno e colgono l’occasione del voto per esprimere la loro protesta. Sono reattivi e non proattivi, disposti a distruggere senza pensare a cosa accadrà dopo qualora la loro protesta dovesse avere successo. Non entrano nel merito dei singoli provvedimenti ma votano contro chi li ha proposti a prescindere.

Quelli che votano con le mani usano appunto le mani per estrarre il portafoglio. Votano per tutelare i loro interessi direttamente economici e sono poco sensibili a tutto quanto non ha ricadute economiche, positive o negative, direttamente su di loro. Votano per chi gli promette più soldi o, quantomeno, di tassarli meno. Secondo gli economisti sono i veri attori razionali perché mossi esplicitamente dall’interesse.

Quelli che votano con la testa sono pochissimi. Non sono necessariamente quelli più intelligenti, come la metafora parrebbe suggerire, ma sono quelli che votano per quel partito che sembra proporre il mix più ragionevole tra ragioni del cuore, della pancia e delle mani. Sono quelli che non si identificano personalmente più di tanto con ideali, proteste, interessi ma votano per quel partito che sembra avere la capacità di governare al meglio queste tre dimensioni spesso in contrasto tra di loro.

Ideali, protesta, interessi, ragionevolezza (al momento non mi viene un termine migliore) convivono sempre tanto nel singolo elettore che nell’elettorato nel suo insieme (il popolo appunto) con pesi relativi ovviamente diversi a seconda delle contingenze storiche e della collocazione dei singoli nella società.

Se uno è veramente alla fame, o comunque in grave difficoltà economica, ha poco tempo per gli ideali o per la ragionevolezza; guarda al suo interesse immediato e, al più, protesta. E’ pronto a diventare “cliente” di chiunque gli prometta del denaro sotto qualunque forma e chiede esplicitamente assistenzialismo.

Se uno è in buone condizioni economiche, che vuol dire buon reddito ma, soprattutto, reddito sicuro nel tempo, può permettersi di essere idealista e/o ragionevole.

Se uno, per le ragioni più varie, è di fondo un idealista seguirà il suo partito qualunque dimensione decida di privilegiare in una data contingenza storica: la protesta, l’interesse, la ragionevolezza.

Sono convinto che giocando su queste quattro dimensioni, e soprattutto sul loro peso relativo, si potrebbe ben spiegare l’evoluzione di tutti i partiti nel tempo. Ma non è questa la sede per farlo.

Piuttosto si può affermare che vince le elezioni chi in quel momento specifico sa cogliere gli umori dell’elettorato, cioè quali delle quattro dimensioni prevalgono in quello specifico momento.

I recenti risultati elettorali si possono efficacemente leggere (anche) in questo modo. Si può dire che tanto la Lega che i 5Stelle hanno saputo prospettare, seppure in maniera diversa (ad esempio tra nord e sud), una combinazione sinergica tra ideali, protesta e interessi che, evidentemente, è piaciuta a larga parte degli elettori.

Dopo questa premessa, necessaria per il ragionamento che voglio sviluppare, torniamo al punto e cioè perché il PD perde. Per semplificare al massimo e per ordinare le mie argomentazioni, userò la distinzione tra fattori contingenti, fattori strutturali e fattori antropologici, concludendo con una considerazione di carattere storico.

Fattori contingenti

Il PD perde in quanto partito di governo, come accade molto spesso a tutti i partiti che si presentano alle elezioni stando al governo. Perché questo fatto si verifica così spesso?

Per definizione il partito di governo, almeno fino a che è in carica, non protesta ma cerca di dare risposta alle proteste e in questo resta il bersaglio preferito di tutti coloro che invece continuano a protestare per qualsiasi ragione (piove? Governo ladro!). L’espressione “partito di lotta e di governo” è un’espressione retorica del lessico politico che non ha mai avuto particolari fortune perché è in sé un ossimoro.

Se sei costretto alla coalizione si stemperano inevitabilmente gli ideali che devono essere resi in qualche modo compatibili con quelli dei tuoi alleati (pensiamo a tutte le tematiche sui diritti civili).

Anche sugli interessi la partita non è semplice. Solo una maggioranza bulgara può consentire provvedimenti davvero radicali. Un qualsiasi governo deve trovare una ragionevole convergenza tra interessi diversi e contrapposti.

A questo punto al governo resta la ragionevolezza che è la merce di scambio meno appetita sul mercato elettorale.

Il PD perde perché è un partito di correnti in continuo conflitto tra di loro. Procediamo con la controprova. I partiti che vincono (Lega, 5Stelle, Fratelli d’Italia) sono partiti monolitici, dove non esiste il dissenso (almeno all’esterno) e parlano in pochi dicendo le stesse cose in quanto parlano a nome del partito e non di sé stessi o della loro corrente. È evidente che agli elettori questo piace.

Il PD è l’esatto contrario: tutti i tanti conflitti sono sempre resi pubblici. Le correnti non si limitano a confrontarsi/litigare all’interno riservato dei loro organismi ma lo fanno anche nelle aule parlamentari. Le posizioni diverse spesso non sono solo sfumature ma vere e proprie posizioni antagoniste difficilmente conciliabili. Sono perennemente in una fase congressuale dove ciascuno lavora per vincere il congresso successivo.

La retorica del partito parla del valore del partito plurale e pluralista ma agli elettori vengono in mente i capponi di Renzo (non Renzi) semplicemente perché alla fine non si capisce mai dove stia davvero il partito. La scienza della comunicazione spiega che messaggi contradditori creano “rumore”, cioè confusione che produce perdita di senso. Agli elettori piacciono i messaggi chiari, semplici, lineari perché così almeno riescono a comparare le diverse proposte. E comunque le correnti di oggi non hanno nulla a che vedere con quelle del passato.

Il PD perde perché Renzi è antipatico. Avrei voluto evitare questa spiegazione perché è personalmente la trovo volgare. Ma un leader si valuta anche per l’empatia che riesce a instaurare con gli elettori. Troppe persone, anche del PD, si sono allontanate dal partito (o non si sono avvicinate) adducendo questa motivazione che varia dal: è un fiorentino arrogante (Maledetti Toscani), non è un compagno, è il nuovo Berlusconi, protegge il padre della Boschi, fa promesse che non realizza mai. Sono anni che la stampa e la satira insistono su queste cose e alla lunga qualcosa rimane. Passando dal gossip, che comunque nella società della comunicazione incide anche sui comportamenti elettorali, ad un ragionamento più storicamente fondato possiamo fare le seguenti considerazioni. Accade sovente nella storia che grandi leader che hanno guidato un paese in momenti particolarmente delicati e/o decisamente rivoluzionari, immediatamente dopo cadano in disgrazia. E’ successo a quelli che hanno promosso la rivoluzione francese, è successo a Churcill, è successo a Gorbaciov. Si parva licet qualcosa di simile è successo anche a Renzi. Renzi ha vinto “rottamando” il partito non solo nelle persone ma anche nel modo di fare politica. Citando una vecchia frase che appariva nel ’70 sui muri della mia Facoltà: “ha aperto nuovi orizzonti” ma non li ha richiusi. E non poteva farlo. Non, banalmente, per simpatia o antipatia ma perché difficilmente il distruttore può essere anche il costruttore: ha mosso troppe acque, ha stravolto troppi equilibri, ha attaccato troppe corporazioni, ha fatto proposte troppo eterodosse, ha creato disordine. Ha vinto (nel partito) ma la sua è stata una vittoria di transizione: la vittoria di un leader che chiude un ciclo ma che, proprio per questa ragione, non riesce ad avviare il nuovo ciclo, a creare un ordine nuovo.

I fattori strutturali

Il vantaggio dei fattori contingenti è che si possono modificare con una relativa facilità. “Basta” stare un po’ all’opposizione, eliminare la conflittualità, trovare un nuovo leader e, alle successive elezioni, dovrebbe andar meglio!

Ben più complessi sono gli aspetti strutturali.

Quelli che hanno vinto le elezioni hanno vinto ben prima del 4 marzo con le seguenti parole d’ordine:

  • Abolizione della legge Fornero
  • Reddito di cittadinanza
  • Radicale abbassamento delle tasse
  • Sicurezza/immigrati
  • Abolizione dei privilegi (vitalizi)

Su tutti questi temi il PD è apparso debole, confuso, ambiguo ma, soprattutto, sulla difensiva.

Sulla legge Fornero il PD, che inopinatamente con Prodi e Damiano aveva abolito lo scalone Maroni, nel sostenere l’inevitabilità di una legge del governo Monti, ha provato a “mettere una pezza” con provvedimenti tanto confusi quanto poco “credibili”: deroghe per gli esodati, APE, e una serie infinita di riflessioni su possibili interventi mitigatori (come il passaggio generazionale e altri simili) che non hanno portato a nessun risultato.

Sul reddito di cittadinanza, proposta irricevibile per ragioni sociali, culturali, economiche, semantiche, che però coglie un problema reale di tutte le democrazie moderne, il PD ha oscillato tra una critica moralistica e una serie di provvedimenti estemporanei e, ancora una volta, confusi: reddito di inclusione e allargamento a pioggia dei bonus (giovani, mamme, partite iva). Ma la questione di come sostenere i disoccupati di lungo termine, che con l’evoluzione tecnologica potrebbero anche aumentare, resta sul tappeto. La crescita economica, assolutamente prioritaria, almeno nel breve termine e nel sud Italia non sarà in grado, da sola, di risolvere il problema.

Anche sull’abbassamento delle tasse il messaggio del PD è stato così ambiguo che nessuno è riuscito a capire se davvero ci guadagnava qualcosa. Invece dei tanti bonus, che sono una forma indiretta di detassazione, e che comunque costano, un piano serio di aumento delle pensioni minime, di ampliamento della no tax area, e di riduzione della prima aliquota IRPEF (compatibilità permettendo) avrebbe avuto una efficacia comunicativa certamente maggiore. In ogni caso una semplificazione dell’attuale sistema di tassazione è improrogabile. Non so dire se la flat tax, a qualsiasi livello la si collochi, possa essere una soluzione ma, almeno, è un’idea.

Sulla sicurezza e sui migranti il PD sconta una situazione davvero paradossale: tanto i reati che i migranti sono in calo, eppure la percezione dei cittadini (anche di quelli che continuano a votare PD) va nella direzione opposta. Ragionevolezza, buonismo, accoglienza, integrazione non “sfondano” nemmeno con il sostegno continuo del Papa. Anche il più aperto dei cittadini tende a fare l’equazione migrante uguale delinquente. E a nessuno interessa il fatto che da decenni paesi come l’Inghilterra, la Francia e la Germania ospitino un numero di migranti di gran lunga superiore di quello che ospitiamo noi oggi, così come dimenticano che per decenni siamo stati noi a migrare. Ai cittadini non frega nulla della storia e delle statistiche. Si sentono insicuri e votano per chi dice esplicitamente che li caccerà via perché “Italy first”. Il fatto che negli USA la stessa proposta abbia portato alla vittoria di Trump non è per niente consolante.

La questione dei vitalizi è la quinta essenza della demagogia qualunquistica. Intanto per il futuro sono già stati eliminati. Per il passato è tecnicamente difficile abolirli perché siamo in uno Stato di diritto che rispetta le leggi, anche quelle che oggi sembrano indigeste. L’idea poi di ridurre lo stipendio dei parlamentari anziché ridurre il numero degli stessi è preoccupante. Qualsiasi “professionista” di buon reddito e di qualche competenza si guarderà bene, ancora più di oggi, di candidarsi al parlamento. D’altra parte le parlamentarie dei 5Stelle sono state un vero e proprio concorso pubblico: 9.000 domande per 2-300 posti. Tra l’altro una straordinaria capacità di selezione perché in pochissimi giorni, e con Di Maio sempre altrove, hanno visionato tutti i 9.000 curricula. Che ci scappi qualche candidatura “bizzarra” a questo punto è quasi fisiologico.

Ma che il PD si sia lasciato trascinare su questo campo con l’improbabile proposta Richetti mi sembra una scelta quantomeno improvvida.

I fattori antropologici

I fattori antropologici si riferiscono a quelle caratteristiche del popolo, inteso come stragrande maggioranza degli elettori, che incidono sui meccanismi di scelta degli stessi e che dovrebbero guidare la comunicazione politica soprattutto in campagna elettorale. Mi limito a metterne in evidenza i due principali anche se ne esistono certamente altri.

Il popolo non ha memoria. Il popolo non si ricorda minimamente in che condizioni si trovava cinque anni fa al momento delle precedenti elezioni. Guarda in che situazione si trova oggi e considera tutto quello che ha eventualmente ottenuto in questi anni come un qualcosa di dovuto, di un diritto che è stato finalmente riconosciuto e che in ogni caso viene dato per scontato. In questo senso il popolo non è mai riconoscente. Se fossero riconoscenti quelli che indubbiamente in questi anni hanno ottenuto qualcosa (percettori degli 80 euro, nuovi occupati, precari della scuola, imprenditori per le esenzioni fiscali e contributive, coppie omosessuali, ecc.) e, ovviamente, i loro familiari, il PD avrebbe dovuto ottenere più di 25 milioni di voti, raggiungendo la maggioranza assoluta dei seggi. Così non è (mai) stato ed anzi il ricordare insistentemente “quello che il governo ha fatto per te” rischia di essere controproducente perché prova a solleticare il senso di colpa dell’elettore, una sorta di debito morale nei confronti di chi ti ha concesso quello che chiedevi (nelle precedenti elezioni però). Almeno il giorno del voto l’elettore vuole “sognare” ed esprimere i suoi valori, i suoi interessi, la sua protesta di oggi, non di ieri.

Il popolo non legge. Non solo non legge libri e giornali ma anche in televisione preferisce di gran lunga il gossip, il sangue, tutto ciò che è morboso e che parla di scandali. La prima lezione a scuola di giornalismo recita testualmente: “Una buona notizia non è una notizia” e chi vive di notizie fa di tutto per trasformare in cattive notizie anche quelle buone. Quando si guardano certi programmi in televisione non bisognerebbe mai dimenticare che, nel bene e soprattutto nel male, i telespettatori sono anche elettori. Nel ’94 Berlusconi lo aveva capito perfettamente e fece arrivare nelle case degli italiani il fotoromanzo con la storia della sua vita e i suoi programmi. Tutti gli intellettuali, snob come sempre, lo sbeffeggiarono apertamente, e lui prese una valanga di voti. Il problema è che ormai moltissimi, soprattutto giovani, non guardano più nemmeno la televisione ma si fanno i loro convincimenti sui social, sia quelli ufficiali di partito che quelli liberi. In assenza di cultura, di spirito critico, di abitudine al dubbio, la massa di notizie disponibili e le fake news formano la coscienza di buona parte degli elettori. Ma se il popolo non legge che senso ha proporgli in campagna elettorale un programma lungo, complesso, argomentato?

Nell’ultima campagna elettorale il PD ha dimenticato completamente queste caratteristiche antropologiche del popolo. Si è presentato con un programma di cento punti di cose fatte (irrilevante perché il popolo non ha memoria) ed altrettanti punti di cose da fare (irrilevante perché il popolo non legge). Non c’è bisogno di essere un guru del marketing o della comunicazione per sapere che il “popolo” ascolta e ritiene pochi messaggi, secchi, chiari, evocativi e reiterati. Offrire al popolo l’occasione di ragionare insieme a te su passato e futuro è un modo certo per perdere voti. La ragionevolezza, anche ammesso che tu sia nel giusto, è sempre e comunque di pochi e quindi non può vincere le elezioni. In politica vincono (hanno sempre vinto) valori, interessi, protesta o meglio, un buon mix di queste tre dimensioni.

Il PD non è più di sinistra

Da molti anni questa affermazione è talmente ricorrente che viene data per scontata e viene anche sostenuta con una certa enfasi, per esempio, dai dirigenti della CGIL. L’essere di sinistra, per molti elettori, sembra essere un valore in sé, un valore categorico che, in quanto tale, prescinde dai dati e dalle contingenze storiche. L’accusa è molto semplice: il PD ha tradito i suoi ideali. La questione merita un’attenta disamina perché costituisce al contempo un mito istituzionalizzato e un problema universale.

Un mito perché è il frutto di credenze largamente diffuse e condivise ritenute vere in sé a prescindere da ogni verifica empirica.

Universale perché riguarda, quantomeno, tutta la sinistra in Europa.

Per rispondere a questa accusa ci vuole però un po’ di memoria storica.

I partiti socialisti/comunisti si consolidano nel secolo scorso non come partiti dei poveri e dei disagiati ma come rappresentanti organizzati degli sfruttati e degli oppressi. La cosa non è proprio la stessa. I classici guardavano con molto sospetto ai deboli in generale, al Lumpen Proletariat, perché la loro condizione di disagio era tale che li rendeva facilmente preda di qualsiasi demagogo (di solito un populista di destra). Il punto di riferimento erano i lavoratori, le avanguardie operaie che, opportunamente organizzate, assumevano coscienza di classe e lottavano per ottenere condizioni migliori, e per fare la rivoluzione. La fabbrica, in particolare la grande fabbrica fordista, era il luogo di elezione per costruire il partito rivoluzionario. Non esisteva, come tema politico, la distinzione tra garantiti e non garantiti che invece oggi è diventata, per ragioni socio-economiche, una questione centrale. Le grandi difficoltà del sindacato rispetto a questo tema segnalano una rottura culturale prima ancora che politica e organizzativa. Il disagio generale e generico non è mai stato nelle corde dei sindacati che hanno sempre tutelato i lavoratori oppressi e sfruttati. I disoccupati, per definizione, non possono neanche essere sfruttati e oppressi sul posto di lavoro perché non sono lavoratori. I partiti di sinistra e i sindacati sono sempre stati “dei lavoratori” e non di un popolo indistinto.

Ormai da anni l’operaio massa non esiste più. Esistono ancora gli operai ma sono diversi e dispersi.

La fine delle grandi fabbriche fordiste, l’esternalizzazione di fasi della produzione, la delocalizzazione, la creazione di filiere, ecc. hanno drasticamente ridotto quei grandi aggregati operai che erano le fabbriche del secolo scorso. Le tecnologie, in particolare automazione e robotica, da un lato hanno eliminato posti di lavoro ma dall’altro lato hanno anche migliorato enormemente le condizioni di lavoro. Chiunque oggi visiti una fabbrica moderna resta sorpreso dell’organizzazione e delle condizioni di lavoro che non hanno più niente a che fare con i vecchi reparti presse, verniciatura, ma nemmeno con le vecchie catene di montaggio. Molti dei vecchi operai, tra quelli rimasti, oggi sono tecnici, programmatori, manutentori. Buona parte del vecchio sfruttamento è uscito dalla fabbrica ed è stato scaricato su miriadi di piccoli contoterzisti.

Quello della fabbrica come luogo di elezione della lotta operaia è un mito che la storia si è portato via. In fabbrica si fa la contrattazione di secondo livello per migliorare le condizioni di quei lavoratori, non della classe operaia.

I partiti di sinistra non si sono mai preoccupati della produzione di ricchezza. Ma solo della sua redistribuzione. Lo sviluppo economico, il capitale, i padroni producevano grandi ricchezze di cui, attraverso la lotta politica e sindacale, anche i lavoratori potevano usufruire, almeno in parte. Nei Trenta Gloriosi le lotte politiche e sindacali sono state dure, ma le condizioni dei lavoratori sono nettamente migliorate. Da un lato un PIL sempre in crescita consentiva ai padroni, loro malgrado, di cedere prima o poi alle pressioni dei lavoratori. Dall’altro lato lo Stato, con le grandi riforme (pensioni e sanità) contribuiva a migliorare le condizioni di vita, facendo però crescere rapidamente il debito pubblico. Quel mondo è finito con la prima crisi petrolifera del 1973. Ed altre ben più gravi si sono succedute in seguito. Quando si dice che l’Italia non cresce da oltre vent’anni si dice che c’è meno ricchezza da distribuire. Ma meno ricchezza c’è anche da parte dello Stato che, per le interdipendenze europee e internazionali, non può più alimentare il debito pubblico.

La globalizzazione ha cambiato radicalmente le regole del gioco. Il problema principale dei sindacati, ma anche dei governi di qualsiasi colore, è diventato non tanto la tutela dei lavoratori ma la tutela dell’azienda per evitare che fallisca o che delocalizzi, distruggendo posti di lavoro.

Per la prima volta nella storia tutti gli attori della sinistra storica devono (dovrebbero) porsi il problema della produzione della ricchezza senza la quale nessuna politica di redistribuzione è possibile e su questo tema tutta la sinistra internazionale è priva di adeguati strumenti concettuali. Le imprese nazionali faticano a competere sul mercato globale. Lo Stato è sempre più povero e comunque non può più permettersi di spendere oltre certi limiti. Chi può creare quei nuovi posti di lavoro che sono e restano la cura più efficace contro il disagio sociale?

Col tempo i partiti di sinistra, dopo anni e anni di lotta, sono andati a fasi alterne al governo in tutta Europa. Per un po’ sono stati in grado di realizzare le loro politiche redistributive. Ma col tempo hanno dovuto cominciare ad affrontare le crisi economiche ricorrenti, le conseguenze della globalizzazione, il contenimento del debito pubblico. Fare politiche classicamente di sinistra è sempre più difficile come dimostrano con grande evidenza tanto i paesi scandinavi quanto la Grecia di Tsipras. La lotta all’evasione, la tassazione dei grandi patrimoni hanno certamente un grande valore simbolico, ma rischiano di avere un limitato valore economico e un impatto controproducente. Se comincio a tassare (troppo) i ricchi, quelli che producono, chi crea nuovi posti di lavoro? Non solo, le grandi vere ricchezze di oggi non sono quelle dei padroni di una volta bensì quelle delle grandi piattaforme mondiali (Google, Amazon, Facebook, ecc.) che sfuggono alle politiche fiscali nazionali.

Chiunque vada al governo deve fare i conti con questa situazione ma ancora nessuno al mondo ha trovato un modo “di sinistra” per risolvere questi problemi.

Il reddito di cittadinanza, ad esempio, in una sua qualsiasi formulazione, è oggi probabilmente indispensabile e lo sarà forse ancora di più in futuro. Ma considerarlo un valore della sinistra è davvero difficile. È una misura “pauperistica”, rinunciataria, difensiva non a caso collegata all’idea di una decrescita felice. Non solo non punta allo sviluppo e alla crescita ma, laddove attuato in pieno, inibisce e soffoca la spinta alla lotta per il superamento delle diseguaglianze e per l’emancipazione del “popolo”. Non è un caso che nessuno, attraverso lotte, manifestazioni, scioperi o proteste abbia chiesto il reddito di cittadinanza. È un’idea dei vertici dei 5Stelle. Un’idea che ovviamente è piaciuta ai destinatari di questa proposta, soprattutto al sud.

Un’ultima considerazione storica ci ricorda che nella seconda metà del secolo scorso, per molti anni i partiti della sinistra, e in particolare il PCI, sono stati degli straordinari ascensori sociali e dei potenti datori di lavoro. Persone di origini modeste, di bassa scolarità e senza competenze particolari sono state collocate dal partito nelle amministrazioni locali, in vari enti pubblici, nel sindacato, nelle associazioni di categoria e, soprattutto in Emilia-Romagna, nella cooperazione. Tranne poche eccezioni si può dubitare che costoro avrebbero avuto lo stesso successo (ruolo, prestigio, stabilità del posto, retribuzione) nel mercato libero piuttosto che in quello protetto dal partito. Da una ventina di anni il modello del collateralismo stretto è finito e i beneficiati dal partito si sono autoconvinti di ricoprire la loro posizione per meriti propri rivendicando vieppiù la loro autonomia dal partito e a volte anche contro il partito. Sempre da quella data però i partiti della sinistra, e quindi anche il PD, non sono più stati visti come ascensore sociale e come datore di lavoro e, di conseguenza, non hanno più attratto giovani.

Quello della sinistra è stato per molto tempo un mondo ampio, variegato, guidato dal partito ma composto da una pluralità di enti, associazioni, organizzazioni che direttamente o indirettamente sostenevano il partito che, tra l’altro, aveva una discreta influenza anche sul mondo della cultura, dello spettacolo, dell’università e delle professioni.

Quel mondo non c’è più ed è quindi venuto meno un sostegno di massa al partito stesso.

Concludendo queste brevi considerazioni chi dice che il PD non è più di sinistra coglie certamente un problema ma non ne capisce le cause e le ragioni.

La sinistra storica, classica, quella del ‘900 per intenderci, non solo non esiste più ma non tornerà più. I nostalgici, gli idealisti che ancora la invocano, continueranno a perdere inesorabilmente perché guardano indietro invece che avanti (per questo li chiamo retro-sinistra).

Chi vuole ancora oggi essere di sinistra deve inventarsi qualcosa di nuovo e la crisi internazionale della sinistra ci dice che il problema non è il PD, quanto piuttosto la ricerca “universale” di un nuovo paradigma socio-economico capace da un lato di scaldare i cuori, di creare ideali, e dall’altro di governare le dinamiche di questo tempo.

Un’ultima postilla.

“Con sorprendente rapidità e deprimente superficialità”, come ho già scritto, molti esponenti della sinistra (politici e intellettuali) hanno decretato che i 5Stelle sono la nuova sinistra perché hanno raccolto i voti della vecchia sinistra. A parte il fatto che così ragionando si incorre in quello che tanti anni fa Panebianco ha definito il pregiudizio sociologico, alcuni conti non tornano.

Faccio solo il caso dell’Emilia-Romagna, regione rossa per eccellenza. Alle ultime elezioni in regione c’è stato una crescita del 3,8% delle astensioni (tra le più alte in Italia). Il PD è passato dal 37 al 26,4; i 5Stelle dal 24,6 al 27,5; la Lega dal 2,6 al 19,2 (ripeto dal 2,6 al 19,2); Liberi e Uguali irrilevante.

Non è facile comprendere appieno le ragioni di questa crescita imprevista e straordinaria della Lega in Emilia-Romagna. Ma una cosa è certa. O sosteniamo, seguendo anche noi il pregiudizio sociologico, che la Lega è di sinistra; oppure riconosciamo che, almeno in Emilia, i voti in uscita dal PD non sono andati alla “presunta” nuova sinistra bensì alla destra, con buona pace di tanti lettori affrettati dei risultati elettorali.

Purtroppo questa banale constatazione non semplifica per nulla i problemi sollevati in questo articolo, anzi per molti versi li complica ulteriormente. C’è solo una cosa però peggiore e più colpevole di una sconfitta ed è l’incapacità di capire dove, come, quando e perché hai perso.

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