di Gianandrea Piccioli, 25 luglio 2014 su Il Manifesto
Che tutta la vicenda politica di Renzi, dalle primarie in poi almeno, avesse qualcosa di oscuro era evidente da subito. Così come da subito era chiaro che dietro i guizzi futuristi ci fosse un progetto preciso di involuzione autoritaria, di cui il patto del Nazareno era l’architrave. Per fare le riforme davvero necessarie al paese non c’era bisogno di riesumare chi per anni aveva contribuito al disastro, culturale e morale prima ancora che economico; anzi, l’averlo riesumato dimostrava che non si volevano affrontare i problemi veri, ma incidere sull’assetto democratico del paese secondo il mai abbandonato Piano di Rinascita Democratica della Loggia P2 di Licio Gelli.
Solo il Pd poteva gingillarsi nei suoi sciagurati giochini, con piroette acrobatiche degne dei Ballets russes di Djagilev. Così come è altrettanto evidente che questa involuzione di quel che resta del sistema democratico nostrano, con tutto il suo meccanismo di contrappesi e di istituzioni intermedie, è perfettamente in sintonia, direi proprio consustanziale, con l’attuale fase neoliberista, che mal tollera la mediazione democratica e ha bisogno di governi in grado di fronteggiare o scoraggiare a priori le possibili proteste sociali. Anche in vista dei cambiamenti geopolitici in atto, di cui la trattativa segreta del Ttip (il Trattato transatlantico) è solo un aspetto. Non sto pensando a complotti particolari, forse si tratta soltanto di coincidenze provvidenziali, di spontanee efflorescenze dello Zeitgeist…
Come non essere dunque d’accordo con l’articolo, come sempre lucidissimo, di Asor Rosa uscito sul manifesto di sabato scorso? Con questa e con tante altre ricche analisi che quasi quotidianamente pubblicate? E che sempre, ahimé, inevitabilmente desinunt in piscem. Cioè quando dall’analisi si passa alle prospettive si entra in un terreno vago e nebuloso, dove gli auspici, flebili o pervicaci, prevalgono sul realismo. Certo che senza un partito non si muove nulla, si hanno solo insorgenze, anche significative, ma volatili.
Ma da quanti anni auspichiamo un partito della sinistra? Il vecchio manifesto ci ha anche lasciato le penne, in passato. E più recentemente Marco Revelli, per citare uno dei più concreti, si è speso, e ancora si spende, con generosità. Ma come si può tessere la tela di un nuovo partito che non sia solo mediatico in una società che non ha più punti di riferimento? Disgregata in centinaia di piccoli segmenti con interessi immediati diversi. Attraversata da rigurgiti egoistici quando non esplicitamente razzisti. Dove si è disposti, per necessità, a lavorare gratis. Con sindacati domati dalla crisi: ormai persino Landini sembra scomparso. Quando anche una sola ora di sciopero incide gravemente su bilanci da fame. Con giovani demoralizzati e sfiduciati, senza prospettive. E quando si ottiene un qualche successo (penso alla lotta per i beni comuni), viene immediatamente disatteso da chi il potere ce l’ha, anche da chi un tempo si chiamava “compagno”.
Inutile farsi illusioni: siamo dentro un processo iniziato negli anni Settanta, precipitato con gli eventi dell’89, accelerato dai mutamenti nella ristrutturazione planetaria dei poteri e delle egemonie. E siamo, temo, ancora in mezzo al guado. Che fare? L’eterna domanda della sinistra.
Non sono un politico. I movimenti e le iniziative che piacciono a me son sempre risultati minoritari. Il mio voto alle elezioni è spesso stato una sorta di bacio della morte… Sono anche anziano. Spesso mi domando con angoscia come ci giudicheranno le generazioni future. Un mondo in cui un paese come l’Australia decide che la tutela dell’ambiente costa troppo ed è meglio rinunciarvi. Dove 90 straricchi detengono un patrimonio pari a quello di tre miliardi e mezzo di persone. Nemmeno da giovane avevo in corpo la rabbia e la disperazione e l’umilazione che mi ossessionano ora. È vero quel che scrive Asor Rosa: siamo arrivati al capolinea, o reagiamo con un sussulto anche di dignità e amor proprio o possiamo dichiarare fallimento.
Termino anch’io in piscem. Ma come ho già detto altrove: ricordiamoci almeno della Resistenza europea. La nostra l’abbiamo troppo spesso non solo tradita ma anche ingabbiata in una retorica insopportabile. Per i nostri padri, invece, la Resistenza era uno stile di vita, uno strumento per leggere il mondo, per individuare senza tanti intellettualismi ma quasi istintivamente da che parte stare. Il momento è gravissimo, e ogni giorno è più cupo del precedente. Cerchiamo, ognuno per quel che può, di lasciar da parte idiosincrasie, rivalità, ripicche.
È vero, il Pd è finito, da un pezzo. E i pochi dissidenti non hanno la forza per uscirne, timorosi forse di un’irrilevanza ancora maggiore. La sinistra cosiddetta radicale è divisa in un modo che sarebbe farsesco se non fosse tragico. Ma per chi è al di fuori del gioco, in una ennesima notte della repubblica (se ricordo bene è stata evocata recentemente da Burgio), le differenze sfumano, l’urgenza di reagire alla deriva è più importante dei distinguo ideologici e culturali, anche delle condivisioni soltanto parziali.
Ci sono grandi vecchi emarginati dai mezzi di comunicazione (penso, per esempio, a Rodotà); Zagrebelsky ha scritto un documento straordinario, in cui si rimedia punto per punto allo scempio governativo del Senato: inviato alla ministra Boschi, non è nemmeno stato letto. Con altri costituzionalisti ha firmato un appello che sta raccogliendo rapidamente moltissime firme. Perché nella società esistono ancora personalità di rilievo, intellettuali di livello internazionale e non solo banchieri toscani falliti. Ci sono anche giovani che, specie in provincia, danno vita a iniziative culturali straordinarie (il manifesto ne dà meritoriamente conto) ma che restano irrelate fra loro, non hanno spesso la possibilità di consolidarsi ed emergere, zattere alla deriva che non riescono nemmeno a mandarsi segnali da lontano. O ghetti isolati dal contesto.
Con questo voglio dire che il paese ha ancora vitalità, ma che è come soffocato da un’afa immobilizzante. E non sarà certo il vacuo e sospettabile dinamismo di Renzi a liberarlo. Anzi, ora la parola d’ordine dovrebbe essere per tutti: fermare i piani di Renzi e di chi, istituzionale od occulto, sta dietro di lui o lo usa.