Quale lezione per la sinistra europea dalla svolta a destra svedese

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Paolo Borioni
Fonte: Striscia Rossa

Quale lezione per la sinistra europea dalla svolta a destra svedese

Come molti media hanno già diffuso, la vittoria della destra svedese non ha proporzioni notevoli, solo tre seggi di vantaggio (176 vs 173) dei quattro partiti che potrebbero sostenere un governo borghese dopo due legislature di claudicante socialdemocrazia. Mai prima i socialdemocratici, che nel ventesimo secolo hanno avuto in sostanza quattro leader avvicendatisi solo dopo lunghissimi periodi di governo, avevano dovuto soffrire una rottura a metà legislatura, cosa che è avvenuta quando hanno dovuto sostituire il metalmeccanico  Löfven con l’economista Magdalena Andersson.

Magdalena Andersson

Ma quei tre seggi di vantaggio celano molto più di quanto appaia, poiché sono molte le soglie che oggi la democrazia svedese viola verso destra. La prima e fondamentale è che si preparerebbe una coalizione borghese già di per sé spostata a destra nei contenuti e nelle componenti: il partito di Centro non ne fa più parte, mentre Democristiani e Moderaterna (liberal conservatori) sono ormai da tempo molto vicini ai nazional-populisti. La seconda è che a sostituire il Centro (partito liberal-agrario con cui fino agli anni Cinquanta la Socialdemocrazia aveva formato importantissime coalizioni operai-contadini) sarebbero gli ormai sdoganati nazional populisti Sverigedemokraterna. La terza è che questi ultimi hanno per la quinta elezione di fila incrementato i voti giungendo oltre il 20%, e divenendo il secondo partito. Essi sono gli unici con i socialdemocratici ad aumentare sensibilmente (anche i Verdi hanno registrato un risultato mediocre). Da considerare è poi che questo li rende il partito più grande dell’intera destra, il che costituisce da subito un’altra violazione di soglia. Infine, soglia delle soglie, non solo gli Sverigedemokraterna sono, come già i danesi Dansk Folkeparti, nazional populisti, ma a differenza di quelli hanno radici esplicite nel fascismo e nel nazismo. Non solo: a quanto mi consta, almeno 214 candidati Sverigedemokraterna a queste elezioni (in Svezia sempre sia nazionali sia locali e regionali) provengono dalla destra estrema, razzista o fascista. Per esempio dal Nordiska motståndsrörelsen, il Movimento di Resistenza Nordico . Ce ne sono anche una quarantina sparsi fra Democristiani e Moderaterna, ma ovviamente il dato fondamentale è quello relativo agli Sverigedemokraterna, perché, assieme al resto esplicita la definitiva sconfitta della conventio ad escludendum dal novero dei partiti digeribili.

Confronto con l’Italia

Se immaginiamo un confronto con le nostre elezioni imminenti, emergono come si vede molte similitudini, in cui l’inquietudine per le soglie violate si abbina alla conclamata inutilità della conventio ad escludendum, almeno di un certo modo puramente “elettorale” e “benpensante” di esigerla, su cui dovremmo interrogarci recuperando un ben diverso e più sostanziale antifascismo.

Jimmie Åkesson

Ma a parte ciò, se immaginiamo nel nostro paese un sistema elettorale equo e razionale, ovvero proporzionale (benché con una soglia di sbarramento al 4%), in questo momento non ci sarebbe ragione, in Italia, di essere più preoccupati che in Svezia. O almeno: ci si concentrerebbe sulle cause fondamentali di una certa involuzione, ma non sul pericolo di maggioranze parlamentari ineditamente ampie.  Inoltre, i due “poli” che in Svezia ed in Italia si differenziano dalla destra sono ambedue molto “larghi” e compositi: in Svezia si va dai postocomunisti (Vensterpartiet) al già menzionato Centro, che per quanto abbia lasciato l’alleanza di centro-destra proprio criticandone l’avvicinamento agli Sverigedemokraterna, rimane un partito totalmente neoliberale, come Calenda, Bonino e Renzi. Questo comporta problemi notevoli per la Socialdemocrazia, che scegliendo di “governare” la situazione (anziché per esempio fare opposizione ricostruendo una proposta alternativa) ha dovuto farlo con finanziarie nel contenuto “borghesi”, togliendo una certa quantità di voti agli alleati vicini e perdendone verso gli Sverigedemokraterna (-10%). Dunque recuperando insufficientemente nei ceti di lavoro dipendente ed operaio.

Nel 2002 oltre il 50% del voto sindacalizzato era socialdemocratico, oggi siamo al 40%, con i nazionalpopulisti al 27%. Nel voto operaio non sindacalizzato le distanze sono ancora più sottili (30,7 contro 28,8). Se preso nel suo insieme, peraltro, il campo che va da Calenda al M5S era in molti sondaggi in grado di opporsi numericamente alla destra, perdendo di poco come il centro-sinistra svedese o anche prevalendo di poco. È utile constatare come i partiti che oggi in Svezia si oppongono alla destra (ripetiamo: Centro, Verdi, Socialdemocrazia e post-comunisti) evidentemente sono usciti meno divisi dall’esperienza di governo o di sostegno al governo vissuta dal 2018 paragonati al corrispettivo italiano. Difficilmente, su questo punto, si può astrarre dalle diverse capacità attrattive di un partito come la Socialdemocrazia svedese, che con tutti i suoi citati attuali limiti non è il PD: rimane l’espressione di un ampio movimento sociale di oltre il 30% dei voti, che pur non più svettando compete con la destra nei ceti popolari in modo inconcepibile per la coalizione Letta (risparmio dati stranoti e confermati: Capitalismi e democrazie, a cura di C. Trigilia, Mulino 2020).

Il peso dell’atteggiamento di protesta

Insomma, per alcuni versi le differenze socio-elettorali italiane e svedesi appaiono minori di un tempo, e quelle che emergono sono di offerta politica più che di “domanda di destra” da parte del corpo elettorale. Che non sembra, nonostante le apparenze, maggiore da noi nemmeno in questa campagna elettorale connotata dal vantaggio di Meloni. L’inesistenza di questa domanda (nonostante la tendenza autolesionisticamente autorazzista di alcuni nostri ambienti “progressisti”) è confermata da molte indagini (oltre che dal Max Planck Institut, anche dal Cise della Luiss). L’OCSE inoltre certifica che reati di intolleranza e odio razziale sono proporzionalmente più presenti in Svezia che in Italia.

Lo slogan degli Sverigedemokraterna: “Meno Bruxelles, più Svezia”.

Questo ci autorizza anche a svolgere altre considerazioni: l’attuale forza di Meloni appare il frutto di un’avvicendarsi piuttosto randomico fra diverse espressioni di malcontento e protesta: successo M5S nel 2103,  successo Renzi alle europee successive, successo M5S ancora più grande nel 2018, crescita nei sondaggi Lega dopo il 2018, e oggi crescita FdI. Ma solo dopo anni in cui è rimasto l’unico partito sempre di opposizione, ed in sostanza quasi solo “rubando” voti di destra alla Lega (anche su questo il Max Planck Institut: https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/08/30/meloni-ha-cannibalizzato-lelettorato-leghista/6784718/). Si tratta di oscillazioni comprensibili poiché, ad esempio, nonostante la Svezia sia divenuto il paese più neoliberale, precarizzato e disuguale dell’area nordica (da cui il malcontento su cui torneremo) il suo mercato del lavoro non è certo agli sconfortanti livelli italiani.

Tutt’altro che effetto di oscillazioni incerte e momentanee, l’affermazione degli Sverigedemokraterna appare invece rapida, netta e solida, visto che solo nel 2006 entrano in parlamento con appena il 5% dei voti, ed emarginati da tutti.  AN/FDI al cospetto ha intrapreso un percorso lunghissimo all’interno di governi nazionali (dal 1994) andando incontro a enormi oscillazioni di consenso e successo politico (proprie e degli alleati). Lo “sdoganamento” degli Sverigedemokraterna, peraltro, è avvenuto in modo simile ad AN/FdI (ad opera di un partito del centro-destra a sua volta “radicalizzatosi” e “populistizzatosi”, altra tendenza comune in Europa e Usa), ma nel caso italiano già da molto tempo (1993) mentre nel caso svedese paiono bastare pochi anni per assurgere ad alte vette di consenso. In questo momento gli Sverigedemokraterna sono impegnati in trattative di governo da partito più grande, non da junior partner sdoganato (per quanto i Moderaterna avrebbero quasi sicuramente la presidenza del consiglio, essendo più “centrali” nella potenziale coalizione e appena minori come consenso elettorale: 20,6 contro 19,1%). Infine, da considerare l’afflusso al voto: gli Sverigedemokraterna diventano secondo partito e primo partito della destra in un contesto dell’81% di partecipazione, mentre da noi si parte dl 72% del 2018, con tendenza al ribasso che pare marcata. Visto che un tempo proprio l’Italia eguagliava i paesi nordici in altissima partecipazione elettorale, questo dato comparato pare confermare che il quasi certo successo di FdI è generato da una (sempre) maggiore mancanza di offerta politica e da molto più marcate oscillazioni da malcontento.

Un discrimine caduto

Certo, tutte queste comparazioni non mutano la questione fondamentale: in ambo i paesi pare debolissima o obsoleta la strategia di “esclusione” o “demonizzazione” del nazional populismo. Questo anche perché, come confermato da studi recenti (N. Strobl, Le nuove destre, 2021), oltre tutto il discrimine è caduto ovunque proprio ad opera di partiti liberalconservatori storici (anche qui Berlusconi non è affatto un’eccezione, ma la norma, Svezia compresa). Infatti, giustamente Strobl nel titolo originale tedesco parla di Radikalisierter Konservatismus, cioè di liberal-conservatori che oltre e prima di allearsi con l’estrema hanno in gran parte loro stessi radicalizzato la propria proposta e gli elettori di ceto medio e borghese.

Altra questione fondamentale: per questi “conservatori radicalizzati” ammettere nazional populisti o ex fascisti negli “ambienti buoni” corrisponde ad un’interpretazione neoliberale della democrazia anti-totalitaria: comunismo e fascismo sono equivalenti, persino Salvador Allende secondo Hayek fu un totalitario. Quindi: “se voi socialdemocratici (o voi Sinistra europea in genere) siete alleati con i post-comunisti, noi possiamo esserlo con i post-fascisti”. Il tutto sancito da un’equiparazione votata dal Parlamento Europeo, anche dal PD.

È del tutto evidente che vanno cercate altre strade, principalmente quelle di dare la priorità su tutto (su tutto) al rafforzamento del rapporto con i ceti popolari e classi medie (ex-medie) basato su una diversa costruzione della competitività, che riattivi la competizione senza sfruttamento e il riavvicinamento socio-economico fra le classi (da cui dipende la mobilità sociale, essenziale per vanificare molte angosce, giustificate ma anche paranoiche). Un dato essenziale è che gli Sverigedemokraterna sono primo partito fra i disoccupati (30%) e secondo dietro i socialdemocratici fra i lavoratori in “attivazione” per nuove competenze (28% a 27%). Olle Folke dell’Università di Uppsala non ha dubbi: “dopo le riforme precarizzanti del centro destra (2006-2014) la socialdemocrazia non ha abbastanza invertito la rotta”.

Olle Folke

Gli studiosi vicini al movimento operaio svedese lavorano anche ad altre analisi, implicitamente autocritiche. Johanna Lindell e Lisa Pelling hanno perlustrato in un libro “Il malcontento svedese” (Det Svenska Missnöjet, 2021), specie della periferia e della provincia, che ha dato i maggiori successi agli Sverigedemokraterna. Il termine “malcontento” riporta i tempi in cui Tage Erlander (leader socialdemocratico e primo ministro dal 1946 al 1969) parlava di “insoddisfazione da aspetttive crescenti”. Intendeva che la ricetta di competere riducendo progressivamente lo sfruttamento era da un lato un circolo virtuoso, ma implicava sempre maggiori aspettative di ulteriore riforma. Questo è cambiato per molte ragioni, che ho studiato altrove (Borioni P., SOCIALDEMOCRAZIA E CAPITALISMO: DALLA PARITÀ DEL LAVORO COL CAPITALE ALLA SUA RIMERCIFICAZIONE, Studi storici , 1, 2021). Ma è sicuro che l’Europa occidentale e soprattutto la Svezia avrebbero tutto il potenziale per una razionalità socio-economica che escluda progressivamente lo sfruttamento. L’alternativa è un “malcontento delle aspettative decrescenti”, ovvero un circolo vizioso che rinuncia alla cultura politica dell’emancipazione e cerca invece protezione.  Questo disarma il compito storico del socialismo democratico, e quindi mina  la  credibilità dei suoi appelli “antifascisti”. Persino in paesi come la Svezia in cui il suo prestigio storico sembrava granitico ed illimitato.

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