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di Franco Cardini – 24 aprile 2017
Divertentissimi toni trionfalistici, nella notte tra domenica 23 e lunedì 24, sia di Macron – che sarà a suo dire il “presidente dei patrioti, contro i nazionalisti” –, sia della signora Le Pen, che “porterà i francesi all’Élysée”. Tra gli sconfitti, lo screditato Fillon (che ha perduto l’occasione di ritirarsi con un minimo di residua dignità, dopo essersi fatto prendere con le mani nel sacco) e il socialista Hamon (sul quale ha senza dubbio pesato l’imbarazzante eredità del tristo Hollande) hanno precipitosamente invitato i loro elettori a “far barriera” al secondo turno contro il Front National. Ma è significativo che il candidato del movimento France Insoumise, Melenchon – che ha cercato di tener insieme quel che resta del partito comunista e dell’opinione gauchiste ed è stato obiettivamente, insieme con la trotzkista Arthaud, il candidato più serio, quello che ha proposto programmi politici e sociali plausibili (e tragicamente adatti alla dificoltà del momento: quindi irrealizzabili) dinanzi agli opposti isterismi xenofobi da una parte, “neopaleoantifascisti” dall’altra – ha significativamente lasciati liberi i suoi elettori per il secondo turno. Sottintendendo che comunque si cadrà dalla padella nella brace, chiunque abbia la meglio tra il “gestore del Nulla moderato” (l’ammucchiata centrodestra-centrosinistra in funzione antilepenista) e Madame “Franceauxfrançais” che, essendo una signora intelligente, sarà senza dubbio nel suo intimo – qualunque sia la parte che lo tocca di giocare adesso in commedia – la più accesa antilepenista di Francia, la prima a ringraziare Iddio dell’impossibilità della sua vittoria. Dalla padella Hollande, chi dei due semivincitori di ieri – scrivo nella mattinata di lunedì – chi sia la brace, vedremo: anche se francamente la “resistibile ascesa” del semigollista-neocentrista Macron sembra nell’ordine delle cose, visto l’isterismo con il quale buona parte dei media hanno già cominciato a dar nuovo fiato alle vecchie, sfiatate buccine intimidatorie: gli spettri del collaborazionismo, la Francia occupata, gli orrori nazisti, il teppismo fascista eccetera, e insomma tutto l’armamentario terroristico che in questi casi non si ha pudore di rievocare. Nelle prossime serate tutte le reti televisive francesi inonderanno le case dell’Hexagone di filmoni, filmetti e filmacci dedicati alla Resistenza, alla Shoah e via dicendo, da Casablanca a Bastardi senza gloria se saremo un po’ più fortunati e giù via via a scendere (e allora sarà grasso che cola se ci rifileranno di nuovo Bourvil e De Funès contro le SS). Intanto ricomincerà il battage scandalistico sull’entourage della Le Pen, sui suoi collaboratori neofascisti e ladri denunziati nelle settimane scorse con grande dovizia di servizi giornalistici e televisivi dove piogge di svastiche si accompagnavano ad alluvioni di cifre relative al danaro pubblico stornato dai dirigenti e dagli amministratori del FN.
Quel ch’è certo è che, com’è accaduto il 4 dicembre scorso in America fra Trump e la signora Clinton, fra quindici giorni prevarrà in Francia “il male peggiore”. Il punto è vedere in quali modi questo male sarà declinato e noi saremo obbligati ad affrontarlo: preferite il (forse) lento progredire della rovina con Macron – che con involontario umorismo ha già annunziato di esser pronto a costruire un futuro politico “con volti nuovi” – o il Totentanz a passo bersaglieresco con la Le Pen che ha “teso la mano” a Nicolas Dupont-Aignan, il più ridicolo tra i candidati conservatori sconfitti? D’altronde, con una scelta nihilista “di basso profilo” ma comprensibile si sta profilando a livello di pubblica opinione: pare proprio che fra quindici giorni il secondo turno segnerà un record di diserzione delle urne; è in atto difatti un diluvio di politici e di gente comune che ha dichiarato che non andrà a votare e sta invitando i francesi a fare la stessa cosa.
Quel che permane certo è che queste elezioni hanno segnato il collasso e la scomparsa dei due schieramenti tradizionali francesi, il gollista e il socialista. Il bipartitismo, con il relativo derby tra grossomodo “conservatori” e grossomodo “progressisti”, è finito: la corsa all’assurdo tra una destra disorientata e incapace di esprimere un programma credibile e una sinistra pateticamente polverizzata ha condotto a quest’impasse. Durante le primarie, a parte la questione dei migranti e quella del terrorismo islamico sulle quali ha insistito la Le Pen in termini obiettivamente ridicoli e quella della mondializzazione e della crescente ingiustizia sociale in Francia e nel mondo giustamente ma pateticamente e inutilmente denunziati dalla sinistra ex-estrema o che si sforza di rimaner tale, nessuno ha sul serio parlato di problemi e di programmi (a parte fumoserie sulla “difesa della famiglia”, sul “rilancio dell’occupazione” e generiche amenità del genere). D’altronde, non è che in Italia si sia messi meglio.
E, dalla commedia che potrebbe anche evolversi in dramma, passiamo alla tragedia suo malgrado – e purtroppo – ricca di spunti involontariamente tragicomici.
A Parigi, la sera del 20 aprile, verso le 21, la vita della gente – cittadini o turisti che fossero – scorreva normalmente. Salvo in quel peraltro notissimo e affollatissimo tratto degli Champs Élysées prospiciente la stazione F. D Roosevelt del Métro. Un luogo certo caratteristico, a pochi passi dall’Arco di Trionfo: quindi se si vuole simbolico.
Qui, un tizio ha sparato a una camionetta della polizia uccidendo un agente, ferendone un altro paio e raggiungendo anche un turista; sono accorsi altri agenti e l’attentatore è stato abbattuto mentre in tutta la zona si scatenava un comprensibile pànico. In resto della città non ne sapeva nulla, non si era accorto di nulla. Ancora qualche ora dopo, a parte l’area prossima al teatro dell’attentato, tutto era normale. Il taxista che mi ha caricato all’Odéon un paio di ore più tardi per andare dalle parti di Porte de la Villette, nel XIX, stava terminando il suo turno ed è venuto a sapere dell’incidente perché gliene ho parlato io. Cinema, teatri, ristoranti: tutto funzionava normalmente.
Ovviamente, la reazione dei politici e dei media non si è fatta attendere. Già durante la notte sono stato tormentato da parenti e amici che telefonavano e che volevano sapere se nella Ville Lumière si stavano scavando trincee ed erigendo barricate.
All’alba del giorno successivo, tutto è tornato come prima: cioè è successo il finimondo. Gran baccano di televisione e altri media, affannate dichiarazioni dei candidati alle elezioni di domenica, interviste a cittadini che si sono affrettati a proferire le banalità d’uso in questi casi. Si era frattanto sparsa la voce che a rivendicare l’attentato era stato un comunicato in arabo dell’agenzia propagandistica Amaq, che diffonde i proclami del Daesh, lo “stato islamico”. Esso ha rivendicato l’azione compiuta da un militante jihadista il cui nome di guerra sarebbe Abu Jussef al-Belgiki (letteralmente, “il padre di Giuseppe, il Belga”: ma con uno strano miscuglio di arabo e di ebraico, dal momento che il nome Giuseppe suona Jussef in ebraico, ma Jussuf in arabo). La notizia della rivendicazione è giunta alle 22,15, un’ora dopo che l’inchiesta era stata avocata a sé dalla Direction Générale de la Sécurité Interieure (DGSI). La matrice terroristica dell’attentato era chiamata in causa come “probabile”, nelle stesse ore, dall’Agenzia Reuters.
Per la verità, qualcosa è andato, infatti, chiarificandosi già nel corso della notte e i comunicati di polizia lo hanno esposto quindi con ordine. L’attentatore, morto durante il conflitto a fuoco, era conosciuto e a quel che pare perfino schedato: si tratta di Karim Cheurfi, un cittadino francese nato nel dicembre 1977 à Livry-Gargan presso Saint-Denis (banlieue a nord-est del centro cittadino di Parigi), d’origine algerina, musulmano, che però non si faceva vedere nella moschea del suo paese di residenza, a Chelles, dove la sua abitazione è stata perquisita verso la mezzanotte e dove vicini e conoscenti hanno testimoniato concordi a proposito della sua labilità caratteriale. In effetti, Cheurfi era stato condannato nel 2005, quand’era ventottenne, per tentato omicidio di un poliziotto, sembra per vendetta in seguito a un episodio avvenuto quattro anni prima. Era stato detenuto a Fluery-Mérogis. A suo carico, sul suo casellario giudiziario, sono registrati vari casi di violenza e altri crimini compiuti fra 2008 e 2014. Arrestato di nuovo il 23 febbraio scorso, era stato posto in libertà per insufficienza di prove. Secondo testimonianze che paiono attendibili, i suoi frequenti contatti con la giustizia avevano provocato in lui una sorta di odio maniacale nei confronti degli agenti di polizia. Ieri si è purtroppo vendicato, a costo della sua stessa vita.
Si è parlato di una specie di memorandum e di una copia del Corano trovati nella sua auto. Di ritrovamenti del genere in auto di terroristi è stata fatta questione già varie altre volte. Ma, ammesso di trovarsi dinanzi a un « soldato » del Daesh, che logica avrebbe avuto il suo gesto isolato? Chi lo avrebbe programmato e ordinato, a quale scopo ? Chi avrebbe scelto un esecutore così screditato e maldestro? Un conto è supporre che nella sua mente presumibilmente ammalata egli si sia considerato un militante jihadista, un altro è costruire sull’episodio degli Champs Élysées un altro piccolo castello di carte a carattere complottistico, e già troppo spesso lo si è fatto (compreso nel celebre caso del ponte di Londra).
In altri termini, è evidente che il momento nel quale viviamo, e l’indubbia esistenza di un pericolo terrorista attivo, da un lato stia attirando tutta la limatura nevrotica e demenziale che purtroppo impesta la nostra società, dall’altro costituisca un’occasione troppo ghiotta per quanti vogliono seminar pànico per trarne vantaggio politico. Difatti, non c’è voluto molto a chiarire l’equivoco della supposta « rivendicazione » di Amaq-Daesh, che ha tirato in ballo il fantomatico nome di tal Jussuf o Jussef « il Belga », il quale pare invece ricercato per una questione di droga. Fin dall’inizio del nostro secolo, tutte le notizie relative alle rivendicazioni di attentati terroristici d’origine islamica provengono a quel che pare da una sola fonte, la SITE Intelligence Group, un’agenzia nata nel 2008 da un’entità privata che si presentava come un istituto di ricerca, Search for International Entities Institute (Inter Protocol Address 67.19.162.130), e gli animatori della quale risultano la signora Rita Katz, cittadina israeliana e statunitense, nonché i signori Bruce Hoffman, statunitense, e Rohan Gunaratna, sri-lankese. Questa piccola agenzia privata diffonde di solito materiale d’origine terroristico da essa raccolto, incluse le varie rivendicazioni di attentati; e gode a quel che pare di facile e immediato credito presso molti governi e molti media di tutto il mondo che lo diffondono, non si riesce a capire se dopo averne verificato, e in che modo, la veridicità dei suoi contenuti. Ciò è tanto più allarmante in quanto SITE non usa mai citare le fonti alle quali attinge. In questo caso, la confusione tra il pregiudicato parigino e lo spacciatore belga, e l’arruolamento di entrambi nel Daesh, hanno avuto origine da uno di questi dispacci e dal suo inopportuno uso. In effetti, tra l’assassino degli Champs- Élysées e il supposto terrorista (o effettivo spacciatore) arabo-belga non v’è rapporto alcuno.
In seguito al malinteso così determinatosi, gli allora tre più forti candidati di centro e di centrodestra – Emanuel Macron, François Fillon e Marine Le Pen – hanno comunicato a tarda ora del 20 aprile di aver cancellato tutti i loro impegni del giorno dopo per esser presenti a Parigi e seguire gli eventi che si sarebbero sviluppati in seguito all’attentato. La speranza comune dei tre politici del fronte in un modo o nell’altro « conservatore » sembra essere stata quella di cogliere dall’evento – e in particolare dal sacrificio dell’agente di polizia caduto – il massimo profitto elettorale possibile. Oggi sappiamo che tutto sommato la cosa ha pesato ben poco sui risultati.
E tuttavia, il “caso-Cheurfi” è importante. Esso rappresenta una delle infinite variabili d’un pericolo sociale effettivo, alla base dle quale non c’è affatto il “fanatismo ilsmaico”, bensì il fallimento della società mondialistica diretta dagli anonimi o semianonimi o pseudoanonimi signori delle lobbies finanziarie, economiche e tecnologiche. Un fallimento che si traduce, a tutti i livelli e nelle infinite articolazioni della società civile mondiale – vale a dire della massa dei “governati”, in corso d’impoverimento o già miserabili che siano – nel disorientamento, nel caos. Se la presenza di un pericolo terroristico per alcuni versi reale e obiettivo può condurre non tanto a provocare lo spirito malsano di emulazione da parte di qualche squilibrato – e di squilibrati, in quest’Occcidente di « stati di coscienza alterati », ve ne sono fin troppi -, quanto a scuotere ampi settori della società civile e ad accrescere forme di già radicato pregiudizio, ciò significa che il nostro sistema di convivenza civile è veramente ammalato. E’ questo che soprattutto preoccupa.
Cheurfi è a sua volta una vittima; molti altri lo sono. Dai foreign figters a chi ammazza e si ammazza di droga, a chi si dà ad atti più o meno gravi di microdelinquenza, a chi si suicida, a chi si lascia vivere finché va che è un modo di lasciarsi morire. Il problema non è affatto il “terrorismo islamico”, a sua volta effetto anziché causa, mostro da sbattere in prima pagina per distrarre l’opinione pubblica dagli autentici problemi del pianeta: cioè dei risultati del malgoverno delle lobbies che sfruttano il pianeta, dei governi che ne sono “comitato d’affari”, dei media che sostengono questa nuova rovinosa forma di totalitarismo.
I ceti dirigenti mondialisti dell’ultimo mezzo secolo hanno progressivamente lasciato affermarsi non solo nell’Occidente, ma nel mondo intero, il loro instrumentum regni consistente in un clima di antivalori-pseudovalori fondato sull’edonismo individualistico, sulla mancanza di cultura e di progetti, sui sogni di opulenza e di benessere, sull’invidia di chi non aveva né l’una nell’altro nei confronti di chi, avendo o credendo o fingendo di detenerli entrambi, li mimava sui grandi e sui piccoli schermi nonché sui displays dei media informatico-telematici di tutto il mondo. In questo clima di benessere élitario in gran parte surreale-virtuale da una parte, di frustrazione e di disperazione dei diseredati e degli asserviti dall’altra, cresce la malapianta della disperazione che trasforma la falange degli infiniti Cheurfi al mondo in un esercito di zombies assassini e suicidi. Pochi indicano la via della liberazione, anzi della redazione da questo immenso cantiere di morte. Uno soprattutto: papa Francesco. Regolarmente malinteso e tradito, osannato o crocifisso, inascoltato comunque. Ce ne pentiremo tutti.