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di Luca Billi – 23 settembre 2018
E’ sempre interessare vedere come nascono e crescono le parole. Nel termine autumnus è facile riconoscere la stessa radice del participio passato di augere, che significa aumentare, arricchire. Quando è nata questa parola, in un mondo legato al succedersi delle stagioni e ai ritmi della natura, l’autunno era la stagione della ricchezza, il momento in cui gli uomini godevano dei frutti della terra. L’autunno era una “bella stagione”. Per noi invece è l’estate il momento culminante dell’anno e l’autunno è un momento di declino e infatti questa parola è spesso usata come una metafora per descrivere il decadimento, la vecchiaia, la fine inesorabile. Non amiamo l’autunno, che al massimo ci ispira canzoni di struggente malinconia.
Non amiamo l’autunno perché non amiamo neppure invecchiare. Se ci pensate è un curioso paradosso: la nostra società sta rapidamente invecchiando, cresce ogni anno l’età media, viviamo di più e spesso, grazie ai progressi della medicina, anche meglio. Siamo una società decisamente vecchia, eppure fingiamo di essere giovani. Facciamo di tutto per fingere quello che non siamo, ci vestiamo e ci trucchiamo per sembrare diversi, ci sottoponiamo a terapie e interventi chirurgici, i nostri discorsi sono pieni di retorica giovanilistica, noi maschi – anche in questo ci facciamo riconoscere – cerchiamo compagne giovanissime, siamo una società di finti giovani, che tenta in ogni modo di esorcizzare l’autunno.
E proprio questo nostro fingerci giovani, questo alterare artificiosamente la natura, finisce anche per danneggiare quelli che davvero sono giovani, perché prendiamo il loro posto, non li facciamo crescere, spesso li sfruttiamo, nutrendoci della loro vitalità. Non sappiamo più riconoscere che l’autunno è l’età della ricchezza, proprio perché precede l’inverno e quindi anche la morte, e siamo così invidiosi della primavera che la rubiamo a chi avrebbe il diritto di goderne.