Quando il proporzionale si rivela una trappola

per Gabriella
Autore originale del testo: Livio Ghersi
Fonte: Carta libera. opinioni liberali

di Livio Ghersi,  9 febbraio 2017

Alcuni amici liberali mi hanno fatto intendere di non condividere la mia insistenza per un ritorno ad una legge elettorale basata sui collegi uninominali, come erano la legge n. 277/1993 (per la Camera dei deputati) e la legge n. 276/1993 (per il Senato), sia pure con le modifiche che ho proposto. Perché — mi si obietta — non attestarsi, invece, sulla difesa di una legge elettorale proporzionale che, nelle attuali condizioni d’incertezza, finisce per garantire tutti, non penalizzando particolarmente alcuno? Prova provata di tale convenienza è che il proporzionale sembra mettere d’accordo forze politiche tanto distanti quali sono Forza Italia di Berlusconi, da un lato, ed il Movimento Cinque Stelle, dall’altro. Diamo a ciascuno la propria fetta di rappresentanza parlamentare, in misura proporzionale al consenso ricevuto dagli elettori, e tutti saranno contenti.

Rispondo che questa è l’apparenza, ma la sostanza è molto diversa: c’è proporzionale e proporzionale.

Le persone veramente convinte della preferibilità del proporzionale dal punto di vista di una più genuina democrazia, hanno in mente due esempi storici di legge proporzionale. Il primo è quello della legge per l’elezione dell’Assemblea Costituente; tale normativa prevedeva che i resti (ossia i voti non utilizzati nelle circoscrizioni) fossero recuperati dalle varie liste in sede di Collegio unico nazionale. Tutti i gruppi di liste che concorrevano nelle circoscrizioni territoriali erano collegati ad una propria lista (avente, naturalmente, il medesimo contrassegno) presentata appunto in sede di Collegio unico nazionale. Queste liste nazionali erano una vera e propria “vetrina” delle forze politiche: qui si presentava al popolo italiano il meglio delle candidature che ogni partito riuscisse ad esprimere. Ad esempio, la lista dell’Unione democratica nazionale, espressione di un’alleanza elettorale fra due partiti del Comitato di liberazione nazionale, i liberali del PLI ed i demolaburisti del PDL, era aperta dalle seguenti quattro candidature: Vittorio Emanuele Orlando, Benedetto Croce, Francesco Saverio Nitti, Ivanoe Bonomi. Ossia, tre ex presidenti del Consiglio dei Ministri dell’epoca pre-fascista, più un intellettuale di riconosciuta levatura internazionale, quale era Croce. Non era possibile esprimere preferenze per i candidati inseriti nelle liste nazionali, ma questi venivano eletti secondo l’ordine di presentazione nella lista, fino alla concorrenza dei seggi spettanti. Il recupero nazionale dei resti diede rappresentanza, in seno all’Assemblea Costituente, anche a piccole formazioni politiche che non erano riuscite a conquistare alcun seggio nelle circoscrizioni. Valga, a titolo di esempio, il caso della Concentrazione democratica repubblicana (composta da esponenti della cosiddetta “destra” del Partito d’Azione e da liberali di sinistra) che elesse alla Costituente due propri prestigiosi rappresentanti, Ferruccio Parri ed Ugo La Malfa, pur avendo ottenuto complessivamente solo 97.690 voti (pari allo 0,4 %).

Il secondo esempio storico di legge elettorale proporzionale considerata “attrattiva” è quello della legge per l’elezione dei rappresentanti dell’Italia al Parlamento Europeo (legge 24 gennaio 1979, n. 18, e successive modificazioni), quale era prima che, grazie ad un accordo tra il Partito democratico e Forza Italia, venisse introdotta una soglia di sbarramento del quattro per cento su base nazionale per l’accesso alla rappresentanza (la modifica fu introdotta con legge 20 febbraio 2009, n. 10, ed ebbe prima applicazione in occasione delle elezioni europee del 6 e 7 giugno 2009).

Piace, insomma, un proporzionale che salvaguardi anche le piccole minoranze. Anche qui, però, a ben vedere, non è tutto oro ciò che luccica, perché anche l’eccessiva frammentazione della rappresentanza è un difetto del sistema politico. Inoltre, la certezza che sia sufficiente un consenso molto basso (dello zero virgola qualcosa) per ottenere comunque qualche seggio, finisce per perpetuare settori marginali di ceto politico, i quali non hanno alcuna voglia reale di impegnarsi allo spasimo per fare crescere nel Paese il consenso per i propri ideali, ma tendono soltanto a conservare un seggio in Parlamento per sé stessi. Per questo motivo, in passato, ho sostenuto la razionalità di soglie di sbarramento nel contesto di leggi proporzionali; soglie che, però, si potrebbero modulare meglio di quanto finora non si sia fatto nella legislazione italiana. Ad esempio, una soglia di sbarramento applicata nella dimensione di una Regione, o di una circoscrizione elettorale territoriale, è più equa di una soglia di sbarramento applicata su base nazionale: un partito che ha un radicamento territoriale in una particolare zona geografica del Paese deve poter sopravvivere ed operare là dove è forte. Le soglie di sbarramento nazionali costringono, invece, ad alleanze innaturali, come quelle tentate in passato fra la Lega Nord e movimenti meridionali a vocazione indipendentista, o separatista. Questione del tutto diversa è quando si tratti di prevedere meccanismi di riequilibrio proporzionale nel contesto di leggi elettorali che sono prevalentemente basate sul sistema maggioritario: in questo caso, e soltanto in questo caso, sono completamente favorevole a che si dia rappresentanza anche alle formazioni minori attraverso una sorta di “diritto di tribuna”. A conti fatti, questo potrebbe riguardare un numero di seggi non superiore a quello della dita di una mano; niente, a fronte di una Camera dei deputati composta da 630 membri.

Passiamo ora dalle aspettative e dai sogni, alla cruda realtà. Posto che la legge n. 52/2015 (il cosiddetto “Italicum”, di filosofia renziana) non comprende più la previsione di un secondo turno di ballottaggio, abrogato dalla sentenza della Corte Costituzionale, e considerato che è altamente improbabile che una singola lista possa ottenere una cifra elettorale nazionale superiore al quaranta per cento del totale nazionale dei voti validi espressi (requisito per fare scattare il premio di maggioranza in seggi), ne risulterebbe una distribuzione puramente proporzionale dei seggi. Questo è, appunto, ciò che sembra. La verità è che questa legge elettorale, in perfetta continuità logica con la legge n. 270/2005 (il cosiddetto “Porcellum” di filosofia Calderoli-berlusconiana), è una normativa concepita da persone che non vogliono avere tra i piedi minoranze critiche. Così la normativa è piena di “trappole” per le liste minori.

Evidenzio tre aspetti: a) rappresentanza territoriale; b) previsione esplicita di soglie di sbarramento per l’accesso alla rappresentanza; c) dimensione dei collegi plurinominali.

Quanto al primo punto, la rappresentanza territoriale, si ricordi che 609 seggi sono distribuiti dall’Ufficio centrale nazionale, sulla base dei risultati nazionali delle varie liste. Ciò garantisce che ogni lista abbia esattamente il numero complessivo di seggi che le spetta, per il riparto proporzionale; ma non garantisce affatto che la ripartizione dei seggi della lista medesima corrisponda al consenso espresso nelle diverse circoscrizioni, e all’interno dei collegi plurinominali di ogni singola circoscrizione. Intendo dire che un seggio può essere assegnato ad un collegio (quindi ad un candidato) diverso da quello cui, a rigore, spetterebbe. Se in un collegio plurinominale bisogna ripartire otto seggi, non se ne possono dare di più. Tutto sta, quindi, all’ordine che si segue nel riparto: si parte dalla lista A, poi la B, la C; ma quando si arriva alla D, alla quale pure spetterebbe un seggio, il numero dei seggi del collegio plurinominale è già completo. Di conseguenza, D non perde il seggio, ma le viene assegnato “altrove”. Quali liste pensate che siano più danneggiate con questo meccanismo? Quelle che hanno più consenso, o le liste minori? Per approfondire la problematica dei «seggi eccedenti», rinvio all’articolo 83, comma 1, numero 8), del Testo unico n. 361/1957, come sostituito dall’articolo 2 della predetta legge n. 52/2015. La mia conclusione è che legge n. 52/2015 sia eccessivamente “manipolativa” del consenso democratico.

Quanto al secondo punto, la legge per la Camera prevede che, per ottenere rappresentanza, si debba avere una cifra elettorale almeno pari al 3 % dei voti validi su base nazionale; la vigente legge per il Senato una soglia dell’8 %, su base regionale, per le liste che si presentano da sole. Temo che, se si arriverà all’armonizzazione fra le due leggi, non sarà perduta l’occasione per elevare la soglia di sbarramento della Camera. Pretestuosamente, perché il tre per cento nazionale dei voti validi non è una soglia bassa. Rispetto al totale dei voti validi espressi nell’elezione della Camera dei deputati del 24 febbraio 2013, il limite del tre per cento si può quantificare in 1 milione 20.172 voti. Sono curioso di vedere quante liste, non a chiacchiere, ma a conti fatti dopo il voto, sarebbero davvero in grado di superare questa soglia.

La ridotta dimensione dei collegi opera già come soglia di sbarramento implicita. Meno seggi ci sono da ripartire, più è difficile che le liste minori ottengano rappresentanza. I nostri legislatori sono “rozzi”, ossia non vanno per il sottile, e quindi non si preoccupano di sommare la soglia di sbarramento esplicita ad una implicita derivante dalle piccole dimensioni del collegio. Se vi piace, continuate pure a chiamare tutto questo “proporzionale”; ma non si tratta certamente del proporzionale con cui si elesse l’Assemblea Costituente il 2 giugno del 1946.

La ciliegina sulla torta, nella legge n. 52/2015, è data dalle norme che sottraggono i capolista di ciascun collegio plurinominale al voto di preferenza, con una palese disparità di trattamento rispetto a tutti gli altri candidati. Si tratta di logica volgarmente partitocratica, che tende a proteggere i fedelissimi della linea politica incarnata da chi detiene la posizione di comando in ciascun partito. Ne risulteranno tanti parlamentari “yes-men” e “yes-women”, con un solo dovere politico: quello di votare in Parlamento esattamente come vuole il vertice del partito che li ha graziosamente immessi nell’ufficio di deputato o di senatore.

Per questo motivo, penso sia bene insistere sul fatto che la legge n. 52/2015 è, sotto tutti i punti di vista,  una legge pessima, così come era pessima la legge n. 270/2005. Prima si volta pagina, meglio sarà per noi tutti. I partiti che non lo vogliono fare, perché ciò è contrario a ciò che percepiscono come loro immediati interessi di bottega, devono, per questo fatto, essere tutti giudicati con la massima severità e, alla prima occasione, bisognerà presentare loro il conto.

Palermo, 9 febbraio 2017

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