Pro e contro gli OGM/2 – Carlo Petrini e Umberto Veronesi

per Gabriella
Autore originale del testo: Carlo Petrini, Umberto Veronesi
Fonte: La Repubblica

Anche gli scienziati divisi sugli Ogm: ecco perché all’Italia conviene dire no”

Il fondatore di Slow Food: “Le multinazionali non sono trasparenti, è un diritto dei popoli opporsi ai semi geneticamente modificati”

DA MESI seguo i copiosi interventi che si susseguono sulla stampa italiana a proposito di organismi geneticamente modificati, devo ammettere che qualcosa non mi è chiaro.

La prima perplessità nasce quando chi si dichiara a favore degli Ogm destinati all’alimentazione umana sembra ritenersi, per ciò stesso, autorizzato a concedere patenti di scientificità o di emotività. La scientificità va a chi concorda con le sue opinioni, tutti gli altri sono vittime dell’emotività. Questo non riguarda solo le persone, ma anche le pubblicazioni: gli studi a supporto delle tesi pro-Ogm vengono citati come scientificamente validi; quelli che indagano su problemi  –  a livello ecologico, economico o giuridico  –  legati a quelle coltivazioni e al consumo di quei prodotti invece non esistono, non sono affidabili, oppure non sono, indovinate?, scientifici.

Del resto tutti sanno o dovrebbero sapere, che il mondo scientifico è tutt’altro che concorde su questo argomento. Ma tant’è in questo momento chi si presenta tenendo alta la bandiera della scientificità pro-Ogm suscita più attenzione di chi con curricula altrettanto rispettabili, posizioni accademiche indiscusse e valanghe di pubblicazioni all’attivo, ritiene che quei prodotti non siano una scelta opportuna per la nostra agricoltura, per la nostra economia e  –  nel senso più complesso e completo  –  per la salute dei nostri ecosistemi.

Quello che mi diverte osservare, però, è che a fronte di tanta agitazione a mezzo stampa, le aziende produttrici non fiatano. Il New Yorker si lancia, con sacro furore, contro una persona che ha un nome e un cognome, la mia amica e compagna di tante riflessioni e battaglie, Vandana Shiva; una senatrice della nostra repubblica si schiera a supporto di quanto scritto da quella rivista; ma mentre tutti si scaldano così tanto, le voci dei protagonisti non si sentono.

D’altronde questa è la principale caratteristica delle multinazionali che si occupano del nostro cibo (e spesso anche delle malattie correlate, quindi dei nostri farmaci): non si sanno i nomi dei responsabili delle scelte che fanno. Se la fondazione Navdanya prende una posizione, trovare Vandana Shiva è la cosa più semplice del mondo, si fa un numero di telefono e lei risponde di sé e di quel che ha fatto o deciso. Quando invece parliamo di Monsanto, Syngenta, Bayer sembra di parlare di società anonime, non si sa chi c’è, cosa pensa, cosa vuole e che progetti ha, perché non c’è modo di associare un nome a un’azione. Questo, se ci penso bene, non mi piace affatto. Perché in generale un po’ di trasparenza e rintracciabilità, quando si parla di cibo, farebbe piacere, a tutti i livelli, etichette comprese.

Ma  –  per quanto possa sembrare paradossale  –  tutto quel silenzio ha anche un lato positivo. Le multinazionali, parrebbe, tacciono ma ascoltano. Nel mese di agosto, la Monsanto ha comunicato al mondo che visto che in generale le popolazioni europee non sembrano propense al consumo di Ogm e che non c’è un forte appoggio politico, l’azienda, in Italia, si concentrerà sulle varietà di mais non Ogm, studiando varietà per l’agricoltura convenzionale, con particolare attenzione al risparmio idrico. Così la situazione è abbastanza surreale: da un lato i giornali si fanno in quattro per difendere gli Ogm in Italia, gli “scienziati veri” gli danno una mano, alcuni agricoltori arrivano addirittura a seminare illegalmente mais Ogm con tutto quel che ne consegue in termini di provvedimenti e  –  ancora!  –  spazi sui giornali, e tutto questo senza prendere mai in considerazione le volontà, chiaramente espresse, dei cittadini; dall’altro l’azienda che dovrebbe beneficiare di tanto scalmanarsi in sua difesa che fa? Prende atto dell’ostilità del pubblico italiano e dice d’accordo, cambiamo strategia, in Italia lavoreremo sul mais convenzionale. È interessante, come fenomeno.
Le ragioni del no agli Ogm in agricoltura, si basano su considerazioni più complesse e articolate del ritornello “fa male/non fa male”, “conviene/ non conviene”: esse riguardano un modello di agricoltura, alimentazione, ecologia, solidarietà, sviluppo, cultura ed economia che abbiamo già raccontato mille volte e che viene praticato ogni giorno, sia dagli agricoltori sia dai consumatori sia dalle tantissime associazioni della task force per un’Italia libera da Ogm le quali, e tra queste c’è Coldiretti, lavorano per proteggere filiere compromesse anche da normative insensate. Sono ragioni che riguardano da vicino un modo rispettoso, prudente e gentile non solo di fare reddito, ma anche di fare scienza.

Chi porta ad esempio la Spagna dimentica la significativa quota di biodiversità che questa nazione ha perso aprendo alle coltivazioni Ogm e con essa la sua immagine nel campo agroalimentare di qualità. La Francia ha infatti detto no agli Ogm proprio per difendere le sue produzioni tipiche, fonte economica importante. Negli stessi Stati Uniti il dibattito sull’inutilità di queste coltivazione è in costante crescita. Così come cresce in ogni parte del mondo la produzione di mangimi Ogm free , e la questione del benessere animale trova sempre più consensi e buone pratiche. Tutti questi comportamenti fanno parte di un pensiero scientifico in grande espansione.

Ma la ragione principale si chiama sovranità alimentare, ed è una bellissima espressione, coniata quasi vent’anni fa da La Via Campesina, per indicare il diritto di ogni paese (e dunque dei suoi cittadini, del suo popolo) ad avere il controllo politico su quel che si coltiva e si mangia sul proprio territorio, cioè a decidere le proprie politiche agricole in base alle proprie necessità nutrizionali, economiche, culturali ed ecologiche. Questo diritto è fondamentale per il benessere di un popolo, quel benessere che non si misura con il Pil ma con strumenti ben più accurati e  –  lasciatemelo dire  –  scientifici: si misura andando a rilevare la quantità di glifosato presente nelle acque di falda, si misura monitorando le incidenze di determinati tipi di tumori, si misura rilevando le competenze alimentari diffuse tra le giovani generazioni, si misura in termini di identità, quella stessa identità che rende così economicamente rilevante il nostro made in Italy, il quale  –  e parlo da gastronomo  –  non si valuta all’atto della vendita o della degustazione, non inizia quando ci si siede a tavola davanti a un piatto. Il made in Italy inizia quando un agricoltore decide cosa seminare e sceglie un seme che a sua volta ha una storia, un’identità e un legame con un luogo.

Veronesi: “Cari nemici degli Ogm vi prego ripensateci quei semi migliorano la vita dell’uomo”

L’oncologo: l’uso in agricoltura previene le malattie e in futuro permetterà di sfamare un mondo in cui saremo sempre più numerosi

“Veronesi assassino”, così dicevano i cartelli con cui mi accolse un drappello di manifestanti, uno dei primi giorni in cui, come Ministro della Sanità, arrivavo in Piazzale dell’Industria a Roma. Di fronte al mio stupore, i miei collaboratori mi spiegarono che l’accusa era dovuta alle posizioni che avevo preso il giorno prima a favore dell’impiego della genetica in agricoltura.

Ho riflettuto molto su quel cartello e mi sono reso conto che il problema non poteva essere che culturale. Era il 2000 e la grande rivoluzione della genetica della metà del secolo scorso ancora non era stata compresa, accettata e fatta propria dalla gente. E ancora non lo è, come dimostra il dibattito a cui sono intervenuti Elena Cattaneo e Carlo Petrini, a seguito dell’intervista di Vandana Shiva. In effetti la decodifica del Dna ha messo in discussione la nostra concezione dell’uomo e del pianeta, attraverso tre grandi sorprese.

La prima è che la struttura della vita è estremamente semplice: ci sono quattro basi azotate – Adenina, citosina, guanina e timina – che si uniscono in gruppi di tre, per comporre le 64 triplette che, legandosi fra loro, formano quei circa 20 aminoacidi alla base della struttura di ogni organismo vivente. È come se esistesse un alfabeto di sole 4 lettere che, combinate prima in parole e poi in frasi, scrivono l’intero libro della vita.

La seconda sorpresa è che questa semplice struttura è comune a ogni forma vivente, dal filo d’erba all’elefante: tutto è composto dalle stesse 4 basi azotate e la differenza fra un uomo e un insetto o un virus è di pochi geni. La terza sorpresa è più che altro una conseguenza delle prime due. Se tutti i Dna sono sostanzialmente uguali, è facile trasferire un gene da uno all’altro.

Così nacque negli anni ’80 l’idea di effettuare un trasferimento genico per far fronte al bisogno di aumentare la disponibilità di insulina per la cura del diabete, una malattia in aumento nel mondo occidentale. Così è stato isolato il gene che produce insulina nell’uomo ed è stato trasferito in un batterio, l’Escherichia Coli, un organismo che si moltiplica molto velocemente, producendo a bassissimi costi e in grandi quantità l’insulina transgenica che ha risolto il problema di migliaia di malati.

Dopo questa esperienza, è stato spontaneo per la scienza pensare di applicare il principio del trasferimento genico al miglioramento delle piante per aumentare la qualità dell’alimentazione umana. Un’esperienza molto significativa in questo senso è quella realizzata da Ingo Potrikus, ricercatore dell’università svizzera e inventore del Golden Rice. Potrikus ha studiato il fenomeno della cecità molto diffusa nei bambini orientali, ed ha capito che era dovuta ad una carenza di vitamina A. Ha quindi inserito il gene che produce questa vitamina nel Dna del riso, ottenendo un prodotto transgenico, il Golden Rice, che ha risolto quasi integralmente il gravissimo problema della cecità infantile in quei Paesi.

In seguito la ricerca su come utilizzare la genetica per nutrire la popolazione mondiale è diventata via via sempre più urgente. Basta pensare che gli esseri umani da sfamare sulla Terra sono già 7 miliardi e saranno 9 miliardi fra poche decine di anni, a cui vanno aggiunti 4 miliardi di animali da allevamento. Il mondo vegetale non si può moltiplicare agli stessi ritmi, e dunque dobbiamo trovare come assicurare la sopravvivenza della vita sul pianeta. La scienza si sta impegnando con tutte le sue forze. Anche in Italia. Per esempio Chiara Tonelli, genetista dell’università di Milano ha messo a punto, tramite trasferimento genico, una pianta che può crescere anche in climi desertici, sfidando la siccità.

Nella mia attività di oncologo ho toccato con mano il potere buono della genetica applicata all’agricoltura. Ho studiato a lungo l’azione cancerogena dell’aspergillus flavus, un fungo che si sviluppa nei climi caldi (in Africa si trova nelle arachidi) e che produce le aflatossine, potenti agenti all’origine di molti tumori, in particolare quello del fegato. Quando in Italia, intorno al 2003, furono ritirate diverse derrate di latte perché contenevano tracce di aflatossine ho ripreso questa linea di studio e ho scoperto la causa di questa tossicità. Il nostro mais, quando cresce in un clima molto caldo, viene attaccato dalla piralide, un parassita che scava caverne all’interno del fusto in cui si insedia facilmente l’aspergillus, producendo le temibili tossine. Il mais diventa o cibo per l’uomo (la polenta per esempio) oppure mangime per le mucche che, infettate, producono latte contaminato.
Negli Stati Uniti hanno trovato il modo di inserire un gene nel mais che lo rende resistente alla piralide, senza dover utilizzare gran quantità di pesticidi, che possono essere comunque tossici per l’uomo. Un intervento ottimo per l’economia e la salute, che però nel nostro Paese non ha potuto essere realizzato. Perché? È una questione di cultura, appunto, che deve sempre accompagnare il progresso della scienza perché i suoi risultati non appaiano lontani dal fine ultimo della ricerca scientifica, che è il miglioramento della qualità di vita dell’uomo. Se questo fine è ben chiaro, appare assurdo opporsi per principio all’applicazione della genetica in agricoltura e sembra invece ragionevole studiare, per ogni prodotto cosiddetto Ogm, il rapporto rischio-beneficio. Spero che il dibattito aperto su queste pagine dia un contributo significativo in questa direzione.

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