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di Alfredo Morganti – 13 luglio 2016
Dice D’Alema che De Benedetti, con le sue critiche a Renzi, sembra ormai dissentire dal suo stesso gruppo editoriale. E in effetti è così. Oggi De Marchis, per dire, nel suo solito retroscena, riprende la polemica Renzi-D’Alema e cita l’attacco sferrato dal premier toscano alla privatizzazione di Telecom, presuntamente compiuta dal governo guidato dal lider Maximo. Il giornalista riprende anche la replica di D’Alema, ma tagliata dal riferimento a quella privatizzazione, e ridotta al semplice contrattacco su Banca Etruria. Così facendo, l’accusa di aver privatizzato in termini svantaggiosi il gruppo telefonico si rafforzava, visto che essa non sembrava avesse ricevuto nessuna controreplica dell’interessato. Silenzio-assenso, quindi. Non solo. In un occhiello ben visibile, l’accusa di aver privatizzato è addirittura virgolettata in questi termini: “D’Alema ha venduto Telecom facendo un regalo ai capitani coraggiosi” (ossia alla cordata di Colaninno). Dice proprio così: ‘venduto’. Come se essa appartenesse allo stesso D’Alema e lui ne disponesse a piacimento, da privato cittadino. Voi potreste ribattere, con ciò, che il titolista potrebbe aver travisato le parole di Renzi. In definitiva sarebbe stato proprio quest’ultimo il danneggiato dal travisamento, perché il premier non avrebbe usato un termine forte come ‘venduto’, ma quello più tecnico di ‘privatizzato’. Egli sarebbe vittima, in sostanza, di una forzatura giornalistica.
No invece. L’occhiello, in realtà, aggrava la posizione di D’Alema agli occhi di chi non legge l’articolo per intero ma si contenta dell’occhiello stesso. Da quest’ultimo apprende che ‘D’Alema ha venduto Telecom”. Peggio, non ha solo venduto, ma ha fatto un ‘regalo’ a Colaninno. Il lettore medio di Repubblica, che non è dalemiano, vede così confermate le proprie supposizioni su D’Alema ‘intelligente, ma infido e arrogante’. E tutto l’effetto della polemica è fare in modo che l’accusa renziana (falsa peraltro, perché la privatizzazione l’ha fatta il Governo Prodi, non quello di D’Alema) fosse confermata in toto per assenza di replica, in special modo agli occhi dei semplici lettori di occhielli. De Marchis, aggiungo, è lo stesso giornalista che ha scritto in campagna elettorale alcuni articoli su D’Alema, sostenendo che brigava per abbattere Renzi, organizzava complotti in Puglia o votava 5stelle a Roma (anche qui un mero processo alle intenzioni, nient’altro). Così che, questa ultima perla antidalemiana sul destino della Telecom fa il paio con la precedente e quasi si spiega con essa e con i veleni rimasti dopo quegli articoli contro l’ex premier, a cagione dei quali io ho personalmente cessato di essere un lettore di ‘Repubblica’. Ma questa è storia mia.
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L’intervista di Massimo D’Alema a La Gazzetta del Mezzogiorno di Giuseppe DE TOMASO
Presidente Massimo D’Alema, ieri è iniziata una settimana delicata per il governo. Ci saranno problemi nelle aule parlamentari, in particolare al Senato?
Il governo sta incontrando difficoltà con i suoi alleati centristi, che – forse per la loro vocazione al martirio – appaiono destinati a un compito di servizio, con relativo licenziamento finale.
Prevede una crisi di governo a breve?
Non prevedo nulla. Il grado di passività e masochismo di transfughi e reclutati vari è sotto gli occhi di tutti. Non so se in loro ci sarà un moto di resipiscenza.
Si nota un nuovo approccio di Renzi sulla legge elettorale. Non si oppone a chi vuole cambiarla, numeri permettendo. Che significa?
Anche nulla. Il presidente del Consiglio comincia a rendersi conto che il risultato del referendum è tutt’altro che scontato. Finora contava su un facile successo all’insegna dell’antipolitica. Ora, sull’onda della politicizzazione e della personalizzazione del voto da lui promosse, il successo non appare più così scontato. Renzi cerca di ridurre le difficoltà, aprendo uno spiraglio su una possibile modifica della legge elettorale che, per alcuni, può essere la condizione ineludibile per un voto favorevole al referendum. Naturalmente, la discussione verrebbe rinviata al post-referendum.
Può essere un buon compromesso?
Credo che il grado di credibilità del premier, quando assume impegni di questo tipo, sia stato già misurato. Con esiti sempre negativi.
Si ipotizza lo spacchettamento del referendum, ma i tempi sono ristretti per questa soluzione.
L’articolo 138 della Costituzione concepisce il ricorso alla maggioranza parlamentare semplice, con successivo referendum popolare, come una forma estrema, residuale, di revisione della Carta. La forma normale di modifica costituzionale poggia su una vasta base di consensi. La Costituzione è di tutti. L’idea di procedere a modifiche, con maggioranze ridotte, è accettabile solo per riforme limitate, circoscritte. Viceversa, l’idea di incidere in profondità nel testo costituzionale attraverso una maggioranza neppure suffragata dal voto popolare, mi sembra un’autentica forzatura.
Questione di metodo, allora?
Non è un problema di bon ton, ma di certezza delle regole. Le Costituzioni, nel mondo, non cambiano ogni giorno. Alcune durano da centinaia di anni. Se invece una maggioranza costituzionale si trasforma in una maggioranza ordinaria (e viceversa), si può creare un andazzo pericoloso: nulla impedirebbe alla futura maggioranza parlamentare, che potrebbe risultare diversa dall’attuale, di cambiare nuovamente la Costituzione.
Ma dicendo no a tutto, si obietta, non si cambia mai nulla e il Paese si dimostra irriformabile.
Non è così. È vero il contrario. In Italia sono state varate 14 riforme costituzionali, tra cui quelle del Titolo Quinto e dell’articolo 81 sull’equilibrio strutturale di bilancio, quelle dell’immunità parlamentare e del giusto processo. Inoltre, per due-tre volte è stata cambiata la legge elettorale, poi la legge dei sindaci. Tutti i governi hanno messo mano alla riforma pensionistica fino al caos odierno. E potrei continuare. È stata varata una quantità impressionante di riforme. Semmai il Paese ha sofferto, spesso, per cattive riforme che hanno richiesto altre riforme correttive. La tesi che, in Italia, non cambi nulla, è un luogo comune.
La riforma costituzionale, però, è un tentativo di semplificare le decisioni.
Macché. È un pasticcio. Dà luogo a un Senato di serie B che non si capisce come potrà svolgere il suo ruolo. Sarà un Senato composto da consiglieri regionali, sindaci… Non si comprende come loro potranno trascorrere cinque giorni a settimana a Roma a occuparsi delle leggi…
La riforma riduce i poteri delle Regioni e interviene sui danni provocati dalla riforma del Titolo Quinto.
Può darsi che la riforma del Titolo Quinto abbia esagerato nel dare poteri alle Regioni, ma trovo punitiva, nei loro confronti, la nuova impostazione. Qui siamo di fronte a un impressionante ritorno al centralismo: si sottraggono alle Regioni compiti già previsti dalla Costituzione del 1948.
Però le materie concorrenti tra Stato e Regioni creavano confusione e contenziosi. Arricchivano gli studi professionali degli amministrativisti.
Con la riforma costituzionale, la situazione si aggraverà. Non essendo chiara la distinzione dei compiti tra Camera e Senato, il contenzioso Stato-Regioni si estenderà anche fra Camera e Senato. Non oso pensare a quello che accadrà per la legge finanziaria, per le norme che dovranno essere esaminate tra i due rami del Parlamento. Una paralisi infinita. Con altri ricorsi alla Corte Costituzionale.
A Bari sono nati i comitati di D’Alema per il no al referendum?
Non esistono i comitati di D’Alema. Ho incontrato persone della sinistra e della società civile, anche non iscritte al Pd, che vogliono impegnarsi per il No e che hanno voluto vedermi. È importante che una parte della sinistra si schieri per il No, con le sue ragioni.
Il Fronte del No è variegato, il che fa discutere.
Già. Anche il Sì è composito. Al No si riproverà di fare la campagna con Brunetta. Ma il Sì fa maggioranza con Verdini. Più grave il secondo caso, mi pare, perché comporta ben altra solidarietà.
Ma che succede se vince il No, oltre alle dimissioni annunciate da Renzi: nessuna riforma?
L’argomento migliore per la campagna a favore del No alla riforma sarebbe la lettura del testo da approvare: un volumetto di cui non si capisce nulla, scritto in puro politichese. La mia proposta di riforma è scritta in italiano comprensibile e si può approvare in sei mesi. Tre brevi articoli. Uno: riduzione, bilanciata, di 100 senatori e 200 deputati. Due: via al rapporto fiduciario, da parte del governo, solo con la Camera, il che è l’essenza della fine del bicameralismo perfetto. Terzo articolo (per evitare la navetta tra le due assemblee parlamentari): nel caso in cui Camera o Senato apportino modifiche a un testo di legge, tali modifiche devono essere esaminate, entro un tempo limitato, da un’apposita commissione, formata da deputati e senatori. Se l’intesa non c’è, passa il testo prevalente, che viene sottoposto al voto delle due Camere, con sbarramento a ulteriori emendamenti. La mia proposta di riforma ha ottenuto l’apprezzamento di molti costituzionalisti e anche del coordinamento dei senatori del centrodestra per il No. Come si vede, è una proposta di riforma che allarga il consenso anziché restringerlo. Parte come una riforma condivisa, ci sarebbe tutto il tempo per vararla entro il 2018.
Renzi avrebbe detto che se vincesse il Sì l’Italia otterrebbe più flessibilità nei conti pubblici dagli organismi europei.
Bah. L’Italia ha già ottenuto flessibilità. Certo, se viene utilizzata per togliere l’Imu e per distribuire 500 euro ai 18enni, sperando nel loro voto, questa flessibilità non aiuta lo sviluppo del Paese. Il livello degli investimenti pubblici nell’ultimo governo di centrosinistra era di 44-45 miliardi di euro l’anno. Col governo Renzi è sceso a 29 miliardi. Senza investimenti in infrastrutture non c’è crescita. Non si fa sviluppo con le mance. Il governo dovrebbe battersi per togliere dal calcolo del Patto di Stabilità gli investimenti pubblici.
Renzi ha detto che lascia la politica in caso di vittoria del No al referendum. Che succede dopo?
Sì, ha detto che lascia. Ma lui spesso non fa quello che dice. Come hanno dimostrato le sue rassicurazioni a Enrico Letta. Se dovessimo prendere per buone le dichiarazioni di Renzi sulle conseguenze del referendum in caso di vittoria del No, dico solo che si farebbe un altro governo. C’è in Italia un numero cospicuo di personalità in grado di guidare l’esecutivo. Nessun diluvio senza Renzi.
Circolano i nomi di Padoan…
Non faccio ipotesi. La decisione tocca al presidente della Repubblica. È evidente che noi saremmo obbligati a fare un governo. Uno, per approvare riforme serie. Due, per non andare alle elezioni con leggi elettorali diverse.
Che succede nel Pd se Renzi perde il referendum?
Renzi ha detto che non lascia la segreteria. Ma lui ha sostenuto che solo il leader del partito può essere capo del governo.
Nello Statuto del Pd è previsto il doppio incarico (premiership e leadership).
Sì, è così. Allora, quando dice la verità Renzi? Quando dice di volersi dimettere da premier in caso di sconfitta o quando dice che resta alla guida del partito e di conseguenza anche del governo, per via della disposizione statutaria? Comunque, io non chiedo le dimissioni di Renzi. Chiedo solo una buona riforma al posto di una cattiva riforma. La caduta di una cattiva riforma costituzionale renderebbe automatico il varo di una nuova legge elettorale.
Ma Lei è favorevole al doppio incarico, al modello Westminster? Esiste in tutt’Europa.
Il modello Westminster si fondava su un bipolarismo che non esiste più. I movimenti anti-establishment sorti in questi anni hanno destabilizzato il panorama politico europeo. Come possiamo affrontare questa novità, queste nuove aspettative attraverso marchingegni che riducono la base elettorale dei governi? La stessa Francia non è più governabile pur disponendo di regole del gioco che hanno ben funzionato per decenni. Come si fa a eludere il problema del consenso popolare? Per tornare al Pd, se Renzi perde si farà un congresso vero, una discussione politica seria nel Pd.
Il M5S è contro la riforma costituzionale, ma non vuole cambiare l’Italicum. Che farà?
I grillini hanno due interessi: avere l’Italicum e avere Renzi come antagonista. Con queste condizioni sono sicuri di vincere, come ha spiegato Pagnoncelli. Certo, sono allettati dallo status quo, ma hanno anche detto che le riforme sono sbagliate. Bisogna vedere se saranno coerenti con il loro pensiero politico o con le loro convenienze.
Presidente, il Fatto Quotidiano le chiede di chiarire questa frase a lei attribuita dal Corriere della Sera: «Renzi è un uomo del Mossad. Bisogna sconfiggerlo». La frase è stata rilanciata nel resoconto di un’inchiesta su un presunto complotto ai danni di Renzi e dell’ad dell’Eni, Descalzi.
Non ho mai detto che Renzi è una spia del Mossad. Che Renzi abbia un rapporto speciale con il primo ministro Netanyahu è notorio. Ma è un fatto politico, non spionistico. Che in Lussemburgo ci sia una società in cui i migliori amici di Renzi sono soci di alcuni Fondi israeliani, è noto. Il che è stato scritto e documentato. Ma ciò, ripeto, non significa che il presidente del Consiglio sia una spia. Trovo solo un po’ strano il rapporto tra la destra israeliana e l’attuale governo italiano.
Lei ha accusato l’ambasciatore israeliano a Roma, Noar Gilon, di interpretare «in modo molto attivo e dinamico il suo ruolo, partecipando – e non solo con articoli – alla vita politica del nostro Paese». Può chiarire a cosa si riferiva?
L’ambasciatore israeliano è una figura singolare, sulla cui storia ci sarebbe molto da riflettere.
Tra Emiliano e Renzi è in atto un conflitto, su tutti i temi, che dura da oltre un anno. Emiliano farà l’anti-Renzi?
Non lo so. Dovrebbe chiedere a Emiliano se intende sfidare Renzi. Io penso che l’infelice sortita del presidente del Consiglio a favore del non voto al referendum sulle trivelle abbia creato qualche problema fra loro. Quando il referendum sulle trivelle non raggiunse il quorum, il commento di Renzi fu volgare e arrogante. Un’offesa verso i pugliesi, non solo verso il presidente della Regione.
Emiliano ha una prospettiva nazionale?
Emiliano ha dichiarato più volte che il suo compito è governare la Regione. Mi sembra una di quelle tautologie da considerare con molta serietà.
Il governo sta rassicurando i risparmiatori, ma c’è inquietudine nel Paese.
La difficoltà delle banche è figlia della crisi economica e, a volte, di quelle cattive gestioni tese a privilegiare, nella concessione del credito, l’amicizia all’affidabilità imprenditoriale. A tal proposito, vorrei fare questa considerazione. C’è un’indagine per insider trading nei riguardi dell’ingegner De Benedetti che avrebbe detto di aver acquistato azioni perchè informato da Palazzo Chigi sull’imminente decreto per le Popolari. De Benedetti dice di aver realizzato una modesta speculazione, guadagnando 600mila euro. Cosa che consolerà i piccoli risparmiatori che hanno perso tutto o moltissimo. Non ho nulla contro di lui. Siccome in quella circostanza si verificò una manovra speculativa di straordinarie proporzioni, non di soli 600mila euro, domando se qualcuno sta indagando sulla vicenda. I magistrati fanno discorsi interessanti, a volte comizi. Ma le indagini su questioni così rilevanti si fanno?
De Benedetti non è tenero su Renzi. Luna di miele finita?
La luna di miele del suo gruppo editoriale con Renzi continua in modo impressionante. Evidentemente l’editore si è dissociato dal suo gruppo editoriale. Interessante. Ho trovato molto bella e ricca la sua intervista a Cazzullo.