Autore originale del testo: Joseph Stiglitz
Fonte: facciamosinistra.blogspot.it
Url fonte: http://facciamosinistra.blogspot.it/2017/04/primo-una-politica-contro-le.html
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di Joseph Stiglitz
Testo adattato (con autorizzazione) da Ripensare il Capitalismo: Economia e politica per la crescita sostenibile e inclusiva, A cura di Michael Jacobs e Mariana Mazzucato, (Political Quarterly Monograph Series), WILEY Blackwell. 9 settembre 2016
A metà del XX secolo, si era portati a credere che ‘una marea in salita solleva tutte le barche’: la crescita economica avrebbe portato ad aumenti di ricchezza e a standard di vita più elevati per tutti i settori della società. A quel tempo, c’era qualche prova dietro tale affermazione. Nei paesi industrializzati durante i decenni 1950 e 1960 ogni gruppo sociale avanzava, e quelli con i redditi più bassi hanno avuto un miglioramento più rapido. Nel dibattito economico e politico che ne seguì, la ‘ipotesi della marea crescente’ evolvette in un’idea molto più specifica, in base alle quali politiche regressive e politiche economiche che favoriscono le classi più ricche finirebbero per beneficiare tutti. Le risorse date ai ricchi darebbero inevitabilmente luogo al fenomeno del ‘trickle down‘ per gli altri.
E’ importante chiarire che questa versione del ‘trickle-down’ vecchio stile non discende dall’esperienza del dopoguerra. L’ipotesi della ‘marea crescente’ era piuttosto coerente con una teoria del ‘trickle-up’: dare più soldi a chi sta in basso potrà recare benefici a tutti; o con una teoria ‘build- out a partire dalla metà’: aiutare coloro che stanno al centro, così che quelli al di sopra e al di sotto ne beneficeranno.
Oggi la tendenza ad una maggiore uguaglianza dei redditi che ha caratterizzato il dopoguerra è stata invertita. La disuguaglianza è ormai in rapido aumento. Contrariamente all’ipotesi della ‘marea crescente’, la marea ha sollevato soltanto i grandi yacht, e molte delle barche più piccole sono state lasciate andare a urtare gli scogli. Questo è avvenuto in parte perché la straordinaria crescita dei redditi in cima ha coinciso con un rallentamento economico. La nozione del ‘trickle-down’ – insieme alla sua giustificazione teorica, la teoria della produttività marginale – necessita di un urgente ripensamento. La teoria economica deve cercare di spiegare sia il motivo per cui si genera l’ineguaglianza, sia di giustificare perché contrastarla sarebbe vantaggioso per l’economia nel suo complesso. Questo saggio esamina criticamente entrambe le affermazioni. Vi si forniscono spiegazioni alternative della disuguaglianza, con particolare riferimento alla teoria della rendita e all’influenza dei fattori istituzionali e politici, che hanno plasmato il mercato del lavoro e i sistemi di remunerazione. E mostra che, lungi dall’essere necessaria o positiva per la crescita economica, l’eccessiva disuguaglianza tende a portare ad un peggioramento della performance economica. Alla luce di questo, si sostiene la necessità di una serie di politiche che aumenterebbero sia l’equità che il benessere economico.
Spiegare la disuguaglianza
Come possiamo spiegare queste tendenze preoccupanti? Tradizionalmente, c’è stato poco consenso tra gli economisti e i pensatori sociali riguardo a ciò che provoca la disuguaglianza. Nel XIX secolo, essi hanno cercato di spiegare e anche di giustificare o criticare gli evidenti alti livelli di disparità. Marx ha parlato di sfruttamento. Nassau Senior, il primo titolare della cattedra di economia presso l”All Souls College’ di Oxford, ha parlato dei rendimenti del capitale come di un pagamento per l’astinenza dei capitalisti, per il loro non consumare. Non si trattava di sfruttamento del lavoro, ma la giusta ricompensa per la loro rinuncia al consumo. Gli economisti neoclassici hanno sviluppato la teoria della produttività marginale, con la quale hanno sostenuto che la remunerazione, più in generale, riflette i diversi contributi individuali per la società.
Mentre la teoria dello sfruttamento suggerisce che quelli in alto ottengono quello che hanno togliendo da quelli che stanno in fondo, la teoria della produttività marginale suggerisce che quelli in alto ottengono solo ciò per cui contribuiscono. I sostenitori di questo punto di vista si sono spinti oltre: hanno suggerito che in un mercato competitivo, lo sfruttamento (ad esempio a causa del potere di monopolio o di discriminazione) semplicemente non poteva persistere, e che il contributo del capitale causerebbe un aumento dei salari, così che i lavoratori starebbero meglio grazie al risparmio e alle innovazioni di quelli che stanno in alto.
Più in particolare, la teoria della produttività marginale, sostiene che, in virtù della concorrenza, tutti i partecipanti al processo di produzione guadagnano una remunerazione uguale alla propria produttività marginale. Questa teoria associa ai redditi più elevati un maggior contributo alla società. Questo può giustificare, per esempio, un trattamento fiscale preferenziale per i ricchi: tassando i redditi alti finiremmo per privarli della ‘giusta ricompensa’ per il loro contributo alla società, e, cosa ancora più importante, li scoraggeremmo dall’esprimere il loro talento. Inoltre, più essi contribuiscono – più duramente lavorano e più risparmiano – meglio è per i lavoratori, i cui salari aumenteranno di conseguenza.
Il motivo per cui queste idee a giustificazione della disuguaglianza hanno preso piede è che contengono un briciolo di verità. Alcuni di coloro che hanno realizzato una grande quantità di denaro hanno contribuito notevolmente alla nostra società, ed in alcuni casi ciò che hanno ottenuto per se stessi non è che una frazione del loro contribuito alla società. Ma questa è solo una parte della storia: ci sono altre possibili cause di disuguaglianza. La disparità può derivare dallo sfruttamento, dalla discriminazione e dall’esercizio del potere di monopolio. Inoltre, in generale, la disuguaglianza è fortemente influenzata da molti fattori istituzionali e politici – relazioni industriali, istituzioni del mercato del lavoro, stato sociale e sistemi fiscali, per esempio – in grado sia di funzionare in modo indipendente dalla produttività sia di incidere sulla produttività.
Che la distribuzione del reddito non possa essere spiegata solo con la teoria economica standard è suggerita dal fatto che la distribuzione ‘ante imposte e trasferimento di reddito’ si differenzia nettamente da paese a paese. Francia e Norvegia sono esempi di paesi dell’OCSE che vengono gestiti in modo da resistere alla tendenza crescente della disuguaglianza. I paesi scandinavi hanno un livello molto più elevato di pari opportunità, indipendentemente da come questa viene valutata. La teoria della produttività marginale si presta ad avere un’applicazione universale. La teoria neoclassica ha insegnato che si potevano spiegare i risultati economici senza alcun riferimento, per esempio, alle istituzioni. Essa ha sostenuto che le istituzioni di una società sono semplicemente una facciata; il comportamento economico è guidato dalle leggi basate sulla domanda e l’offerta, e che il lavoro dell’economista è quello di comprendere queste forze sottostanti. Così, la teoria standard non riesce a spiegare come in paesi con una tecnologia simile, la produttività e il reddito pro capite possono differire così tanto nella loro distribuzione ‘prima delle imposte’.
L’evidenza, però, è che le istituzioni contano. L’analisi standard non considera che non bisogna fermarsi ad analizzare l’effetto delle istituzioni, ma le istituzioni stesse possono esse essere spiegate, a volte dalla storia, a volte dalle relazioni di potere e, talvolta, da forze economiche (come le asimmetrie informative). Così, uno stimolo importante per economia moderna è quello di comprendere il ruolo delle istituzioni nel creare e plasmare i mercati. La domanda allora è: qual è il ruolo e l’importanza delle ipotesi alternative? Non v’è un modo semplice di fornire una risposta quantitativa chiara, ma i recenti avvenimenti e gli studi hanno dato un peso convincente alle teorie che pongono maggiore attenzione sulla rendita e sullo sfruttamento.
La rendita e i redditi più alti
Il termine ‘rendita’ è stato originariamente utilizzato per descrivere il profitto della terra, dal momento che il proprietario del terreno riceve tali pagamenti in virtù della sua proprietà e non grazie a qualcosa che egli fa. Il termine è stato poi ampliato per includere i profitti di monopolio (o rendite di monopolio) – il reddito che si riceve semplicemente dal controllo di un monopolio – e in generale i rendimenti derivanti da diritti di proprietà simili. Così, rendita significa ottenere un reddito non come ricompensa per la creazione di ricchezza, ma percependo una quota maggiore della ricchezza che sarebbe stata prodotta in ogni caso.Infatti, i redditieri in genere distruggono la ricchezza, come risultato del loro togliere agli altri. Un monopolista che si fa sovrapagare per il suo prodotto prende soldi da quelli che sta sovraccaricando e allo stesso tempo distrugge valore. Per ottenere il suo prezzo di monopolio, deve limitare la produzione.
La crescita dei redditi più elevati negli ultimi tre decenni, è stata realizzata principalmente in due categorie professionali: quella del settore finanziario (sia dirigenti che professionisti) e quella dei dirigenti non finanziari. L’evidenza suggerisce che le rendite hanno contribuito su larga scala al forte aumento dei redditi in entrambe.
Consideriamo in primo luogo i dirigenti in generale. Che l’aumento dei loro compensi non riflette la produttività è indicato dalla mancanza di correlazione tra retribuzione per la gestione e ‘performance’ aziendale. Già nel 1990 Jensen e Murphy, studiando un campione di 2.505 CEO in 1.400 aziende, hanno scoperto che le variazioni annue delle compensi dei dirigenti non riflettono i cambiamenti nelle ‘performance’ aziendali. Da allora, il lavoro di Bebchuk, Fried e Grinstein ha mostrato che l’enorme aumento della remunerazione dei dirigenti degli Stati Uniti a partire dal 1993, non può essere spiegato con la ‘performance’ d’impresa o della struttura industriale e che, invece, è principalmente il risultato di difetti nella ‘corporate governance’, che hanno in pratica permesso ai manager di stabilire il proprio stipendio. Mishel e Sabadish hanno esaminato 350 aziende, mostrando che la crescita nella remunerazione dei loro amministratori delegati ha di gran lunga superato l’aumento del loro valore di borsa. La maggior parte dei compensi andati ai dirigenti mostra sorprendentemente una sostanziale crescita positiva anche nei periodi in cui i valori nel mercato azionario sono diminuiti.
Ci sono altri motivi per dubitare della teoria della produttività marginale standard. Negli Stati Uniti il rapporto tra lo stipendio di un CEO e quello del lavoratore medio è aumentato da circa 20 a 1 nel 1965 fino 354 a 1 nel 2012. Non c’è stato nessun cambiamento nella tecnologia che potrebbe spiegare un cambiamento nella produttività relativa di quella grandezza – e nessuna spiegazione del perché il cambiamento nella tecnologia si sarebbe verificato negli Stati Uniti e non in altri paesi simili. Inoltre, la strutturazione dei sistemi di remunerazione aziendale ha reso evidente che questi non sono destinati a premiare lo sforzo: tipicamente, sono legati all’andamento del titolo, che sale e scende a seconda di molti fattori che sono al di fuori del controllo del CEO, come i tassi di interesse di mercato e il prezzo del petrolio. Sarebbe stato facile pianificare un sistema di incentivi con meno rischi semplicemente basando gli stipendi sulla relativa ‘performance’, rapportata a quella di un gruppo di società comparabili. Gli sforzi dell’amministrazione Clinton per introdurre sistemi fiscali che incoraggiassero la cosiddetta remunerazione delle prestazioni (senza imporre condizioni per garantire che la paga fosse in realtà legata alla ‘performance’) e obblighi di informazione (che avrebbero consentito agli operatori nel mercato di valutare meglio l’entità delle azioni associata ai piani di ‘stock option’ dei CEO) hanno chiarito la linea del fronte: coloro che avevano spinto per un trattamento fiscale favorevole e contro la divulgazione delle informazioni avevano ben compreso che queste disposizioni avrebbero facilitato maggiori disparità di reddito.
Specificamente riguardo all’aumento dei redditi ‘al top’ nel settore finanziario, l’evidenza è ancora più sfavorevole a spiegazioni basate sulla teoria della produttività marginale. Uno studio empirico da Philippon e Reshef mostra che negli ultimi due decenni, i lavoratori del settore finanziario hanno goduto di un enorme ‘pay-premium’ rispetto a settori affini, che non può essere spiegato con i soliti contributi alla produttività (come ad esempio il livello di istruzione o la capacità). Secondo le loro stime, i compensi del settore finanziario sono stati circa il 40 per cento superiori al livello che si sarebbe ottenuto in concorrenza perfetta.
È anche ben documentato che le banche considerate ‘troppo grandi per fallire’ godono di una rendita a causa di una garanzia statale implicita. Gli investitori sanno che queste grandi istituzioni finanziarie possono contare, in effetti, su una garanzia del governo, e quindi sono disposti a fornire loro fondi a tassi di interesse più bassi. Le grandi banche possono così prosperare non perché siano più efficienti o forniscano un servizio migliore, ma perché sono in effetti sovvenzionate dai contribuenti. Ci sono altre ragioni per il profitto al di sopra della normalità che va alle grandi banche e ai loro banchieri. In alcune delle attività del settore finanziario, si è lontano dalla concorrenza perfetta. Pratiche anticoncorrenziali nelle carte di debito e di credito hanno amplificato il potere di mercato pre-esistente per generare enormi rendite. Anche la mancanza di trasparenza (ad esempio nel mercato ombra dei Credit Default Swaps (CDS) e dei derivati) ha generato grandi rendite, con il mercato dominato da pochi protagonisti. Non è sorprendente che le rendite ottenute in questo modo dalle grandi banche si siano tradotte in redditi più alti per i loro manager e azionisti.
Nel settore finanziario, ancor più che in altri settori, i compensi dei dirigenti nel periodo successivo alla crisi hanno fornito prove convincenti contro la teoria della produttività marginale come spiegazione degli stipendi più alti: i banchieri che avevano portato le loro imprese e l’economia globale sull’orlo della rovina hanno continuato a ricevere un alto tasso di compenso che in nessun modo può essere legato al loro contributo sociale o addirittura al loro contributo alle aziende per cui lavoravano (entrambi i quali sono risultati negativi). Per esempio, uno studio che si è concentrato su Bear Sterns e Lehman Brothers nel 2000- 2008 ha trovato che i top manager esecutivi di questi due giganti avevano portato a casa enormi quantità di compensi ‘performance-based’ (stimati in circa $ 1 miliardo per Lehman e $ 1.4 miliardi di dollari per la Bear Stearns), che non sono state recuperati quando le due imprese sono crollate.
Ancora, un altro elemento di prova a sostegno dell’importanza della rendita per spiegare l’aumento delle disuguaglianze è fornito da quegli studi che hanno dimostrato che gli aumenti delle imposte ‘al vertice’ non comportano diminuzioni dei tassi di crescita. Se questi redditi fossero stati il risultato dei relativi sforzi, ci si sarebbe dovuto attendere che quelli più ‘in alto’ avrebbero reagito lavorando meno intensamente, con effetti negativi sul PIL.
L’aumento delle rendite
Tre aspetti sorprendenti dell’evoluzione della maggior parte dei paesi ricchi negli ultimi trentacinque anni sono (a) l’aumento del rapporto ricchezza-reddito; (b) la stagnazione del salario mediano; e (c) la mancata diminuzione di rendimento del capitale. Le teorie neoclassiche, in cui la ‘ricchezza’ viene identificata con il ‘capitale’, suggerirebbero che l’incremento del capitale dovrebbe essere associato ad una diminuzione del rendimento del capitale e un aumento dei salari. Il mancato aumento dei salari dei lavoratori non qualificati è stata attribuito da alcuni (soprattutto nel 1990) al cambiamento tecnologico ‘skill-biased’, che ha aumentato il premio stabilito dal mercato per le competenze. Quindi, coloro con competenze qualificate vedrebbero i loro salari aumentare, e quelli senza competenze vedrebbe i loro salari cadere. Ma questi ultimi anni hanno visto un calo dei salari ricevuti anche dai lavoratori qualificati. Inoltre, come le mie ultime ricerche mostrano, i salari medi sarebbero dovuti aumentare, anche se alcuni salari sono diminuiti. Ci deve essere qualcos’altro.
C’è una spiegazione alternativa e più plausibile. Essa si basa sull’osservazione che le rendite sono in aumento (a causa dell’aumento degli affitti dei terreni, dei diritti di proprietà intellettuale e del potere di monopolio). Di conseguenza, il valore di quei beni che sono in grado di fornire rendite ai loro proprietari – quali terreni, case e alcuni diritti finanziari è proporzionalmente in aumento. Vi è quindi un incremento generale della ricchezza, ma questo non porta a un aumento della capacità produttiva dell’economia o della produttività marginale media o del salario medio dei lavoratori. Al contrario, i salari possono ristagnare o addirittura diminuire, perché l’aumento della quota delle rendite è avvenuto a scapito dei salari.
Le attività che stanno guidando l’aumento della ricchezza complessiva, infatti, non sono beni prodotti dal capitale. In molti casi, non sono nemmeno ‘produttivi’ in senso comune; essi non sono direttamente connessi con la produzione di beni e servizi. Con più ricchezza in tali attività, ve ne sarà meno investita nel settore del capitale produttivo. Nel caso di molti paesi di cui abbiamo i dati (come la Francia) ci sono prove che questo è proprio il caso: una parte sproporzionata del risparmio negli ultimi anni è andata nell’acquisto di abitazioni, che non ha aumentato la produttività dell’economia ‘vera e propria’.
Le politiche monetarie che portano a bassi tassi di interesse possono aumentare il valore di queste attività ‘improduttive’ – un incremento del valore della ricchezza che non è accompagnato da un aumento del flusso di beni e servizi. Per lo stesso motivo, una bolla può portare ad un aumento di grande ricchezza, per un periodo prolungato di tempo, di nuovo con possibili effetti negativi sullo ‘stock’ di capitale produttivo ‘reale’. Infatti, è facile per le economie capitaliste generare tali bolle (un fatto che dovrebbe essere già evidenziato dai dati storici, ma che è stato confermato anche nei modelli teorici). Mentre negli ultimi anni c’è stata un ‘correzione’ nella bolla immobiliare (e nel sottostante prezzo dei terreni), non possiamo essere sicuri che ci sia stata una correzione completa. L’aumento del rapporto fra ricchezza e reddito può ancora avere a che fare più con un aumento del valore delle rendite che con un aumento della quantità di capitale produttivo. Coloro che hanno accesso ai mercati finanziari e sono in grado di ottenere credito da parte delle banche (in genere quelli già benestanti) possono acquistare le relative attività, e utilizzarle come garanzia. Come la bolla si forma, la loro ricchezza aumenta e aumenta la disuguaglianza nella società. Anche in questo caso, le politiche amplificano la disuguaglianza: un trattamento fiscale favorevole alle plusvalenze permette rendimenti particolarmente alti al netto delle imposte su tali attività e aumenta la ricchezza soprattutto dei ricchi, che in modo sproporzionato proprio tali attività posseggono (e comprensibilmente, dal momento che essi sono meglio in grado di sopportare i rischi associati).
Il ruolo delle istituzioni e della politica
La grande influenza della rendita nella crescita dei redditi più alti mina la teoria di distribuzione del reddito della produttività marginale. Il reddito e la ricchezza di quelli ‘in alto’ vengono almeno in parte ottenuti a spese degli altri – proprio la conclusione opposta a quella presupposta dal ‘trickle-down‘. Quando, per esempio, un monopolista riesce ad aumentare il prezzo della merce che vende, abbassa il reddito reale di tutti gli altri. Questo suggerisce che i fattori istituzionali e le politiche svolgono un ruolo importante nell’influenzare le quote relative di capitale e lavoro.
Come abbiamo notato in precedenza, negli ultimi tre decenni, i salari sono cresciuti molto meno della produttività – un dato di fatto che è difficile da conciliare con la teoria della produttività marginale, ma che è coerente con un aumento dello sfruttamento. Questo suggerisce che l’indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori è stato un fattore rilevante. E’ probabile che sindacati deboli e la globalizzazione asimmetrica, dove il capitale è libero di muoversi mentre il lavoro lo è molto meno, abbiano contribuito in modo significativo alla grande ondata della disuguaglianza.
Il modo in cui è stata gestita la globalizzazione ha portato ad abbassare i salari, in parte perché il potere contrattuale dei lavoratori è stato vanificato. Con un capitale altamente mobile – e con costi bassi – le imprese possono semplicemente dire ai lavoratori che se non accettano salari più bassi e condizioni di lavoro peggiori, la società si sposterà altrove. Per vedere come la asimmetrica globalizzazione può influenzare il potere contrattuale, immaginiamo, per un attimo, come sarebbe il mondo se ci fosse la libera mobilità del lavoro, ma non la mobilità del capitale. I paesi sarebbero in concorrenza per attirare i lavoratori. Prometterebbero buone scuole e un buon ambiente, così come tasse basse sui lavoratori. Ciò potrebbe essere finanziato da tasse elevate sul capitale. Ma non è questo il mondo in cui viviamo.
Nella maggior parte dei paesi industrializzati si è registrato un calo delle sindacalizzazione e della sua influenza; questo declino è stato particolarmente intenso nel mondo anglosassone. Ciò ha creato uno squilibrio di potere economico e un vuoto politico. Senza la protezione offerta da un sindacato, i lavoratori se la sono passata peggio di quanto sarebbe stato altrimenti. L’incapacità dei sindacati di tutelare i lavoratori contro la minaccia della perdita del lavoro rappresentata dal trasferimento dei posti di lavoro all’estero ha contribuito a indebolire il loro potere. Ma anche la politica ha svolto un ruolo importante, esemplificato dalla intromissione del Presidente Reagan nello sciopero dei controllori del traffico aereo negli Stati Uniti nel 1981 o dalla battaglia di Margaret Thatcher contro il sindacato nazionale dei minatori nel Regno Unito.
Anche le politiche delle banche centrali, concentrate sull’inflazione, sono quasi certamente state un ulteriore fattore che ha contribuito alla crescente disuguaglianza e all’indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori. Non appena i salari accennano ad aumentare, e soprattutto se aumentano più velocemente del tasso di inflazione, le banche centrali innalzano i tassi d’interesse. Il risultato è un maggiore livello medio di disoccupazione e un effetto di ribasso sui salari: con l’economia che va in recessione, i salari reali spesso cadono; e tale politica monetaria è stata pianificata per garantire che essi non recuperino.
Le disuguaglianze sono influenzate non solo dagli assetti istituzionali legali e formali (come la forza dei sindacati), ma anche dal costume sociale, che può anche accettare una protensione verso la discriminazione.
Allo stesso tempo, i governi sono stati lassisti nel far rispettare le leggi anti-discriminazione. Contrariamente al suggerimento degli economisti favorevoli al libero mercato, ma in linea con l’osservazione anche non sistematica di come i mercati si comportano in realtà, la discriminazione è stato un aspetto persistente delle economie di mercato, e aiuta a spiegare gran parte di ciò che in fondo è successo. La discriminazione assume molte forme – nei mercati immobiliari, nei mercati finanziari (almeno una delle grandi banche americane ha dovuto pagare una multa salata per le sue pratiche discriminatorie nel periodo che ha condotto alla crisi) e nei mercati del lavoro. C’è una vasta letteratura che spiega come tale discriminazione persiste.
Naturalmente, le forze del mercato – la domanda e l’offerta di lavoratori qualificati, interessata da cambiamenti nella tecnologia e nell’istruzione – svolgono un ruolo importante, anche se tali forze sono parzialmente influenzate dalla politica. Ma anziché bilanciarsi a vicenda, con il processo politico intento a smorzare l’aumento delle disuguaglianze di reddito e di ricchezza nei periodi in cui le forze di mercato hanno portato a crescenti disparità, nei paesi ricchi le forze di mercato e la politica hanno operato insieme per aumentare disuguaglianza.
Il prezzo della diseguaglianza
L’evidenza non è quindi solidale con le spiegazioni della disuguaglianza focalizzate esclusivamente sulla produttività marginale. Ma cosa si può dire dell’argomento secondo cui abbiamo bisogno della disuguaglianza per crescere?
Una prima giustificazione per l’affermazione che la disuguaglianza è necessaria per la crescita si concentra sul ruolo del risparmio e degli investimenti nella promozione della crescita, e si basa sulla constatazione che coloro collocati ‘in alto’ risparmiano, mentre quelli in basso spendono tutti i loro guadagni. I paesi con una quota elevata di salari, quindi, non sarebbero in grado di accumulare capitale più rapidamente di quelli con una bassa quota dei salari. L’unico modo per generare i risparmi necessari per la crescita nel lungo termine sarebbe quindi quello di garantire un reddito sufficiente per i ricchi.
Questo argomento è particolarmente inappropriato oggi, dato che il problema è, per usare i termini di Bernanke, un eccesso di risparmio globale. Ma anche in quei casi in cui la crescita sarebbe determinata da un aumento del risparmio nazionale, ci sono modi migliori per creare risparmio rispetto alla crescente disuguaglianza. Il governo può tassare il reddito dei ricchi, e utilizzare i fondi per finanziare sia gli investimenti privati che pubblici; tali politiche riducono le diseguaglianze dei consumi e del reddito disponibile, e portano a maggiori risparmi nazionali (adeguatamente misurati).
Un secondo argomento è centrato sul popolare equivoco che quelli ‘in alto’ sono i creatori di posti di lavoro, e dare più soldi a loro equivarrebbe quindi a generare più posti di lavoro. I paesi industrializzati sono pieni di persone dall’imprenditorialità creativa in tutte le fasce di distribuzione del reddito. Ciò che crea posti di lavoro è la domanda: quando c’è la domanda, le imprese creano i posti di lavoro per soddisfare tale domanda (soprattutto se siamo in grado di far sì che il sistema finanziario lavori nel modo in cui dovrebbe, cioè fornire credito alle piccole e medie imprese).
Infatti, come una ricerca empirica del FMI ha dimostrato, la disuguaglianza è associata con l’instabilità economica. In particolare, i ricercatori del FMI hanno dimostrato che le fasi di crescita tendono ad essere più brevi quando la disparità di reddito è elevata. Questo risultato vale anche quando vengono prese in considerazione le altre determinanti della durata della crescita (come ‘shock esterni’, i diritti di proprietà e le condizioni macroeconomiche): in media, una diminuzione percentuale di 10 punti della disuguaglianza aumenta della metà la durata prevista di una fase di crescita. Il quadro non cambia se ci si concentra sui tassi medi di crescita nel medio termine, invece che sulla durata della crescita. Recenti ricerche empiriche pubblicate dall’OCSE dimostrano che la disuguaglianza del reddito ha un effetto negativo e statisticamente significativo sulla crescita di medio termine. Si stima che in paesi come gli Stati Uniti, il Regno Unito e l’Italia, la crescita economica globale sarebbe stata migliore da sei a nove punti percentuali se negli ultimi due decenni le disuguaglianze di reddito non fossero aumentate.
Esistono diversi canali attraverso i quali l’ineguaglianza danneggia l’economia. In primo luogo, la disuguaglianza porta a una debole domanda aggregata. Il motivo è facile da capire: chi sta ‘in basso’ spende una frazione maggiore del suo reddito rispetto a chi sta in alto. Il problema può essere aggravato da risposte sbagliate delle autorità monetarie a questa domanda debole. Abbassando i tassi di interesse e allentando le norme regolatorie, la politica monetaria dà facilmente luogo a una bolla speculativa, lo scoppio della quale porta a sua volta alla recessione.
Molte interpretazioni della crisi attuale hanno infatti sottolineato l’importanza dei problemi distributivi. La crescente disuguaglianza avrebbe comportato minori consumi ma gli effetti della politica monetaria espansiva e delle normative permissive hanno portato ad una bolla immobiliare e ad un ‘boom’ dei consumi. E’ stata, insomma, solo la crescita del debito che ha permesso al consumo di essere sostenuto. Ma era inevitabile che la bolla sarebbe poi scoppiata. Ed era inevitabile che, quando ciò è successo, l’economia sarebbe finita in una recessione.
In secondo luogo, la disuguaglianza dei risultati è associata con la disuguaglianza delle opportunità. Quando quelli ‘in fondo’ alla distribuzione del reddito vivono il grande rischio di non esprimere il loro potenziale, l’economia paga il prezzo non solo della domanda più debole di oggi, ma anche di una minore crescita in futuro. Con quasi un bambino americano su quattro che cresce in condizioni di povertà, e con molti di loro messi di fronte non solo alla mancanza dell’opportunità di istruzione, ma anche alla mancanza di accesso a un’adeguata alimentazione e alla salute, le stesse prospettive di lungo termine del paese vengono messe in pericolo.
In terzo luogo, le società con maggiore disuguaglianza sono meno propense a fare investimenti pubblici che migliorano la produttività, come ad esempio nel settore dei trasporti pubblici, delle infrastrutture, della tecnologia e dell’istruzione. Se i ricchi credono di non avere bisogno di queste strutture pubbliche, e temono che un governo forte il quale potrebbe aumentare l’efficienza dell’economia potrebbe allo stesso tempo impiegare i suoi poteri per ridistribuire il reddito e la ricchezza, non è sorprendente che la quota di investimento pubblico sia più bassa nei paesi con maggiore disuguaglianza. Inoltre, in tali paesi la politica fiscale e le altre politiche economiche rischiano di incoraggiare le attività a favore del settore finanziario rispetto alle attività più produttive. Negli Stati Uniti oggi i rendimenti della speculazione finanziaria a lungo termine (plusvalenze) sono tassati circa la metà in confronto al lavoro, e i derivati speculativi hanno la priorità, in caso di fallimento, rispetto ai lavoratori. Le leggi fiscali incoraggiano la creazione di lavoro all’estero piuttosto che in patria. Il risultato è un’economia più debole e più instabile. Riformare queste politiche – e attuare altre politiche per ridurre la rendita – equivarrebbe non solo a ridurre le disuguaglianze; equivarrebbe a migliorare le prestazioni economiche.
Va notato che l’esistenza degli effetti negativi della disuguaglianza sulla crescita è di per sé una prova contraria rispetto alla spiegazione odierna della disuguaglianza basata sulla teoria della produttività marginale. La premessa di base della produttività marginale è che coloro ‘in alto’ stanno semplicemente ricevendo il giusto compenso per i loro sforzi, e che il resto della società trae beneficio dalle loro attività. Se così fosse, dovremmo aspettarci di vedere una maggiore crescita insieme alla crescita dei redditi più alti. In realtà, si vede esattamente l’opposto.
Invertire la disuguaglianza
Una vasta gamma di politiche può contribuire a ridurre le disuguaglianze. Le politiche dovrebbero essere volte a ridurre le disuguaglianze sia fra i redditi che si formano nel mercato che fra i redditi ‘post – tassazione e trasferimenti’. Le regole del gioco hanno un importante ruolo nel determinare la distribuzione nel mercato, nel prevenire la discriminazione, nella creazione dei diritti alla contrattazione per i lavoratori, nel frenare i monopoli e i poteri dei CEO che sfruttano gli azionisti delle imprese, e nell’impedire al settore finanziario di sfruttare il resto della società. Queste regole sono state in gran parte riscritte nel corso degli ultimi trent’anni, in modi che hanno portato a più disuguaglianza e a una più povera prestazione economica complessiva. Ora, devono essere riscritte ancora una volta per ridurre le disuguaglianze e rafforzare l’economia, per esempio scoraggiando la visione a breve termine che è divenuta dilagante nel settore finanziario e societario.
Le riforme consistono in più sostegno per l’istruzione, a partire dalla scuola materna; aumento del salario minimo; rafforzamento dei crediti d’imposta sul reddito da lavoro; rafforzamento della voce dei lavoratori sul posto di lavoro, anche attraverso i sindacati; e più efficace applicazione delle leggi anti-discriminazione. Ma ci sono quattro aree nelle quali in particolare si può intervenire per affrontare il livello di disuguaglianza che esiste ora.
In primo luogo, i compensi dei dirigenti (soprattutto negli Stati Uniti) sono diventati eccessivi, ed è difficile da giustificare la progettazione di sistemi di indennizzo dei ‘managers’ basati su ‘stock option’. I dirigenti non dovrebbero essere ricompensati per il miglioramento delle prestazioni nel mercato azionario di una società, un miglioramento a cui essi non prendono parte. Se la Federal Reserve abbassa i tassi di interesse che porta a un aumento dei prezzi di borsa, gli amministratori delegati non dovrebbero ottenerne un bonus. Se i prezzi del petrolio scendono e così i profitti e il valore delle azioni delle compagnie aeree aumentano, gli amministratori delegati di queste compagnie non dovrebbero ottenere un ‘bonus’. C’è un modo semplice per tener conto di questi guadagni (o perdite) che non sono attribuibili agli sforzi dei dirigenti: basare la retribuzione delle prestazioni sui risultati relativi delle imprese in circostanze analoghe. La progettazione di sistemi retributivi con queste caratteristiche è stata ben compresa per più di un terzo di secolo, eppure i dirigenti delle grandi aziende hanno quasi scientificamente resistito a queste intuizioni. Essi si sono concentrati più sui vantaggi delle carenze nel governo societario e nella mancanza di comprensione di questi problemi da parte di molti azionisti per cercare di migliorare la loro posizione retributiva, guadagnando quando i prezzi delle azioni sono in aumento ed anche quando i prezzi delle azioni scendono. Nel lungo periodo, come abbiamo visto, la ‘performance’ economica ne ha risentito.
In secondo luogo, le politiche macroeconomiche sono necessarie per il mantenimento della stabilità economica e della piena occupazione. L’alta disoccupazione penalizza più gravemente chi sta ‘in basso’ e al ‘centro’ nelle fasce di distribuzione del reddito. Oggi, i lavoratori stanno subendo tre volte: l’alto tasso di disoccupazione, i salari bassi e i tagli ai servizi pubblici, dato che le entrate pubbliche sono inferiori di quanto sarebbero se le economie funzionassero bene.
Come abbiamo sostenuto, l’alta disuguaglianza ha indebolito la domanda aggregata. Alimentare le bolle dei prezzi delle attività attraverso la politica monetaria iper-espansiva e la deregolamentazione non è l’unica risposta possibile. Più investimenti pubblici in infrastrutture, tecnologia e istruzione servirebbero a rilanciare la domanda e alleviare la disuguaglianza, e questo sarebbe di stimolo alla crescita nel lungo e nel breve periodo. Secondo un recente studio empirico del FMI, investimenti in infrastrutture pubbliche ben progettati aumenterebbero il livello del prodotto sia nel breve che nel lungo termine, in particolare quando l’economia è in funzione sotto il suo potenziale. E non vi è bisogno di aumentare il debito pubblico in termini di PIL: progetti infrastrutturali ben realizzati, sarebbero in grado di ripagarsi come l’aumento del reddito (e quindi con le entrate fiscali) e l’aumento della spesa sarebbe più che compensato.
In terzo luogo, gli investimenti pubblici in istruzione sono fondamentali per affrontare la disuguaglianza.Un fattore determinante del reddito dei lavoratori è il livello e la qualità dell’istruzione. Se i governi garantiscono parità di accesso all’istruzione, allora la distribuzione dei salari rifletterà la distribuzione delle capacità (tra cui la possibilità di beneficiare dell’istruzione) e la misura in cui il sistema di istruzione tenta di compensare le differenze di abilità e di ambiente. Se, come negli Stati Uniti, quelli con genitori ricchi hanno di solito accesso a un’istruzione migliore, quindi la disuguaglianza della propria generazione viene trasmessa alla seguente, in ogni generazione la disparità di retribuzione rifletterà il reddito e le disuguaglianze relative dell’ultima.
In quarto luogo, i necessari investimenti pubblici potrebbero essere finanziati attraverso la tassazione equa e piena dei redditi da capitale. Ciò contribuirà ulteriormente a contrastare l’aumento della disuguaglianza: può contribuire a ridurre il rendimento netto del capitale, in modo che i capitalisti che risparmiano gran parte del loro reddito non vedranno la loro ricchezza accumularsi ad un ritmo più veloce rispetto alla crescita dell’economia globale, con conseguente crescente disuguaglianza di ricchezza. Disposizioni particolari che prevedono la tassazione favorevole delle plusvalenze e dei dividendi non solo distorcono l’economia, ma, con la stragrande maggioranza dei benefici che vanno a chi sta molto ‘in alto’, aumentano le disuguaglianze. Allo stesso tempo, impongono enormi costi di bilancio: 2 triliardi di dollari dal 2013-2023 negli Stati Uniti, secondo il Congressional Budget Office. L’eliminazione delle disposizioni speciali per plusvalenze e dividendi, insieme alla tassazione delle plusvalenze sulla base della competenza, e non solo sui risultati, è la riforma più ovvia della normativa fiscale, che migliorerebbe la disuguaglianza e genererebbe la crescita di notevoli quantità di introiti. Ve ne sono molte altre, come un buon sistema di successione e una fiscalità sugli immobili efficacemente applicata.
Ridefinire la performance economica
Siamo abituati a pensare che vi sia un ‘trade-off’: potremmo raggiungere una maggiore uguaglianza, ma solo a scapito dei risultati economici globali. Ora è chiaro che, dati gli estremi di disuguaglianza raggiunta in molti paesi ricchi e il modo in cui questi sono stati generati, maggiore uguaglianza e migliori risultati economici sono complementari.
Siamo abituati a pensare che vi sia un ‘trade-off’: potremmo raggiungere una maggiore uguaglianza, ma solo a scapito dei risultati economici globali. Ora è chiaro che, dati gli estremi di disuguaglianza raggiunta in molti paesi ricchi e il modo in cui questi sono stati generati, maggiore uguaglianza e migliori risultati economici sono complementari.
Ciò è particolarmente vero se ci concentriamo su misure appropriate di crescita. Se usiamo i riferimenti sbagliati, ci impegneremo per le cose sbagliate. Come la Commissione internazionale sulla misurazione della ‘performance’ economica e del progresso sociale ha sostenuto, v’è un crescente consenso globale che il PIL non fornisce una buona misura della ‘performance’ economica complessiva. Ciò che conta è se la crescita è sostenibile, e se la maggior parte dei cittadini vede i loro standard di vita in miglioramento anno dopo anno.
Dall’inizio del nuovo millennio, l’economia degli Stati Uniti e quella di molti altri paesi avanzati chiaramente non sono state soddisfacenti. Infatti, per tre decenni, i redditi reali mediani sono stati essenzialmente in fase di stagnazione. Nel caso degli Stati Uniti, i problemi sono ancora peggiori e si sono stati manifestati ben prima della recessione: negli ultimi quattro decenni, i salari medi sono rimasti fermi, anche se la produttività è decisamente aumentata.
Come questo saggio ha sottolineato, un fattore chiave alla base delle attuali difficoltà economiche dei paesi ricchi è la crescente disuguaglianza. Abbiamo bisogno di concentrarci non su ciò che sta accadendo in media – come il PIL ci porta a fare – ma su come l’economia sta funzionando per il cittadino tipico, che si riflettte per esempio nel reddito disponibile mediano. Le persone si preoccupano della salute, dell’equità e della sicurezza, eppure le statistiche del PIL non riflettono il loro declino. Una volta che questi e altri aspetti del benessere sociale sono presi in considerazione, la recente prestazione nei paesi ricchi appare molto peggiore.
Le politiche economiche necessarie per cambiare tutto questo non sono difficili da individuare. Abbiamo bisogno di più investimenti in beni pubblici; una migliore ‘corporate governance’, leggi antitrust e anti-discriminazione; un sistema finanziario meglio regolato; diritti dei lavoratori più intensi; politiche fiscali più progressive e più trasferimenti. Con la riscrittura delle regole che disciplinano l’economia di mercato secondo questi criteri, è possibile raggiungere una maggiore uguaglianza sia prima che dopo la tassazione, la distribuzione e il trasferimento di reddito, e quindi una più solida ‘performance’ economica.
Testo adattato (con autorizzazione) da Ripensare il Capitalismo: Economia e politica per la crescita sostenibile e inclusiva, A cura di Michael Jacobs e Mariana Mazzucato, (Political Quarterly Monograph Series), WILEY Blackwell. 9 settembre 2016
Traduzione per facciamosinistra! a cura di Sergio Farris