di Antonio Gaeta 25 ottobre 2015
Immaginate un film horror, con la più lugubre scenografia, studiata appositamente per suscitare tutto il più profondo sgomento, che gli esseri umani provavano (e in molti casi ancora provano) di fronte all’ignoto della morte. Non parliamo, poi, della partecipazione diretta alle operazioni belliche dello Stato Islamico (IS) e contro di esso ! Oppure della guerra infinita in Afghanistan, contro i Talebani che, come già i Vietcong di Ho Chi Minh , non saranno mai sconfitti ! Oggi abbiamo le prove che l’ “horror mortis” nacque con le guerre imposte dai popoli patriarcali, giacché prima del loro predominio, l’umanità non conosceva conflitti armati.
Naturalmente, la morte non violenta era per tutti una realtà quotidiana, che accompagnava la vita dei vivi, come lo é per noi oggi.. Tuttavia, le culture paleolitiche e neolitiche non conoscevano la “paura della morte” ! Nessun reperto archeologico ci parla di essa ! Anzi l’archeologia ci dice del contrario: “La morte per tutti era una prosecuzione della vita in altro modo, all’interno del clan di appartenenza”. Tutti i vivi appartenenti allo stesso clan alimentavano i defunti, con sacrifici rituali e con offerte spontanee, in attesa che ritornassero in vita.
Come é ampiamente documentato nel maestoso volume di Marija Gimbutas* (Il linguaggio della dea – Edizioni Venexia), colei che avrebbe permesso questa “ricongiunzione” dei defunti con i viventi sarebbe stata la Grande Madre: ovvero la Dea che dona e che toglie la vita, per poi restituirla (rinascita).
Essa era venerata all’interno della più o meno estesa comunità matriarcale, nella quale era rappresentata dalla matriarca del clan. Sia la Dea sia la matriarca (ciascuna nei propri gradi d’importanza politico-religiosa) sintetizzavano la trinità “vergine-ninfa-vegliarda”, a capo di ogni tipo di raduno politico e di ogni sorta di rito religioso !
Il potere sugli altri componenti del villaggio o del clan (sempre detenuto con grande spirito religioso e allo stesso tempo comunitario) derivava loro dal riconoscimento universale del possesso del grande dono della “rinascita”: quello che permetteva ai vivi di sapere che, anche dopo morti, sarebbero tornati ai loro cari !
Come avrebbe potuto spaventare la morte, vissuta in questo modo del tutto naturale ?
Questo era il fulcro del potere matriarcale, prima che le guerre seminassero tra gli esseri umani il cosiddetto ”horror mortis”. Quindi, anche prima che i popoli portatori di questo orrore creassero ovunque i presupposti per la nascita e lo sviluppo di civiltà fondate sul valore della “arte bellica” e delle relative tecniche di dominio sociale, basate sull’uso della violenza, anche in tempi di pace.
Tuttavia, come dimostrano con metodo interdisciplinare Marie Koenig, Richard Fester, David Jonas, Doris F. Jonas, R. Graves, Michael Dames, James Mellaart, Marija Gibuntas, Heide Goettner-Abendroth e tanti altri, la vera Storia delle prime culture umane, risalenti al Mesolitico e al Neolitico, é storia di profondo rispetto per tutti gli esseri viventi. La garante di tale fondamentale e vitale rispetto era la donna. Quindi, il suo potere si fondava sugli aspetti magici della Natura, che essa rappresentava presso le comunità degli uomini.
Molti indizi dicono che questi fondamenti sociali risalgono già al Paleolitico. Nel precedente articolo sull’argomento espongo come Marie Koenig avvia una ricerca, che sarà poi grandiosamente sviluppata e approfondita da Marija Gimbutas (per l’Europa) e da Heide Goettner-Abendroth (per il resto del mondo). Entrambe queste studiose hanno scoperto i tratti comuni della Dea, esistenti presso tutte le tribù, prima della desertificazione dell’Asia centrale e la conseguente invasione dei popoli “Indo-europei”, portatori di guerra.
In particolare, esse hanno capito che occuparsi degli antenati era (e presso molte culture é tuttora) compito delle donne, che in cambio speravano di ricevere anime, da poter far rinascere. Il luogo deputato al culto degli antenati era il focolare nel centro della casa del clan, che secondo le antiche credenze rappresentava il passaggio verso l’altro mondo. La casa costituiva il centro spirituale della vita ritualizzata del clan, governato dalle donne, che erano esse stesse il fulcro sociale e spirituale della piccola (come della più estesa) comunità !
Un significativo esempio del mito della Grande Madre é costituito dalla dea Kalì. Ho visitato 2 volte il santuario di Dakshin Kali all’estremità meridionale della valle di Kathmandu. La 1′ volta quando, dopo aver visto la città, dichiarai di essere nato in questo luogo, ora purtroppo oggetto di devastazione, a causa di un dirompente terremoto. La 2′ volta, leggendo il resoconto di Heide Goettner-Abendtroth.
Essa scrive che i Newar considerano il santuario così antico, che nessuno, nemmeno gli archeologi, può conoscerne le origini. Kali é considerata la divinità primordiale (come la greca Gea, ndr). Agni, un principe newari che le fa da guida, dice che, per quanto la versione indù associ Kali a Shiva (come la greca Hera a Zeus, ndr), la grande dea non é mai stata la consorte di un dio (esattamente come scrive R. Graves di Hera, ndr) !
«E’ evidente – aggiunge l’antropologa – che “Ka Li” é una variante della parola khasi “Ka Blei” (dea primordiale della natura). Non é un caso che la grande città all’imbocco del Gange, a sud della montagna del Khasi, sia chiamata “Cal(i)cutta” (città di Kali) e sia uno dei suoi più importanti luoghi di adorazione» !
Inoltre, concordo pienamente con lei allorché scrive ancora: «Quando gli Europei parlano del culto di Kali, l’antica e grande dea dell’India, lo descrivono come una pratica estremamente cruenta. Nel santuario di Dakshin Kali mi sono resa conto di quanti malintesi e pregiudizi occidentali si nascondono dietro questa stupida opinione…»
Il santuario é molto diverso dai templi induisti e buddhisti. Ancora oggi esso conserva la forma di un antico tempio naturale, completamente all’aperto. Per raggiungere la dea occorre scendere in basso, dove due ruscelli s’incontrano e si gode della frescura dell’ombra, nella verde penombra della gola. Il tempio é circoscritto soltanto da un basso muro, decorato con un arco, che si erge e dal quale pende una yoni (vulva), anch’essa dorata, simbolo dell’utero e del potere femminile. Poi, i serpenti, che simboleggiano i fecondi corsi d’acqua, ovvero il sangue incontaminato della terra (terra-ferma), che dona le energie divine del femminile. Il potere delle profondità (quello che spaventa molto gli uomini), la trasformazione della vita in morte e della morte in vita é percepito come shakti, ovvero energia della dea Kali, la cui piccola scultura é appesa a un muro retrostante, con otto braccia e una collana di teschi al collo (che si pensa siano decorazioni aggiunte dalla cultura patriarcale induista, per esaltare il terrore dei maschi).
A Pashupatinath, invece, la dea Kali appare nelle sembianze di Guhyeshvari e assume le caratteristiche amorevoli di una materna rigeneratrice. Il tempio più antico del grande complesso é dedicato a Vatsala Kali, un aspetto della dea che é sfuggito al processo di bramanizzazione (da Bramha), portato avanti dai popoli indo-europei.
Il rituale che si tiene presso il tempio é molto seguito e amato dalla gente, costituita dai componenti della caste più basse. I festeggiamenti in onore di Vatsala Kali accolgono tutto quello che gli ascetici indù, devoti a Shiva, aborriscono: sacrifici animali, bevande alcoliche, cipolle, aglio, sospensione della regole di casta (imposte dagli invasori) e probabilmente in tempi remoti anche orge pubbliche (come quelle greche in onore di Dioniso, da cui discende il Carnevale, ndr).
La celebrazione si apre con l’incontro di tre dee sorelle, in un luogo segreto: una di loro é Vatsala Kali. La triade divina rappresenta le classiche figure della dea bianca (Maha Saraswati, dea dell’arte e della conoscenza), della dea rossa (Maha Lakshmi, dea dell’amore e dell’abbondanza) e della dea nera (Maha Kali, dea della morte e della rinascita). Il loro incontro speciale é un evidente richiamo al modello della triplice dea della mitologia matriarcale.
Tutto questo é Storia ma anche realtà presente, sebbene legata al simbolismo religioso. Tutto ciò é, però, anche analisi e descrizione antropologica, che invita la ricerca scientifica più accreditata presso le pubbliche istituzioni ad approfondire il vero significato delle scoperte di Bryan Sykes, di cui ho accennato nel precedente articolo “L’antica centralità sociale della donna”, su questa stessa rivista on-line. Anche nelle sue ricerche si affronta il tema della “rigenerazione genetica”che, con riferimento anche alle somiglianze familiari ed etniche, sia pur in altre forme, include quello della rinascita ad opera delle madri comuni !
Mi sono chiesto, infatti, se può avere un significato sociale la biologica perdita dei mitocondri contenuti nella cellula “spermatozoo”, allorché l’uovo della donna é fecondato. Perché sono sufficienti quelli della cellula femminile fecondata ? L’ovocita, inoltre, contiene tutte le sostanze necessarie per la formazione e lo sviluppo dell’embrione. Pertanto, lo spermatozoo agisce soltanto da miccia esplosiva della grandiosa proliferazione delle cellule, tutte caratterizzate dai soli mitocondri femminili, anche quando l’embrione darà vita a un feto maschile. Può avere un significato sociale e culturale anche questo ?
* Alla sua grandiosa opera di raccolta di reperti archeologici cercherò di dare uno spazio web, caratterizzato da immagini da poter ammirare e commentare, nonché dedicare alla cultura della pace.