di Stefano Casarino 1 febbraio 2016
Viviamo ancora nel postmoderno o ne siamo ormai usciti?
È quanto mi sono chiesto a lettura ultimata de “La coscienza di Andrew”(Andrew’s Brain, 2015: la traduzione italiana del titolo, come non si è mancato di osservare, risulta fuorviante) di E.L.Doctorow: lo scrittore statunitense, scomparso a luglio dello scorso anno, è stato esaltato da Frederic Jameson, uno dei massimi “esperti” del postmoderno, come uno degli autori che più e meglio hanno saputo superare tale movimento, secondo Jameson rappresentato sostanzialmente da “tendenza alla superficialità, al citazionismo, alla metanarrazione, al pastiche”, come scrive Luca Briasco nel Manifesto dell’05-04.2015.
Mi sono imbattuto subito dopo nell’agile volumetto “La filosofia postmoderna” (Diogene Multimedia, Bologna 2015) del mio amico Antonio Rimedio, col quale in tempi non troppo remoti ho condiviso le prime “scorribande” su tale non agevole campo, io occupandomene anzitutto ed esclusivamente dal punto di vista letterario e narrativo, lui da quello prettamente filosofico.
E qui, appunto, la prospettiva cambia radicalmente: non più la prosa di Bret Easton Ellis o quella di Paul Auster, ma la riflessione seria e ponderata di Gianni Vattimo e di Jacques Derrida.
Leggere, perciò, quelle pagine dense di concetti e di riferimenti è stato un po’ come riprendere – con grande piacere – i confronti di idee e le conversazioni tra di noi.
E rimeditare sul quel fastidioso prefisso “post”, così ambiguo e depistante.
“Post-moderno”: cioè, “dopo” il moderno? Ma quale moderno, di grazia?
Eppoi, solo “dopo” e non anche “oltre”, con un’idea di superamento non solo cronologico, ma di esasperazione di gusti e maniere?
O magari, addirittura, come sostiene Jürgen Habermas, “post” come “anti”, con una volontà di radicale contrapposizione e di negazione del moderno?
Problemi tuttora aperti, sui quali è bene qui non dilungarsi troppo.
Una cosa è però certa, almeno a parer mio: ben diverse sono (sono state) le strade, le problematiche e le soluzioni – se tali si possono ritenere – del postmoderno letterario da quelle del postmoderno filosofico.
Lì, ad esempio, se, come scrive Rimedio, la postmodernità è la presa d’atto dei limiti della modernità, bisogna anzitutto chiedersi cosa ha sostanziato il concetto di “modernità”.
In prima battuta, si risponde, “l’idea di progresso”: giusto, ma anche qui varrebbe la pena di circoscrivere anche temporalmente il discorso, per non arrivare addirittura a trasformare Schopenhauer o Leopardi in pensatori postmoderni tout court.
Tutto ciò va piuttosto collocato nella crisi del positivismo e del neopositivismo, nel tramonto dell’idea della “centralità della macchina” e della sua sostituzione, ancora semplicemente abbozzata e vaga, con la rete, come giustamente afferma Vattimo: non è solo il trionfo di una nuova, più aggressiva tecnologia, ma è un radicale cambiamento di modalità di apprendimento e di schemi di pensiero.
E in questo, innegabilmente, siamo tuttora immersi.
Il riduzionismo scientista ha ceduto rango e potere alla “complessità” e alla “liquidità” baumaniana, al “metodo non-metodico” di Kuhn e Feyerabend: subentrano anche in filosofia – in letteratura, autori come Borges e Calvino già le avevano introdotte da un pezzo! – la sfida del labirinto, l’eclissi delle metanarrazioni e l’affermazione del gioco.
Il postmoderno è la stagione del decostruzionismo derridiano, dell’”antiumanesimo” e della “morte del soggetto” di Foucault, della “nuova condizione” profetizzata da Lyotard nel suo saggio del 1979 in cui celebrava con entusiasmo la fine della trasmissione “verticale” del sapere dal Maestro ai discepoli e l’avvento di un capillare processo di informazione/formazione reso possibile dal trionfo dell’informatica, con PC e database destinati a rimpiazzare i docenti di ogni genere, senza bisogno di perder tempo a riunirsi in classi e in aule.
Oggi, forse, questa fede incondizionata nella rivoluzione digitale è meno forte, se ne intravvedono limiti e rischi: d’altronde di questi già ci avvertiva nel 1995 Gilles Lipovetsky col suo fortunato saggio “L’era del vuoto. Saggi sull’individualismo contemporaneo”.
Ma, oltre a questi aspetti forse più superficiali, il postmoderno è stato anche altro in filosofia: Rimedio passa in rassegna, con chiarezza di esperto didatta, la “filosofia senza specchi” di Rorty, il riconoscimento della singolarità dell’Altro in Lévinas, le affascinanti riflessioni sul concetto di “ospitalità” in Derrida che ritorna sulla classicità, rileggendo Il Sofista di Platone e l’Edipo a Colono di Sofocle: e fa molto piacere a chi scrive, in questi tempi di furor iconoclasta, di ripudio di tutto ciò che è classico, constatare ancora una volta l’imprescindibilità della grecità e della latinità.
Se il postmoderno nasce dalle ceneri della modernità, allora da quelle ceneri sono nate tante riflessioni, più o meno coerenti e convincenti: nessun sistema filosofico, però, il che non solo non è un male, forse è addirittura una fortuna, almeno a parere di chi scrive.
In filosofia, dunque, il baricentro si è spostato più sull’etica che sulla speculazione.
Perché ci sono altre ceneri che ci interrogano e ci mettono in irreparabile crisi, quelle dei deportati di Auschwitz.
Molto forti – e risonanti di un’eco particolare proprio ora che abbiamo appena celebrato la Giornata della Memoria – sono le pagine conclusive dell’opera di Rimedio, proprio dedicate allo “scandalo di Auschwitz” che approdano a questa conclusione:
Auschwitz dà testimonianza di un drammatico dissidio tra ragione ed etica, «dissidio tra la fase etica (l’infinito) e la frase speculativa (totalità)», che è poi dissidio tra l’Altro inteso come Trascendenza e la Ragione intesa come Identità.
Ma qui non si tratta più di “filosofia postmoderna”.
È il classico (ancora una volta!), eterno interrogativo sul perché ci sia il Male nella storia degli uomini, Male che ogni tanto irrompe in modi inconcepibili e di fronte al quale si può solo restare ammutoliti: sarà anche “banale”, ma è atroce!
E proprio per questo, aldilà di idee e parole, tentare almeno di trovare una conciliazione, un accordo tra l’Io e l’Altro, tra Identità e Trascendenza dev’essere l’imperativo categorico di questi nostri tempi, funestati da ignoranza ed integralismo, da facili fedi nell’ hic et nunc e nella pecunia imperatrix mundi.
E a questo dovrebbero concorrere e dare il loro contributo tutte le umane occupazioni, dall’Arte alla Scienza, dalla Filosofia alla Letteratura.
Perché dall’antiumanesimo di Auschwitz (ma anche di Hiroshima e delle Torri Gemelle e degli attentati di Parigi) nasca quel nuovo umanesimo sostenuto, ad esempio, da Edgard Morin, e del quale, credo, abbiamo tutti più che mai urgente bisogno.