Fonte: facebook
di Alfredo Morganti – 8 settembre 2014
Ilvo Diamanti oggi insiste sulla ‘diversità’ renziana, sul suo manifestare distanza ed estraneità rispetto all’establishment, al sindacato, al suo stesso partito. Tra un po’ anche a se stesso. Una ricerca di diversità perseguita con ostinazione e che frutterebbe, allo stato attuale, ancora il consenso dei cittadini. A cui piace evidentemente chi disdegna la politica, l’attività sindacale, quella imprenditoriale, i partiti, le istituzioni, giù giù fino al grasso che cola dei contratti dei dipendenti pubblici: tutta roba da cui distanziarsi e disintermediarsi al più presto, dicono Nicodemo e Velardi. Eppure. Ancora recentemente Francesco Piccolo è tornato sulla “diversità” berlingueriana e ci ha vinto pure il Premio Strega. E prima di lui una lunghissima sequela di pareri e opinioni che continuano ancor oggi a ripetere a pappardella: bene il primo Berlinguer, quello del compromesso storico, male il secondo, quello che tendeva a marcare le distanze (persino etiche) rispetto al resto. Craxi fu uno dei primi a criticarlo e lo fischiò ai Congressi per questo suo stile politico distanziatore. E tutti a dire: i comunisti avrebbero dovuto abbandonare quel sentimento aristocratico di ostinata diversità rispetto agli altri, anche perché era un sentimento che li faceva perdere. Dovevano essere ‘come TUTTI gli altri’, appunto. Tutti ladri, tutti colpevoli, tutti complici.
Al contrario, oggi ci spiegano che la ‘diversità’ paga, che fa crescere il consenso. Che essere ‘pop’ come Berlinguer (ossia uno che non traduceva la ‘popolarità’ con il grado di consenso nei sondaggi, ma con la vicinanza anche fisica a lavoratori e cittadini realissimi) è sbagliato, e che bisogna invece essere ‘pop’ come lo è Renzi: una specie di oggetto di consumo che si vende attraverso tv e social network, schifando tutto ciò che appaia intermedio e che dunque abbia il potere di ‘filtrare’, condizionare, ‘curvare’ la ‘purezza’ dell’azione politica espressa dalla leadership. Uno scamiciato che vorrebbe cambiare il mondo facendo leva sugli hashtag, su una certa iconografia, sdoganando i codici culturali del calcio e dello showbiz, sventolando la camicia bianca assieme ad altri scriteriati leader della sinistra europea. Uno che probabilmente perde continuamente il filo politico perché deconcentrato dalle notifiche di twitter. Uno che sta con lo smartphone anche a tavola, pure mentre pilucca l’uva. Ma lo sa la Merkel che si fa selfie ovunque? Anche a Palazzo Chigi durante le riunioni con Padoan? E invia tweet già alle 6 e trenta del mattino, e ci sono pure quelli che lo ritwittano con gli occhi ancora ‘appiccicati’ dal sonno?
Quanto e come è davvero diverso Renzi? Da chi marca le distanze? Diciamo subito una cosa: non è vero che la sua sia una sorta di estraneità assoluta. Forse lo è verso la tradizione della sinistra, verso la mediazione parlamentare, verso il sistema dei partiti, verso la rappresentanza sindacale, verso tutti coloro che ‘rappresentino’ qualcosa o qualcuno, e facciano da ‘intermedi’ nel gioco articolato e complesso della politica di governo. Ma non lo è di sicuro verso chi dovrebbe essere il suo avversario principale, Berlusconi, verso la destra scombiccherata di questo Paese, verso l’ennesima declinazione italiana del populismo mediatico, verso una deriva post-culturale che è la vera cifra di questi anni novisti. Perché oggi la politica è davvero ‘pop’ (mi riferisco ai quadri di organizzazione e al governo), è davvero declinata in termini semplicistici, elementari, riduzionisti, un po’ come vuole la scena mediatica, un po’ a causa di studi mal condotti in gioventù e anche dopo.
E così. Tra gli ultimi post-dirigenti politici e quelli antichi c’è un abisso culturale. Ci sono temi, argomenti, anche di politica internazionale, che una volta si affrontavano in sezione, e tutti cercavano di capire e intervenire. Mentre oggi il dibattito è scaduto anche al vertice. Non è povero questo dibattito, è zero. Ed è una circostanza di cui certi attuali dirigenti vanno persino orgogliosi! Spiace dirlo, ma io del vecchio salverei almeno una cosa: la voglia di capire, la voglia di studiare, la voglia di pensare e affrontare la complessità. Oggi al bisogno di comprensione si è sostituito invece quello di vincere: non importa con chi, contro chi, perché e percome. Solo vincere. Col rischio di trovarsi, a guerra cessata, dalla parte dell’avversario, con indosso la sua uniforme. La diversità una volta funzionava per distinguere gli schieramenti, oggi per renderli del tutto superflui. La battaglia è diventata una specie di mega rissa, come quando, in certe sagre di Paese, ci si prende confusamente a cuscinate e alla fine tutti amici. Meno i ‘comunisti’ o qualunque cosa ancora si intenda con questa post-parola.