di Francesco M. Bonicelli Verrina
Un personaggio più di altri interpretò il peculiare sentimento anti-illuminista del nazionalismo slovacco ottocentesco (spesso fondato su falsi storici, come quasi tutti i nazionalismi europei, camuffati come “fatti”, abusando della credenza popolare e del malessere sociale): Štefan Polakovič, giovanissimo allievo e seguace di Andrej Hlinka e ministro dell’Educazione di Jozef Tiso, nato nella provincia rurale profonda della Slovacchia settentrionale, in un ambiente simile a Černova, nel 1912, poi morto a Buenos Aires, nel 1999, accomunando la sua sorte, per decenni, ai numerosi criminali nazifascisti fuggiti come lui dall’Europa, dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Il Comitato d’azione slovacco, fondato a Roma nel 1946, grazie alla protezione vaticana, trasferitosi nel 1949 a Buenos Aires, come Comitato slovacco di liberazione, aderì subito al Blocco anti-bolscevico. Riproduceva di fatto il Partito Popolare di Hlinka (anche se i membri più importanti, Tiso, Tuka, Kubala erano stati impiccati dall’Armata rossa), ovvero il partito che aveva proclamato l’indipendenza della Slovacchia da Praga, il 14 marzo 1939 (a tradimento, proprio mentre Hitler occupava Praga), e imposto un governo collaborazionista a regime monopartitico. A capo del Comitato slovacco, vi fu l’avvocato Ferdinand Ďurčansky, che rappresentava l’ala più autonoma del partito, colui che da ministro degli Esteri aveva cercato di ritagliare alla Slovacchia un ruolo di ago della bilancia fra Reich ed URSS ed Hitler ne richiese e ottenne le dimissioni, il 28 luglio 1940.
Ďurčansky e Polakovič scrissero insieme diversi memoranda infarciti di millantazioni (come che il primo leader nazionale Ludoviť Štur avesse condannato il comunismo a metà Ottocento o che Tomaš Garrigue Masaryk avesse commesso un genocidio culturale ai danni degli slovacchi) rivolti alla comunità internazionale, allo scopo di sensibilizzare il mondo occidentale alla causa indipendentista slovacca. Proprio in tale utile veste di anti-comunista, Ďurčansky poté vagare a piede libero nelle democrazie occidentali, in Austria, in Germania Federale, in Canada e negli USA, benché avesse avuto un ruolo di rilievo nella persecuzione e nell’eliminazione degli ebrei slovacchi (che spesso erano fuggiti in Ungheria). In Argentina il Comitato trovò un sicuro appoggio, ricambiato, in quell’ambiente a metà fra sacrestia e caserma, intrecciato da figure ecclesiastiche come il cardinale e arcivescovo di Buenos Aires, Antonio Caggiano (che protesse e difese Adolf Eichmann), promotore degli ideali e dei pamphlets di Cité Catholique (di Charles Maurras e Jean Ousset), e le più alte sfere dell’esercito pluri-golpista argentino, colluse con la P21.
L’Argentina non solo rifiutò sempre l’estradizione di personaggi come Ďurčansky, ma anche non fece mai mancare il sostegno alle pubblicazioni del suo Comitato, come le riviste Slovenska Republika, diretta dal confessore di Tiso, Rudolf Dilong, e Juhoamericky Slovak (Lo slovacco sudamericano), tenacemente nostalgiche, revisioniste, anti-comuniste ed anti-ceche, mentre Slovak v Americe veniva addirittura pubblicata a New York2. Tutte esaltavano il carattere assolutamente “cristiano” della Repubblica fondata da monsignor Tiso.
Polakovič crebbe in quell’atmosfera tesa e violenta del primo dopoguerra slovacco. La Slovacchia, che per secoli aveva parlato ungherese, senza porsi grossi problemi d’identità, aveva fatto parte di due grandi compagini multinazionali e multiculturali, improvvisamente scomparse nel 1918: della Grande Ungheria, per più di mille anni, dell’Impero Asburgico, per cinque secoli. Diventava parte di un lungo nuovo stato, la Cecoslovacchia appunto, artificiosamente multinazionale, che da Praga (non lontana da Dresda) si inoltrava fino alla Galizia e alla Bucovina. Ora gli ungheresi diventavano una minoranza che sarebbe stata spesso emarginata, quando non perseguitata dai nazionalisti slovacchi. Il conte Eustachy Sapieha, ambasciatore polacco a Praga, supportato da una certa intellighenzia polacca cattolica, avida di espansione, tentava di insidiare il nuovo fragile stato cecoslovacco, esaltando le pretese del nazionalismo slovacco, enfatizzando i comuni sentimenti polacchi e slovacchi, accusando il governo praghese di “neo-hussitismo”, per la chiusura delle scuole religiose in Slovacchia (antichi focolai revanscisti) e il tentativo di ridistribuire i latifondi di proprietà ecclesiastica (che per Hlinka invece appartenevano già al popolo, in quanto appartenevano alla sua Chiesa). Il concetto di Slovacchia fu a lungo quello della parrocchia-repubblica dei due preti nazionalisti e anti-semiti, Hlinka e Tiso, e fu la storia del loro diretto rapporto pirituale e demagogico prete-popolo. Nel frattempo alcuni estremisti distruggevano la statua di Maria Teresa a Bratislava (già stata Pressburg e Poszony) e ribattezzavano antiche città magiare con nomi inneggianti a eroi del pantheon slovacco. Rudolf Lodgman von Auen, voce dei tedeschi slovacchi, dal suo esilio viennese incitava alla ribellione i suoi connazionali Burgers Uber-ungarns, i quali come i ruteni e gli ucraini reclamavano l’autonomia.
Una piccola regione, una costellazione di nazionalismi; non stupisce che Polakovič abbia concepito in Slovacchia il suo sistema “nazionologico”. Stimato conferenziere nell’Argentina videliana, la sua proposta di una nuova disciplina antropologica: la nazionologia3, fu apprezzata dal suo amico Ernesto Sabato4, penna del regime del Processo di riorganizzazione nazionale. Del resto, nel mondo così concepito come un universo di famiglie spirituali nazionali, al di sopra degli stati, la Giunta argentina, per riscattarsi di fronte a un paese prostrato dalla dittatura militare, giocò nel 1983 l’estrema e ultima carta dell’anti-imperialismo, con il fallimentare tentativo di riconquista delle Falklands-Malvinas, a favore della cui “argentinità”, si era schierato anche lo stesso Polakovič.
Come la Chiesa sognata da Jean Ousset, in Le marxisme-leninisme, testo popolarissimo nell’Argentina degli anni 1960, la nazione ideale di Polakovič è una monade che non accetta al suo interno defezioni o tentennamenti ed anzi vede il peggiore nemico proprio negli ideali liberali, moderati, illuministi, empiristi che si oppongono ai sentimenti all’unisono delle masse nazionali e intaccano la fede irrazionale e omologata delle masse che dovrebbero aderire alla propria nazione come ad una vera e propria chiesa.
Per Polakovič le nazioni sono esseri viventi, l’appartenenza nazionale rappresenta una dimensione della vita spirituale che niente può rimpiazzare. Una nazione è immensamente più che uno stato e nella sua misteriosa essenza è il motore dello sviluppo e della realizzazione spirituale dei suoi membri. Si rifiuta ogni sorta di individualismo e personalismo, l’intersoggettivismo, persino il sentire collettivo, infatti la nazione-parrocchia è una, inghiotte i soggetti, le libertà individuali (di pensiero, di proprietà, etc), tutto, non è collettiva, non è una somma di individui, una collettività, ma è un unico corpo. Nessun potere ha la facoltà di privare la persona umana della sua nazionalità, nemmeno l’esilio, né l’ostracismo morale sono efficaci, scrive Polakovič, facendo un chiaro riferimento all’innaturalezza dell’unione forzata, a suo dire, della nazione slovacca a quella ceca (del resto il secessionismo slovacco rimarrà forte anche all’interno dello stesso Partito Comunista Cecoslovacco e sfocerà nell’inevitabile decisione parlamentare per la divisione della federazione, nel 1992, anche se contro il parere di Alexander Dubček e Vaclav Havel).
Secondo Polakovič una nazione è una “comunità pneumatica”, non ha bisogno di leggi scritte, non ha bisogno come lo stato, organismo “innaturale”, di imporre i doveri, il sentire nazionale è una fede, sono i profeti nazionali (fra i quali ovviamente Polakovič si sente di diritto) a esortare i fratelli. La coscienza nazionale dell’uomo è la prova della spiritualità, “pertanto il materialismo ostacola con tanto sforzo il sentire nazionale”.
La volontà nazionale non è la somma delle volontà individuali, la volontà nazionale è la nazione che vuole autorealizzarsi continuamente. È primordiale predestinazione. Non vi è libertà nel desiderare o non desiderare la propria autorealizzazione nella nazione, la nazione è un ente ineffabile nella sua unicità, unitarietà e identità, soprasensibile e fisico allo stesso tempo, che si coglie e autoriproduce. Non c’è vita, né cultura, al di fuori della nazione. Non si può conoscere un uomo al di fuori della sua nazione che è la prova dell’esistenza della realtà interiore. Ogni nazione è immagine del disegno di Dio5.
L’uomo appare dunque nel sistema polakovicciano più zoon ethnikon che zoon politikon, e in uno slancio di apparente pacifismo, Polakovič arriva ad affermare l’ideale positivista della Belle Epoque, dal “promontorio dei secoli”, la realizzazione di un “mondo totale e pacifico”, che a suo avviso non si può realizzare se non nella piena coscienza nazionale, che per Polakovič si ottiene solo abolendo stati e leggi scritte, distribuendo una giusta porzione di terra ad ogni popolo, ivi inclusi gli ebrei, che Polakovič, probabilmente turandosi il naso, menziona a splendido esempio della sua stravagante teoria; infatti gli ebrei, a suo dire e non solo, sarebbero rimasti sempre un unico popolo, mantenendo la propria identità e unità, anche se disperso nel mondo per secoli, fino ad ottenere la sua terra promessa, diritto di ogni nazione.
Le nazioni devono avere, nel sistema polakovicciano, il diritto alla propria autodifesa anche violenta, i cui confini risultano pericolosamente vaghi, considerando che l’autodifesa nazionale qui coincide con l’autorealizzazione nazionale e non sono previsti organi intermediari fra popolo e guida, né strumenti di controllo democratico liberale.
La nazione è per Polakovič dichiaratemente una necessaria “intima omologazione dei sentimenti”. Lo stato è visto solo in funzione mortificante e repressiva nei confronti della nazione, per non parlare delle organizzazioni sovrastatali e sovranazionali, come l’ONU, la quale impedisce un’intesa reale fra i veri soggetti del mondo: le nazioni, non gli stati membri, i cui confini sono invece stati decretati definitivi e inviolabili, proprio a danno dei popoli.
L’URSS è l’impero sovranazionale che perpetra le atrocità anti-nazionali degli imperi che lo hanno preceduto, quello asburgico, quello spagnolo, quello britannico, quello francese. Gli USA e l’UE ancora peggio in quanto sono organizzazioni che pretendono di farsi nazioni, travolgendo e stravolgendo le identità e sono fondati sul rifiuto stesso del nazionalismo.
Il tutto scritto e pubblicato per altro in un contesto in cui per anni i cittadini dei paesi membri del Patto di Varsavia erano stati terrorizzati, in un’abile strategia di regime, dall’idea della morte in esilio, della perdita delle radici e dei legami con la patria, come vividamente illustrato nel romanzo di Lajos Zilahy, Lo spirito si estingue.
Le Malvinas sono “per diritto naturale” argentine, invece l’ONU si comporta, secondo Polakovič, come la comunità internazionale imperialista all’epoca delle spartizioni della Polonia. Eppure “insignificanti gruppi umani, quali Tobago, Seychelles e altri, hanno il diritto di formare stati e diventare membri dell’ONU”6.
La nazione è sempre categoricamente monoculturale, persegue l’assoluta omogeneità, quando gli stati scompaiono le nazioni sopravvivono, lo stato slovacco (ammesso che di questo si possa parlare nel IX secolo) fu represso e cancellato dai magiari, con l’aiuto dei francesi, ma sopravvisse lo stesso per mille anni come nazione. Citando i suoi due dichiarati modelli, Mancini e Mammiani7, Polakovič sentenzia che è la nazione il vero soggetto del diritto internazionale, capovolgendo il mondo. È, secondo lui, l’assurda convinzione che stato e nazione coincidano, la ragione per cui gli slovacchi devono compiere tanti sforzi, a dire di Polakovič, per convincere il mondo della propria esistenza.
Aristotelicamente più unito è un essere e più è bello, la scomparsa delle nazioni decreterebbe, per Polakovič, la scomparsa della bellezza dal mondo8. L’URSS e l’ONU sono quindi i barbari che perpetrano antiche ingiustizie contro i gruppi nazionali, impedendo a questi il loro “libero” sviluppo al di fuori di “inutili organizzazioni giuridiche”. E Polakovič fa anche riferimento ai popoli africani, a quanto accaduto in Biafra negli anni 1960, quando gli ibo hanno voluto ottenere l’indipendenza dalla Nigeria, lo stato nel quale erano stati artificialmente inglobati da potenze straniere, le stesse che aiutarono in seguito il governo centrale a reprimere nel sangue i ribelli. Simili esempi in altre aree africane, dallo Zaire, al Kenya, eccetera, ma non si cita il Sudafrica, che in effetti realizza splenidamente l’oscuro ideale polakovicciano di “sviluppo separato”9.
Gli oppressori, secondo Polakovič, hanno inventato l’idea secondo la quale le nazioni debbano sottomettere il proprio benessere a quello generale dello stato10. Come stabilito nella citata risoluzione ONU 1514 (14 dicembre 1960), in merito all’inviolabilità dell’integrità territoriale degli stati.
Le culture superiori sottomettono naturalmente quelle inferiori, per Polakovič, ma ogni cultura nazionale è proprietà dell’umanità, Beethoven può essere compreso anche dai guaranì o dai curdi, le nazioni indigene più forti d’animo hanno rifiutato l’alfabetizzazione, per resistere all’acculturazione imposta dai conquistatori11. Polakovič, in sintonia con l’amico Sabato, difende il diritto del popolo argentino (che pure non appare proprio coerente con l’idea di nazione unitaria e omogenea sin qui propugnata) alla sua lingua argentina, differenziata dalla lingua castigliana, perché una nazione è anche la sua propria lingua, così come il popolo slovacco ebbe diritto alla codificazione della propria lingua, nell’Ottocento, da parte del grammatico Anton Bernolak, da cui scaturirono poi tutte le pretese nazionali.
Gli uomini vorrebbero continuamente realizzare la propria peculiare umanità nazionale, eppure anche in Europa molte nazioni, come i baschi, i bretoni, i nordirlandesi, sono in pericolo grave, per Polakovič, come gli slovacchi (ancora nel 1872 il primo ministro Tisza proclamava che la nazione slovacca non esistesse), avventatamente paragonati, in chiave anti-statunitense (come andava di moda negli ambienti anti-americani dell’estrema destra di allora), agli afroamericani12 (i quali vivrebbero una condizione di “solitudine etnica” e smarrimento), forse nell’improbabile tentativo di creare una sorta di solidarietà fra minoritari, com’era avvenuto alla Conferenza dei paesi non-allineati all’Avana (generalmente collocati a sinistra) nei confronti dell’Argentina bisognosa, minacciata dalla Gran Bretagna.
Per il bene degli stati le nazioni devono scomparire, ma c’è per Polakovič un irrevocabile diritto alla personalità nazionale, prima che individuale, un diritto a condividere il destino della propria nazione, a compiere il suo compito nel mondo. Cita quindi i sioux, che nel 1972 vollero urlare al mondo la propria esistenza, proclamandosi indipendenti dagli USA13. Il Belgio viene infine citato per dimostrare quello che si sarebbe potuto realizzare in Ungheria, una federazione fra due popoli, se gli ungheresi avessero riconosciuto l’esistenza degli slovacchi e del loro spazio vitale prima del 1918. Ma Budapest, oltre a dover rinunciare all’irragionevole magiarizzazione, avrebbe dovuto scendere a un compromesso con un partito come quello di Hlinka, fondato sul fanatismo religioso ed etnico, ostile alla centralizzazione dello stato e alla secolarizzazione, all’emancipazione, ad un sistema pubblico civile e standardizzato, alla rinuncia delle enormi proprietà terriere clericali e al controllo clericale dell’educazione.
Rileggere le pagine di Polakovič risulta più che mai interessante oggi in un’Europa tanto diffidente e affetta da pregiudizi reciproci fra gli stati membri e vecchie questioni irrisolte. In un mondo decisamente caotico dove nessun confine appare più certo, ma si fatica a considerare l’eventualità che tutto possa essere nuovamente rimesso in discussione da assurde aspettative egoistiche, fondate sulla finzione del sentimento nazionale, tanto artificiale quanto la pretesa che l’interesse di stato o delle organizzazioni sovrastatali, o delle multinazionali economiche industriali, possa sempre continuare a travolgere mostruosamente la persona, le vite e le aspirazioni individuali in vista di un “interesse superiore”. Tutte queste finzioni che gli uomini accettano e hanno continuato ad accettare anche nei momenti peggiori, nascono dallo stesso bisogno di controllo delle menti e delle masse in preda alle isterie collettive più oscure fiorite dal malessere e dallo smarrimento, che oggi, come nella Belle Epoque, rappresentano l’altra faccia della medaglia nel momento delle grandi svolte nel corso del progresso della storia umana. La Slovacchia nella Belle Epoque, di cui Polakovič è figlio e interprete, può aiutare senza dubbio nell’intento di analizzare con maggiore lucidità le luci e le ombre del progresso, i pro e i contro dello sfaldamento e crollo degli imperi ottocenteschi (minati da esagerazioni nazionalistiche), da rileggersi forse, rifiutando letture ideologizzate e senza senso storico, come grandi enti multiculturali e sovranazionali, culle della moderna idea di Europa, tendenzialmente anche pacificatori, civlizzatori, emancipatori e universalizzanti. Solo una coscienza sovranazionale e aperta, figlia dell’illuminismo e dell’empirismo, potrà garantire il diritto all’individualità e alla differenza della persona, nonché una coscienza europea più autonoma e scevra di pregiudizi e dogmatismi.
Può essere utile oggi ad una riflessione europea per realizzare il reale progresso della persona e le migliori esigenze emancipatrici, analizzare gli errori e le leggerezze della comunità internazionale fra fine Ottocento e inizio Novecento, nei confronti della crescita impetuosa degli egoismi nazionalistici (spesso ben oltre la legittima domanda di rispetto delle autonomie culturali regionali), fondati su motivi fittizi o enfatizzati, soventemente sostenuti in maniera strumentale dalle altre potenze che poi si trovarono imprigionate nella loro stessa rete, nell’epoca in cui gli stati iniziarono a voler controllare totalmente i propri cittadini.
J. M. Ward, Priest, politician, collaborator. Jozef Tiso and the making of fascist Slovakia, Cornell University Press, Ithaca (NY), 2014.
1 U. Goni, Operazione Odessa. La fuga dei gerarchi nazisti verso l’Argentina di Peron, Garzanti, Milano, 2007.
2 M. Zourek, Checoslovaquia y el cono sur 1945-1989, (pp. 51-52), Università Carolina di Praga, Editorial Karolinum, Praga, 2014.
3 S. Polakovič, Pensando la Nacion, (p. 190), Grupo Editorial Latinoamericano, Buenos Aires, 1986.
4 “Nessuno come questo umanista slovacco ha reso tanto chiaro e appassionante il concetto di nazione”.
5 S. Polakovič, Pensando la Nacion, (pp. 9-14), Grupo Editorial Latinoamericano, Buenos Aires, 1986.
6 S. Polakovič, Pensando la Nacion, (pp. 32-33), Grupo Editorial Latinoamericano, Buenos Aires, 1986.
7 S. Polakovič, Pensando la Nacion, (p. 35), Grupo Editorial Latinoamericano, Buenos Aires, 1986.
8 S. Polakovič, Pensando la Nacion, (p. 54), Grupo Editorial Latinoamericano, Buenos Aires, 1986.
9 S. Polakovič, Pensando la Nacion, (p. 76), Grupo Editorial Latinoamericano, Buenos Aires, 1986.
10 S. Polakovič, Pensando la Nacion, (p. 80), Grupo Editorial Latinoamericano, Buenos Aires, 1986.
11 S. Polakovič, Pensando la Nacion, (pp. 111-112), Grupo Editorial Latinoamericano, Buenos Aires, 1986.
12 S. Polakovič, Pensando la Nacion, (p. 146), Grupo Editorial Latinoamericano, Buenos Aires, 1986.
13 S. Polakovič, Pensando la Nacion, (p. 164), Grupo Editorial Latinoamericano, Buenos Aires, 1986.