Auguri a Piero Piccioni: a Roma una ricca mostra ricorda il centenario della nascita del grande musicista
Per ricordarne degnamente il centenario della nascita a Roma è stata allestita una mostra, inaugurata il giorno del suo compleanno e aperta sino al 6 gennaio
di Giuseppe Costigliola
Piccioni nacque il 6 dicembre 1921, e per ricordare degnamente il centenario della nascita a Roma è stata allestita una mostra, inaugurata il giorno del suo compleanno e aperta sino al 6 gennaio, nei Forum Theatre accanto ai Forum Studios, gli studi di registrazione che il compositore aprì nel 1970 al quartiere Parioli con il nome di Ortophonic insieme ad alcuni prestigiosi colleghi: Ennio Morricone, Armando Trovajoli, Luis Bacalov ed Enrico De Melis. L’evento, dal suggestivo titolo “Piero Piccioni Experience”, è curato dal figlio Jason con Nicola Vicidomini e Marco Patrignani, con la collaborazione del celebre giornalista musicale e produttore discografico Adriano Mazzoletti, David Barsotti, il musicista e sound designer Federico Savina, la cantante Valentina Piccioni (figlia dell’artista), l’attrice Gloria Paul (che ha condiviso con l’amato Piero una lunga fetta di vita) e la sua collega Giovanna Ralli.
Nel cospicuo materiale esposto, da segnalare le decine di grandi poster originali concessi dal collezionista Alessandro Orsucci, che propongono un viaggio nostalgico e storiograficamente denso tra molti capolavori della filmografia italiana: Mani sulla città, Polvere di stelle, Il medico della mutua, Travolti da un insolito destino…, Fumo di Londra, La decima vittima, Amore mio aiutami, Il disprezzo, La notte brava, Io la conoscevo bene, C’era una volta, Cronaca di una morte annunciata, Il caso Mattei e numerosi altri, poiché Piccioni ha musicato i film di grandi maestri: Rosi (13 dei suoi 17 lungometraggi), Visconti, De Sica, Rossellini, Monicelli, Bertolucci, Douglas, Bolognini, Lattuada, Godard, Comencini, Pietrangeli, Damiani, Petri, Risi, Wertmüller e tanti altri, oltre ad aver impreziosito numerose pellicole di genere, alcune divenute dei cult.
Dunque, buona visione.
Quel corpo spinto dal mare
Wilma Montesi è una bella ragazza romana, riservata e perbene come la descrivono parenti e conoscenti, fidanzata con un agente di polizia con cui è in procinto di sposarsi e con il sogno di entrare nel mondo dello spettacolo. E’ la primavera del 1953 e Wilma si sta occupando dei preparativi per le nozze fissate per la fine dell’anno, ma la mattina dell’11 aprile il suo corpo senza vita viene ritrovato sulla spiaggia di Torvaianica da Fortunato Bettini, che subito informa le forze dell’ordine. Scrive in quei giorni Sandro De Feo sulle pagine di Corriere: «Tra Ostia e Pratica di Mare, un tratto di litorale di quelli che piacevano a Shelley, il corpo di una fanciulla è stato portato dalle acque sulla riva. Bella e ancora non sfigurata. Nè si sapeva chi fosse. Ora si sa il suo nome, Wilma Montesi, ma non le cagioni della sua fine. E la città non parla d’altro e non pensa ad altro. Perché delitto o suicidio, le circostanze che circondano questo fatto sono così diverse da quelle dei suicidi e delitti cui la cronaca ci ha abituati».
«Perché avrebbe dovuto uccidersi?»
Le indiscrezioni apparse sulla stampa convincono il padre di Wilma a presentarsi al riconoscimento della ragazza, di cui non ha notizie dal 9 aprile, dando così un nome a quel corpo senza vita che sta già ampiamente occupando la cronaca nazionale. Dalle prime testimonianze si appura che la giovane ha preso un treno per Ostia il giorno della scomparsa, poi il buio sulle ore successive, anche se qualcuno afferma di averla vista in compagnia di un uomo. Le prime conclusioni dell’inchiesta di polizia si orientano verso l’ipotesi di un suicidio, senza convincere né la famiglia della vittima né gli organi di stampa, tra cui Corriere della Sera: «“Perché Wilma Montesi avrebbe dovuto uccidersi?” si chiedono i parenti. Ella è stata uccisa, e i genitori sostengono decisamente questa loro tesi pur non sapendo e non potendo giustificarla con qualche dato di fatto e qualche concreto sospetto».
«Sincope da pediluvio»
Le conclusioni dell’autopsia attribuiscono la morte a un malore improvviso avvenuto mentre la giovane donna passeggiava a piedi nudi sulla battigia, uno svenimento a cui sarebbe seguito l’annegamento, anche perché dai primi rilievi il corpo non presenta segni di violenza, né tracce di stupefacenti o alcol. Tempo dopo, però, una seconda perizia del professor Pellegrini rileverà tracce di sabbia nelle parti intime, compatibili con un tentativo non riuscito di violenza sessuale. Sul luogo del ritrovamento, inoltre, mancano le scarpe della giovane, la gonna, le calze, il reggicalze e la borsa. «La polizia non è riuscita ancora a mettere la parola fine sul caso di Wilma Montesi che peraltro, si sa per certo, non è stata assassinata. Questo infatti è il risultato dell’autopsia. Mancano sul corpo della giovane segni sia pure impercettibili di violenza; la morte, hanno stabilito i medici legali, è stata causata da “asfissia da annegamento”».
Un misterioso incidente
Scartata l’ipotesi del suicidio, per gli inquirenti si tratta di uno sfortunato incidente, ma la stampa locale e le testate nazionali cercano di scavare più a fondo in una lotta serrata allo scoop, che arriverà poche settimane dopo, quando al caso viene collegato il nome di Piero Piccioni, figlio dell’allora vicepresidente del Consiglio Attilio, ministro degli Esteri e alto dirigente della Democrazia Cristiana. Tra le tante indiscrezioni, fa scalpore quella riportata dalla rivista comunista Vie Nuove secondo cui Piero Piccioni si sarebbe recato in questura per consegnare gli indumenti mancati della Montesi, ma immediata è la querela (leggi l’articolo dell’epoca sfiorando l’icona blu) del giovane per diffamazione contro il giornalista Marco Cesarini Sforza, che deciderà di ritrattare (c9n conseguente ritiro della querela il 6 luglio) e non svelare le proprie fonti, pressato anche dal partito Comunista (nell’immagine dell’epoca, la ricostruzione della morte di Wilma Montesi sulla spiaggia di Torvaianica; Fotogramma/Coluzzi)
«Manca soltanto Sherlock Holmes»
«La chiave del mistero è nelle mani di colui che, secondo deduzioni logiche, si presume sia stato, se non altro, testimone della morte di Wilma. Costui però non si è presentato, né è stato rintracciato. E’ un’ombra contro cui nessuno ha potuto sporgere denuncia. Durante la campagna elettorale, qualcuno ha cercato di dare un volto a quell’ombra, ma si è capito subito che si trattava di una speculazione politica. Tuttavia l’ombra esiste; manca soltanto uno Sherlock Holmes che sappia darle corpo». E’ quanto scrive su Corriere nel luglio del ’53 Gino Visentini, mentre l’Italia distratta dalla pausa estiva sembra aver dimenticato il caso di Wilma Montesi (guarda la pagina del Corriere con l’articolo di Visentini del 1953 sfiorando l’icona blu).
Le rivelazioni clamorose di «Attualità»
Un disinteresse momentaneo, perché di lì a poco, il giovane direttore della rivista «Attualità», Silvano Muto, pubblica un articolo esplosivo che riporta l’attenzione pubblica sulla morte misteriosa e fa riaprire le indagini: la sua sconvolgente tesi si basa sulle dichiarazioni di una giovane romana di nome Adriana Concetta Bisaccia, che insieme alla Montesi avrebbe preso parte a un festino a base di sesso e droghe in una villa di Capocotta, alla presenza di personaggi noti del bel mondo romano, aristocratici come il marchese Ugo Montagna e figli di illustri politici come Piero Piccioni. (nella foto Roto-Foto un sopralluogo del 1957 sulla spiaggia dove era stato ritrovato il corpo della Montesi)
Il festino sesso e droga nella villa dei vip
Dalla deposizione di Muto ai giudici riportata dal Corriere (sfiora l’icona blu per leggere l’articolo dell’epoca): «Mi misi in contatto con la signorina Concetta Bisaccia; mi riferì di sapere molte cose sulla morte della Montesi, che non doveva esser attribuita a disgrazia. Mi disse che nella zona di Castel Porziano si tenevano riunioni alle quali aveva partecipato anche lei; che Wilma Montesi conosceva persone socialmente elevate; che ai festini erano intervenuti coloro che, a suo dire, dovevano ritenersi responsabili della morte della ragazza. La Bisaccia, da me sollecitata, dichiarò di non poter far nomi; temeva rappresaglie».
Malora fatale forse per una overdose
Il malore fatale della Montesi sarebbe appunto dovuto a un mix di droga e alcol, e il suo corpo sarebbe stato trasportato sulla spiaggia di Torvaianica da alcuni dei presenti al festino. Il clamore di queste nuove rivelazioni scuoterà l’Italia e arriverà fino ai corridoi di Montecitorio, mentre Muto sarà sottoposto a processo con l’accusa di aver fornito «…notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico».
L’amica e testimone: «il cigno nero»
Ad aumentare il peso delle accuse del giornalista si aggiungono tempo dopo le dichiarazioni di un’altra testimone, Maria Augusta Moneta Caglio Bessier d’Istria — ribattezzata da Camilla Cederna come il cigno nero — figlia di un notaio milanese e con le stesse ambizioni della Montesi e della Bisaccia di entrare nel mondo del cinema, nonché amante del marchese Montagna all’epoca dei fatti. La pista del festino finito male campeggia su tutte le testate mentre circolano indiscrezioni su un memoriale che la Moneta avrebbe fatto pervenire al ministro degli Interni Amintore Fanfani, scatenando un vero e proprio terremoto ai vertici della Democrazia Cristiana. «Nella cassaforte di un avvocato di Roma è chiuso un memoriale che il 4 marzo (1954) arriverà sul banco del Tribunale incaricato di giudicare Silvano Muto, il giornalista accusato d’aver diffuso notizie false e tendenziose sull’affare Montesi. […] Anna Maria Moneta Caglio, questo personaggio che è stato introdotto improvvisamente nella storia di Wilma Montesi, la fanciulla romana trovata morta sulla spiaggia di Torvaianica, a poca distanza da Ostia, ha ventitré anni. Appartiene a una vecchia famiglia milanese: i documenti dei Moneta arrivano più indietro del ‘200. Il bisnonno, Teodoro Moneta, ebbe nel 1907 il premio Nobel per la pace». (nella foto Olycom/Begotti, Anna Maria Moneta Caglio, la grande accusatrice del processo Montesi)
Lo scandalo arriva in Parlamento
I nomi che filtrano dal memoriale della giovane donna chiamano in causa il capo della polizia Tommaso Pavone, che avrebbe «coperto» il marchese Montagna e il giovane Piccioni, mentre i giornali avanzano l’ipotesi di un complotto politico ordito da una corrente democristiana opposta ad Attilio Piccioni. Il caso Montesi diventa così il primo delitto mediatico della storia della Repubblica, con l’opinione pubblica italiana convinta che la povera ragazza sia stata vittima di un gioco perverso e che le indagini abbiano subito depistaggi da parte di politici e funzionari pubblici. Il contraccolpo per la Democrazia Cristiana e soprattutto per Attilio Piccioni sembra inarrestabile (leggi l’articolo sul Corriere d’Informazione del 15 febbraio 1954, sfiorando l’icona blu): «Il caso Montesi ha varcato frattanto le soglie del Parlamento con una interrogazione del senatore Franz Turchi, del MSI, al presidente del Consiglio e ministro degli Interni (Mario Scelba) “per conoscere che cosa intenda fare per rassicurare il Parlamento e il Paese circa i dubbi e le perplessità sorti sull’atteggiamento e sulle pretese responsabilità dirette e indirette di alcune personalità politiche e di Governo, i cui nomi sono stati fatti dalla stampa italiana chiaramente o in forma allusiva a proposito dell’affare Montesi”».
Caso riaperto, travolta la corrente Dc di Piccioni
La Corte d’Appello di Roma riapre ufficialmente il caso il 26 marzo del ’54, mentre lo scandalo ha ormai travolto la corrente democristiana vicina ad Attilio Piccioni, che si dimetterà dalle cariche di ministro e dirigente del partito, anche perché, a fine settembre il figlio Piero sarà arrestato con l’accusa di omicidio colposo e uso di stupefacenti, insieme al marchese Ugo Montagna e al questore di Roma Saverio Polito, accusati di favoreggiamento. «Il primo atto della ripresa delle indagini fu l’interrogatorio della Bisaccia, rintracciata a Roma e restata per quattro ore nell’ufficio del dott. Sigurani. Il secondo si è avuto oggi alle 12.30, allorché è entrato nello stesso ufficio, al pianterreno del Palazzo di Giustizia, un signore di quarantadue anni, con un cappotto grigio ferro, il cappello alla cacciatora color tabacco, i calzoni di flanella, il volto magro e colorito di chi vive molto all’aperto. Era il marchese Ugo Montagna di San Bartolomeo, industriale, mediatore in compravendite di stabili. […] Uscendo dall’ufficio del dott. Bruno, il marchese Montagna ha dichiarato soltanto: “Sono deciso a portare la cosa fino in fondo. Tutta la faccenda è stata creata a scopo scandalistico, per poter in qualche modo colpire personalità politiche».
Tra spionaggio e belmondo, «la torbida vita di Montagna»
A stupire l’opinione pubblica è però la posizione della famiglia di Wilma, convinta dell’estraneità ai fatti di Piero Piccioni, mentre il giornalista di Fabrizio Menghini suggerisce una nuova pista d’indagine e chiama in causa lo zio della vittima Giuseppe Montesi, chiacchierato libertino forse infatuato della bella nipote Wilma, che al processo svelerà un’immagine del clan familiare ben lontana da quella descritta inizialmente dai genitori della vittima, salvandosi all’ultimo minuto con un alibi che lascerà non pochi dubbi agli inquirenti.
GALLERY
Colpi di scena, fango e altri scandali
Archiviata la pista dello zio Giuseppe Montesi, l’effetto domino della vicenda non accenna a fermarsi e qualche mese dopo arriva a toccare anche lo schieramento politico comunista con uno scoop del giornale Momento Sera, che indagando su un caso simile a quello della Montesi porta alla luce un giro di prostituzione in cui è coinvolto il politico Giuseppe Sotgiu, lo stesso che poco tempo prima aveva difeso in qualità di legale il giornalista Silvano Muto, primo grande accusatore di Piero Piccioni e Ugo Montagna. Immancabile lo scandalo quando vengono pubblicate le fotografie di Sotgiu all’ingresso di una casa d’appuntamenti romana in compagnia della moglie, a quanto pare frequentatrice assidua del posto con il consenso del marito: «Le indagini sulla morte misteriosa di una ragazza e una “sorpresa” compiuta dalla polizia in una casa equivoca hanno rivelato l’esistenza di un turpe scandalo nel quale è coinvolto un personaggio di sinistra, accusatore dell’immoralità della borghesia: il prof. Giuseppe Sotgiu, il filocomunista presidente dell’Amministrazione provinciale di Roma, il quale – secondo quanto pubblica il Messaggero – è stato denunciato per atti contro la morale. […] Continuando nelle indagini, la polizia accertava che casa Fantini era frequentata anche da persone di rango elevato tra le quali il presidente dell’Amministrazione provinciale prof. Sotgiu che si recava nell’appartamento accompagnato da una signora che potrebbe, sempre in base alle deposizioni dei fermati, essere la moglie, signora Liana Sotgiu, nota pittrice».
Il processo giudiziario con 3 imputati: tutti assolti
Dopo il rinvio a giudizio degli imputati Piccioni, Montagna e Polito, il 21 gennaio del 1957 si apre a Venezia quello che la stampa di allora etichetta come il «processo del secolo» (nella foto), per via dei personaggi eccellenti coinvolti e della battaglia di deposizioni, ritrattazioni e incongruenze che andranno in scena in aula. A deporre in favore di Piero Piccioni salirà sul banco dei testimoni anche l’attrice Alida Valli, allora fidanzata con il figlio del politico, dichiarando di esser stata con lui a Ravello nei giorni precedenti la tragedia. In favore di Piccioni, inoltre, c’è anche la testimonianza di un medico, che afferma di averlo visitato proprio il pomeriggio del 9 aprile e di avergli consigliato di stare a letto nelle ore successive. Ma né gli inquirenti, né le numerose inchieste giornalistiche riusciranno a far luce su quanto accadde quel pomeriggio di primavera alla sfortunata Wilma Montesi, e il 28 maggio 1957 il tribunale assolverà con formula piena i tre imputati, mentre gli accusatori Silvano Muto e Adriana Concetta Bisaccia verranno condannati per calunnia, assolta invece Maria Augusta Moneta Caglio.
La ricostruzione di Arnaldo Geraldini
Un anno dopo, Arnaldo Geraldini ripercorrerà le tappe dell’avvincente processo sulle pagine di Corriere: «Un anno fa, di questi giorni, il 21 gennaio, cominciava a Venezia il “processo del secolo”. Era un grosso avvenimento per la società italiana. […] Tutto questo rappresentava lo scioglimento di uno “scandalo” che da quattro anni teneva in tensione l’opinione pubblica. Molto tempo prima, il 20 marzo del 1954, una ragazza milanese, deponendo come testimone in un processo, aveva detto press’a poco: “Io sola so come morì Wilma Montesi, trovata sulla spiaggia di Torvaianica in una mattina di vento della primavera scorsa. L’assassino è Piero Piccioni, il figlio del ministro degli Esteri; ha complici d’alto rango; per esempio Ugo Montagna, amico di potenti, e l’ex questore di Roma. Cercate e troverete la verità». (nella foto Olycom/Begotti, Piero Piccioni, figlio dell’ex ministro degli Esteri Attilio, a Venezia con gli avvocati per l’apertura del processo Montesi)
Il primo grande processo mediatico
Già durante il primo processo contro l’accusatore Silvano Muto, nel 1954, in un editoriale di Corriere della Sera (leggi sfiorando l’icona blu) ci si chiedeva perché un semplice caso di cronaca avesse scosso così a fondo il Paese, dominando quotidianamente l’attenzione dell’opinione pubblica in modo morboso. Non era solo il coinvolgimento nel caso di nomi illustri, né l’attrazione morbosa per i fatti di violenza, ma qualcosa di più profondo, un bisogno di verità e rassicurazione generalizzato tra la popolazione italiana del tempo: «Questo è qualcosa di più di uno scandalo giudiziario, è qualcosa di più e di diverso di una torbida faccenda, di cui non si riesce ancora a scorgere chiaramente i contorni. E’ un avvenimento di carattere eminentemente politico, che impegna tutta quanta la democrazia italiana. Nel caso attuale c’è un aspetto particolarissimo, che va sottolineato e che ci dà immediatamente la ragione di questa sollevazione della pubblica opinione. In questo caso è l’opinione pubblica che ha voluto lo scandalo; è la pubblica opinione che, con la sua invincibile pressione, ha infranto le dighe del segreto e dell’omertà. Dal 7 giugno, per le vicende che tutti ricordiamo, il Paese si domanda ansioso e preoccupato se abbiamo un governo capace di governare; se lo Stato è in grado o no di funzionare, se le forze, se gli organi che debbono garantirgli la sicurezza, l’ordine e la tranquillità sono o no all’altezza dei loro compiti».
Un nuovo modo di fare giornalismo
Il caso Montesi inaugurò anche un nuovo modo di fare giornalismo, in una gara serrata tra le maggiori testate nazionali a dare per primi indiscrezioni e novità investigative, talvolta fantasiose e del tutto prive di fondamento, oltre a scavare morbosamente nella vita dei personaggi coinvolti. La stampa italiana si divise allora tra innocentisti e colpevolisti, anche a seconda della sfera politica a cui le varie testate facevano riferimento, mentre l’opinione pubblica non digerì il coinvolgimento di alcuni funzionari di pubblica sicurezza nel coprire i personaggi illustri coinvolti nel dramma, e non perdonò nemmeno il partito democristiano, che proprio nell’anno del caso perse una consistente quota di elettori alle politiche e non riuscì a raggiungere il premio di maggioranza. (nella foto Olycom/Begotti, Il Marchese Ugo Montagna, altro imputato illustre del processo Montesi svoltosi nel gennaio del ’57 a Venezia)
La fine politica di Attilio Piccioni
La Democrazia Cristiana, che in un primo tempo aveva sottovalutato le possibili ripercussioni politiche del caso, dovette man mano ricredersi e reagire allo scandalo, tra accuse interne alle varie correnti e attacchi ai partiti d’opposizione, in particolare il Pci, che a mezzo stampa accusava la dirigenza della Dc di «coprire» i colpevoli e intervenire indebitamente nelle indagini. In gioco c’era la supremazia democristiana in Parlamento e la leadership all’interno del partito, nella lotta tra i due possibili eredi di De Gasperi, ovvero Attilio Piccioni e Amintore Fanfani. Vincerà quest’ultimo, aiutato proprio dal danno di immagine che il caso Montesi porterà al rivale Piccioni, costretto a dimettersi da tutte le cariche ufficiali in vista dell’arresto del figlio: «Da questo momento si parla dell’ex ministro Piccioni. Le sue dimissioni non potevano tardare oltre, o meglio, non si poteva tardare oltre ad accettarle. Motivi che non è il caso di indagare in questa sede consigliarono i dirigenti la cosa pubblica a dilazionare fino a oggi l’esame del caso. Ma un uomo di sessant’anni, che stia soffrendo nel suo intimo un dramma familiare di tale intensità, come avrebbe potuto continuare a reggere un dicastero come quello degli Esteri? “Io voglio difendere mio figlio. Io sono sicuro della sua innocenza. Durante i giorni famosi in cui avveniva il fatto Montesi, Giampiero era a letto ammalato, nella stanza accanto alla mia”». (nella foto Archivio Rcs, Anna Maria Moneta tra la folla al termine di un’udienza del processo Montesi)
21 gennaio 2017
Il processo, Alida Valli testimone, le assoluzioni
ne arrestato (sarà poi assolto)
….Nel 1955, al termine di un’inchiesta che ha appannato l’immagine della polizia (il questore Saverio Polito accusato per aver insabbiato verità scomode), si apre il processo. A difesa di Piero Piccioni, davanti alla Corte, si presenta la sua fidanzata, la famosa attrice Alida Valli (foto), che dichiara che il figlio del ministro quella notte era con lei. Il verdetto sarà di assoluzione per Piccioni e gli altri imputati, mentre gli accusatori verranno condannati per calunnia.
Il processo e l’ultima inchiesta
Il 20 giugno 1955 Piccioni, Montagna e Polito furono rinviati a giudizio da Sepe presso la Corte d’assise, iscritti tra gli imputati per un processo penale sulla vicenda. Il 21 gennaio 1957 a Venezia si aprì il dibattimento. Montagna negò di aver conosciuto la Montesi, e Polito, ormai in pensione, confermò la tesi ufficiale dell’incidente in mare.
Alida Valli depose in favore di Piccioni, confermando che i giorni precedenti il decesso della Montesi, Piero Piccioni era con lei a Ravello. Il musicista lasciò quella località lo stesso 9 aprile, rientrando nella sua casa di Roma poco dopo le 14:00 e poche ore dopo si trovava nello studio di un noto clinico per una visita alla gola, ove lamentava un forte dolore. Dietro suggerimento del medico si era messo a letto e ci era rimasto anche il giorno successivo, come potevano testimoniare l’infermiere, che gli fece l’iniezione quella sera stessa, un medico che lo visitò il giorno dopo e gli amici che si recarono in visita a casa sua. L’alibi comunque era già noto agli inquirenti nella fase istruttoria[16]. Alle 0:40 del 28 maggio il tribunale riconobbe gli imputati innocenti e li assolse con formula piena, su richiesta del procuratore Cesare Palminteri[3].
Alida era nata a Pola il 31 maggio del 1921 in una famiglia aristocratica (i von Altenburger ) dove musica e cultura erano di casa: la madre era pianista e il padre professore di filosofia e critico musicale. La cultura di Alida, la sua bellezza singolare, la sua intelligenza unite a una grande versatilità costituivano uno straordinario patrimonio artistico per la sua futura carriera di attrice.
La Valli debutta nel 1935 nel film di Mario Camerini Il cappello a tre punte, e non si ferma più: dal 1935 al 1940 gira ben quindici film. Nel 1941 Mario Soldati le affida la parte di Luisa, intenso ruolo drammatico nel film Piccolo mondo antico dal romanzo di Fogazzaro: la sua interpretazione riceve il premio speciale al festival di Venezia. Ma è un anno doloroso per Alida: proprio allora il fidanzato, il pilota Carlo Cugnasca, muore in Libia. Nel ’47, ancora diretta da Soldati, riceve il Nastro d’Argento per Eugenia Grandet. A quel punto Hollywood la chiama per lanciarla come la “Ingrid Bergman italiana”. Alida parte con il piccolo Carlo, nato nel 1945 dal suo matrimonio con il compositore Oscar De Mejo, cugino dell’amica Leonor Fini.
Ma Alida non è Ingrid, ogni confronto tra le due attrici non ha alcun senso.
In Alida, invece c’era ben altro. C’era qualcosa che non mancava mai di “prendere” gli attori e i registi che lavoravano con lei e per lei. Qualcosa che si rinnovava ogni qualvolta interpretava un personaggio capace di ergersi con una differenza sostanziale, come un’interfaccia, un velo-sipario fra finzione e realtà. Partner e registi ne avvertivano immediatamente la presenza, e ne subivano le conseguenze, senza aver bisogno di rinunciare neppure a una briciola delle loro capacità interpretative e dirigenziali. Alida era sempre presente (anche quando la sceneggiatura non lo prevedeva) ben consapevole della sua femminilità da cui traeva forza per guidare gli altri, sempre conscia dell’importanza di ogni ruolo. Persino pronta a sacrificare il suo personaggio per evidenziare, quando necessario, quello dei suoi compagni di lavoro. Di conseguenza eccola giganteggiare su tutto il cast in modo tale da indurre il pubblico, i registi e persino i critici, a centrare Il caso Paradine attorno a lei piuttosto che ad Alfred Hitchcock, come ne Il terzo uomo diretto da Carol Reed e con Joseph Cotten e Orson Welles…Vale forse la pena di far notare l’importanza dei due nomi. Hitchcock e Welles, due colonne fondamentali a sostegno dell’erigendo tempio dedicato al culto del cinema. Alida, una onnipresente, bellissima donna che era in grado di dominare silenziosamente la pellicola dei film, il palcoscenico dei teatri, gli schermi della televisione. Bellissima, ma anche enigmatica e dolorosa come quando offre il suo volto sciupato e sofferente alla contessa Serpieri, amante infelice in Senso di Luchino Visconti, dove ci permette di avvertire quasi un precoce e struggente congedo dalla giovinezza: i capelli sciolti solo nelle ore dell’amore (tra le braccia di Farley Granger) e poi stretti nel severo chignon, la ruga profonda tra i chiari occhi sempre straordinari, le pieghe amare ai lati della bocca, l’inquietudine trattenuta e dolorosa evidente nella postura delle spalle e nel passo rapido… Siamo nel 1954, quando scoppia lo “scandalo Montesi”: Wilma Montesi, una giovane donna, viene trovata morta sulla spiaggia di Torvaianica. Tra gli indiziati c’è il musicista Piero Piccioni (figlio dell’allora Ministro degli Esteri, Attilio Piccioni) legato sentimentalmente ad Alida: la stampa e l’opinione pubblica non danno tregua all’attrice che ne soffre tantissimo fino al punto di non recitare più per tre anni. Torna sugli schermi chiamata da Michelangelo Antonioni nel 1957 ne Il grido e nello stesso anno con Gillo Pontecorvo (La grande strada azzurra del 1957).
Nel 1961 è protagonista insieme a Georges Wilson di L’inverno lo farà tornare (Une aussi longue absence), di Henri Colpi. Due grandi registi italiani la chiamano negli anni Sessanta: Franco Brusati (Il disordine del 1962), Pier Paolo Pasolini (Edipo re del 1967). Più tardi Alida è diretta da Bernardo Bertolucci in La strategia del ragno (1970) e in Novecento (1976) ; e nel ‘72 da Valerio Zurlini in La prima notte di quiete (1972) accanto ad Alain Delon. Nel 1977 partecipa al film di Roberto Benigni Berlinguer ti voglio bene diretto da Giuseppe Bertolucci; nello stesso anno Dario Argento le affida due ruoli inquietanti in Suspiria (1977) e Inferno (1980).
Vince per la seconda volta il David di Donatello alla carriera nel 1991 (il primo l’aveva vinto nove anni prima come miglior attrice non protagonista per La caduta degli angeli ribelli) e nel 1997 il Leone d’Oro alla carriera a Venezia.
Il teatro l’aveva attirata molto presto: nel gennaio del ‘46 Alida aveva debuttato al Teatro Biondo di Palermo con Raoul Grassilli, Tino Buazzelli, Andrea Bosic in La casa dei Rosmer di Ibsen.
Nel ‘67 recita in Uno sguardo dal ponte di Arthur Miller, con Raf Vallone, Massimo Foschi e Lino Capolicchio, diretto da Raf Vallone, nel ’69 in Il Dio Kurt, di Alberto Moravia, con Luigi Proietti, con la regia di Antonio Calenda. Nel ‘73, ne Il gabbiano di Anton Cechov, è con Carlo Simoni, Roldano Lupi e Ernesto Calindri, regia di Fantasio Piccoli.
La sua ultima apparizione sul palcoscenico è del 1988 in La città morta di Gabriele D’Annunzio con la regia di Aldo Trionfo.
Fra gli ultimi film Il lungo silenzio di Margarethe von Trotta (1993) e sei anni dopo Il dolce rumore della vita di G. Bertolucci.
Molte le sue interpretazioni per la televisione: indimenticabile Piccolo Mondo Antico (con la regia di Salvatore Nocita del 1989), e L’eredità della Priora (regia di Anton Giulio Majano nel 1980).
Quando Alida muore a Roma nel 2006, poverissima, sostenuta soltanto dalla pensione della legge Bacchelli, Bernardo Bertolucci la ricorda con queste parole: «Un mito, una dea».