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Piazza Fontana, Pinelli e Calabresi
di minima&moralia pubblicato il 13 gennaio 2014
Il racconto della recente storia d’Italia, e in particolare degli anni segnati dalla strategia della tensione, è parte sostanziale della ricerca di John Foot sulla memoria divisa e sul suo uso pubblico. Pubblichiamo, ringraziandolo, il capitolo su Piazza Fontana, Pinelli e Calabresi contenuto nel volume Fratture d’Italia. Da Caporetto al G8 di Genova. La memoria divisa del Paese. (Fonte immagine)
La strage di piazza Fontana è un romanzone angosciante, pieno di morti, di personaggi sul filo dell’invenzione, di povere vittime incolpevoli e anche di uomini che, come succede nei grandi casi della vita, scoprono se stessi e lottano in nome della verità e della giustizia. È anche il romanzo di una società. Milano soprattutto, divisa in due, gonfia di passioni, di fervori, di odii, vitali e faziosi, una piccola Parigi dei tempi del caso Dreyfus, così come la descrive Proust.
Corrado Stajano
di John Foot
Due o tre fatti…Venerdì 12 dicembre, 1969. 16,37. Una bomba esplode nella Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana, Milano. La banca è affollata di coltivatori diretti e altri clienti. Quattordici persone muoiono sul colpo, e altre due in ospedale poco dopo la strage. Ci sono ottantotto feriti. Lo stesso pomeriggio, tre bombe esplodono a Roma causando diversi feriti. Un’altra bomba è trovata inesplosa nella sede centrale della Banca Commerciale a Milano. La televisione statale diffonde le notizie alle 20,30. Si procede a retate di attivisti di sinistra in tutta Italia, con circa quattromila fermi e interrogatori. Anche Giuseppe «Pino» Pinelli, anarchico milanese, è convocato in Questura a Milano per essere interrogato.
15 dicembre, 1969. Si celebrano i funerali delle vittime della strage. Piazza Duomo e tutte le strade circostanti sono stracolme di gente. Quello stesso pomeriggio è arrestato al Palazzo di Giustizia di Milano l’anarchico Pietro Valpreda, portato poi a Roma per essere interrogato sulle bombe. Intorno a mezzanotte, Pinelli precipita dal quarto piano degli uffici della Questura di Milano. Il funzionario di polizia responsabile delle indagini sulla bomba di piazza Fontana è Luigi Calabresi. Pinelli muore mentre lo stanno portando in ospedale.
12 dicembre, 1970. Imponenti manifestazioni si tengono a Milano e in tutta Italia. L’ultrasinistra lancia lo slogan «La strage è di Stato». Ci sono scontri di strada per ore nel centro di Milano, nei dintorni di piazza Fontana.
17 maggio, 1972. Calabresi è ucciso a colpi di pistola davanti a casa sua a Milano.
17 maggio, 1973. Il busto di Calabresi è inaugurato nel cortile della Questura di Milano. Mentre sta finendo la cerimonia, viene lanciata una bomba sulla folla, obiettivo il ministro degli Interni Mariano Rumor, presidente del Consiglio all’epoca della strage di piazza Fontana. L’ordigno cade su un gruppo di presenti: quattro gli uccisi, quarantasei i feriti. Il bombarolo, Gianfranco Bertoli, sostiene di essere un anarchico, ma ci sono prove schiaccianti che lo collegano ai servizi segreti e all’estrema destra.
Una città divisa, un passato contestato
Gli eventi del 1968, la bomba di piazza Fontana nel 1969, la morte di Pinelli, il caso Valpreda, ebbero tutti un impatto centrale sulla città di Milano. In tutto quel periodo, la città visse una divisione profonda, non solo riguardo all’impatto politico di queste vicende, ma anche rispetto alle vicende stesse. I fatti, come la loro interpretazione politica, furono e sono tuttora messi in discussione. Questa spaccatura si evidenziò in diverse maniere. In modo palese, durante manifestazioni e campagne politiche, ma anche in altri momenti pubblici e privati. Funerali, cerimonie, anniversari, commemorazioni, lapidi e pietre tombali, opere artistiche, teatrali e cinematografiche – tutto questo era vissuto in città secondo le interpretazioni diverse e contrapposte di questa tragica sequela di eventi. Inoltre, lo spazio fisico connesso agli eventi di piazza Fontana divenne anch’esso un notevole territorio di polemica e di scontro. La piazza stessa fu l’arena di numerose manifestazioni spesso violente, come pure gli altri luoghi in città legati in modo più o meno rilevante alla strage: il Palazzo di Giustizia, la Questura, la casa di Calabresi, il Duomo. Con il passar del tempo, questi conflitti divennero conflitti sulla memoria, sull’oblio, sulla giustizia. Gli «anni di piombo» dei due decenni successivi, caratterizzati dal terrorismo sia di destra sia di sinistra, hanno contribuito notevolmente a creare un processo di crescente confusione riguardo agli eventi di piazza Fontana.
Nel 1991 Corrado Stajano – uno dei giornalisti più impegnati a far chiarezza sulla strage e sui fatti da essa derivati – si chiedeva preoccupato sulla rivista satirica «Cuore» se i giovani degli anni Novanta sapessero qualcosa riguardo a piazza Fontana. Le sue perplessità, intitolate provocatoriamente Piazza Lontana, si rivelarono effettivamente fondate, con la pubblicazione la settimana seguente di una serie di articoli sulle bombe scritti da alcuni studenti. Era chiaro che molti non avevano la più vaga idea riguardo ai fatti del 12 dicembre e alle loro conseguenze. La maggioranza attribuiva la tragedia alle Brigate Rosse, gruppo terroristico di estrema sinistra, nato solo agli inizi degli anni Settanta. Altri semplicemente ammettevano la loro totale ignoranza. Sia l’editore del giornale che i professori rimasero allibiti.
Uno degli obiettivi di questo lavoro è quello di esaminare come e perché questo sia potuto succedere. È mai possibile che gli eventi violenti, controversi, e scioccanti del 1969 e quanto ne seguì siano stati dimenticati e persino ignorati? In che modo possiamo conciliare la centralità del 12 dicembre 1969 – centralità sottolineata da tutti quelli che hanno scritto sul tema – con l’apparente indifferenza della generazione degli anni Ottanta?
Iniziamo dal caso Pinelli. Sin dalla morte di Pinelli nel dicembre del 1969, ci sono state controversie su come fosse morto, e perché. Sugli stessi fatti non è mai stato raggiunto un accordo. Esistono numerose versioni e ne spuntano di nuove, quasi quarant’anni dopo il tragico evento. Queste divisioni hanno continuato a separare i modi in cui Pinelli è ricordato: esistono infatti due lapidi molto simili dedicate all’anarchico, ubicate nello stesso posto, ma con messaggi differenti sulle circostanze della sua morte. Una prima linea divisoria può essere tracciata tra due contrastanti versioni della drammatica «caduta» di Pinelli dalla finestra della Questura nel 1969. La polizia dichiarò immediatamente che Pinelli si era suicidato, aggiungendo (falsamente) che era «profondamente compromesso» con l’attentato di piazza Fontana. Intanto, ben presto si iniziò a sospettare che le cose fossero andate diversamente.
Prese così forma un’altra versione, secondo cui Pinelli era stato assassinato. Le prove di questa versione risiedono soprattutto nel groviglio di menzogne e nelle versioni confuse rilasciate dalla polizia, e nel rifiuto di credere che Pinelli fosse il tipo di persona che potesse suicidarsi. Inoltre, molti accusarono la polizia della morte di Pinelli, indipendentemente dal fatto che fosse stato assassinato o meno. Dopotutto, era stato trattenuto illegalmente, per un crimine con cui non aveva nulla a che fare, ed era stato sottoposto a interrogatori per tre giorni e tre notti. Versioni più estreme parlano di torture di vario genere. La polizia negò qualunque sopruso. L’ultima parola giudiziaria sul caso Pinelli arrivò nel 1975, e fu un compromesso tra le due versioni generali offerte dalla polizia e dal «movimento».
Secondo la giustizia italiana, Pinelli non si era suicidato né era stato ucciso. Era stato colto da «malore», in parte dovuto al trattamento da parte della polizia, ed era «caduto» dalla finestra, morendo. «L’aria della stanza è greve, insopportabile. Apre il balcone, si avvicina alla ringhiera per respirare una boccata d’aria fresca, un’improvvisa vertigine, un atto di difesa in direzione sbagliata, il corpo ruota sulla ringhiera e precipita nel vuoto. Tutti gli elementi raccolti depongono per questa ipotesi.» Questa versione non soddisfò praticamente nessuno, e da allora è sempre stata ridicolizzata. Non abbiamo ancora un’idea chiara di quello che accadde in quella piccola stanza della polizia la notte del 15 dicembre 1969. Molte persone ne sono a conoscenza, non ultimi i poliziotti che erano lì con Pinelli (la maggioranza dei quali oggi è morta), ma una versione accettabile dei fatti non si è mai materializzata. Questa incertezza non ha fatto altro che esacerbare il conflitto sulla memoria del caso Pinelli, simboleggiata dalla «guerra delle lapidi» a Milano dopo il 2006.
La morte di Pinelli divenne un evento centrale negli anni Settanta in Italia, per tutta una serie di ragioni storiche e culturali. Primo, la natura tragica, quasi cinematografica, dell’evento destò interesse e dibattiti, così come i raffazzonati tentativi di copertura e le menzogne della polizia, facilmente confutabili. Secondo, la morte di Pinelli era intimamente collegata ad altri eventi scioccanti di quel periodo – la strage di piazza Fontana per cui fu arrestato, ma anche l’omicidio nel 1972 dell’ispettore di polizia Luigi Calabresi, accusato da molti dell’«assassinio» di Pinelli. Terzo, la natura del caso Pinelli si accordava con la mitologia e la storia della sinistra. Molti tracciarono dei paralleli con la morte inspiegata di altri anarchici in circostanze simili in Italia e negli Stati Uniti. La «caduta» di Pinelli si inseriva in una storia più ampia, suscitando memorie e passioni che andavano oltre l’evento in sé. Infine, il caso Pinelli era un giallo affascinante, con svolte improvvise e colpi di scena, misteri e travisamenti, e un cast di loschi personaggi. L’iconografia di Pinelli fu potente, e ispirò quadri, libri, film, rappresentazioni teatrali, poesie e canzoni.
La campagna per il suo personaggio si trasformò rapidamente in una componente cruciale del movimento per la giustizia (e per la vendetta) legato alla strage di piazza Fontana e alla «strategia della tensione». Inoltre, la campagna tenne il caso aperto, con la creazione di immagini indimenticabili e la riesumazione di macabri dettagli. Una serie di miti entrò a far parte del folklore della sinistra. Il caso Pinelli comprendeva anche altri personaggi che contribuivano alla natura drammatica della vicenda, prima tra tutti la moglie, Licia, e le loro due giovani figlie. A pochi mesi dalla sua morte, il caso Pinelli era diventato parte integrante dell’identità della sinistra. Schierarsi politicamente significava prendere posizione sul caso Pinelli. Qui non era ammessa nessuna zona grigia. Il linguaggio in quanto tale divenne oggetto di discussione, una linea divisoria tra destra e sinistra. Per molti, Pinelli non era solo caduto, piuttosto era «stato fatto cadere», era «stato fatto suicidare», «stato fatto precipitare». Furono i corpi a dominare il caso Pinelli. Le foto del suo cadavere furono sfruttate per i manifesti propagandistici prodotti dalla sinistra. Le sue ferite, o presunte tali, furono analizzate nel minimo dettaglio, così come le diverse fratture.
Un potente mito diffuso dalla sinistra – che Pinelli fosse stato ucciso da un colpo di karate – derivò dall’esame di un gonfiore sulla spalla dell’anarchico. La radiografia della sua schiena fu pubblicata sui giornali. Tutti conoscevano l’esatta altezza di Pinelli: un metro e sessantasette centimetri. Il corpo di Pinelli fu seppellito, poi riesumato per nuove autopsie, poi riseppellito, riesumato di nuovo e infine sepolto a Carrara. La prima riesumazione fu descritta con minuziosi e cruenti dettagli su tutti i principali quotidiani. Un manichino che rappresentava Pinelli fu gettato quattro volte da una finestra di fronte a fotografi e cameraman. Il tragitto di Pinelli per l’ospedale fu ripercorso dal giudice che investigava sul caso. Immagini del volto di Pinelli dominarono manifestazioni, manifesti e necrologi per anni. Nonostante le varie indagini e la sentenza del 1975, molti restarono convinti che Pinelli fosse stato assassinato. Dal 1969 i casi di Pinelli e di piazza Fontana hanno ispirato libri, articoli, campagne, canzoni, manifestazioni, inchieste pubbliche, romanzi, rappresentazioni teatrali, dipinti e monumenti, alcuni dei quali saranno discussi in questa sede.
Negli anni Settanta sorsero profonde divisioni in città sull’interpretazione di piazza Fontana e della morte di Pinelli. Molti hanno paragonato Milano dopo il 1969 alla Parigi del caso Dreyfus. Il periodo successivo alla strage fu segnato da conflitti su tutte le forme di memoria, incluse lapidi, memorial e monumenti. Come ha scritto Van Hass nel suo studio sul Vietnam War Memorial a Washington, le reazioni al «muro» costituiscono una sorta di «instancabile memoria […] una conversazione sull’America post-Vietnam» e una «continua negoziazione pubblica su patriottismo e nazionalismo». Ma alcuni memorial sono più contestati di altri. Molte lapidi meritano a malapena di essere menzionate persino quando vengono scoperte. Conflitti e attenzione nascono quando la lapide è strettamente collegata a recenti controversie politiche e sociali che hanno diviso una città, la società o la nazione. Ovviamente queste riflessioni si applicano anche al caso Pinelli, e non c’è da stupirsi che una lapide dedicata a Pinelli, una piccola e semplice lastra di marmo su cui sono iscritte solo ventitré parole, sia stata la lapide più discussa in tutta la storia della città.
Un altro evento intensificò ulteriormente l’atmosfera creata dalla strage di piazza Fontana e dal caso Pinelli. Il 17 maggio 1972 Luigi Calabresi, il poliziotto che aveva arrestato Pinelli nel 1969, fu freddato fuori da casa sua a Milano, mentre stava andando a lavorare. Un’immensa folla partecipò al suo funerale. Malgrado le lunghe indagini della polizia, nessuno fu accusato dell’omicidio. La campagna della stampa (in particolare quella del giornale «Lotta Continua») contro Calabresi fu ritenuta da molti responsabile del suo omicidio, e giornalisti come Camilla Cederna furono accusati di essere i «mandanti morali» dell’esecuzione. L’omicidio di Calabresi divenne l’oggetto di una seconda straordinaria serie di processi e campagne alla fine degli anni Ottanta, quando tre ex militanti dell’organizzazione di sinistra Lotta Continua furono arrestati, accusati e alla fine incarcerati per l’omicidio del poliziotto. La storia delle memorie legate al caso Calabresi mette in ombra quelle legate a Pinelli. È quasi impossibile raccontare uno dei due episodi senza fare riferimento all’altro. I dibattiti sulla loro memoria erano teoricamente separati, ma di fatto i due casi erano intrecciati. Come vedremo, spesso le domande di riconoscimento della «verità» da una delle due parti coincidevano con richieste di rimozione o alterazione delle memorie dell’altra. Memorie e commemorazioni erano divise, ma vivevano in simbiosi, in un continuo gioco di rimandi. Tali dibattiti si focalizzavano spesso sulla memoria pubblica.
Cinque lapidi
12 dicembre 1973
Nel quarto anniversario della strage di piazza Fontana, una lapide fu inaugurata sul prato davanti alla banca, in un’atmosfera di «totale tranquillità»: undici corone furono collocate alla base della lapide, che riportava questa semplice iscrizione:
Milano popolare e democratica a ricordo e monito pone
(nomi delle vittime)
Vittime della strage di piazza Fontana
12 dicembre 1969 – Milano – 12 dicembre 1973
Comitato permanente per la difesa antifascista
dell’ordine repubblicano
15 dicembre 1975
La prima lapide dedicata a Pinelli è collocata a piazzale Lugano a Milano da anarchici milanesi. L’iscrizione sul marmo è la seguente:
Nel sesto anniversario
dell’assassinio di Giuseppe Pinelli
gli anarchici milanesi
testimoniano
che non archivieranno
questo delitto di Stato
15 dicembre 1975
16 dicembre 1977
Quella sera un modesto gruppo di studenti militanti, anarchici ed ex partigiani pone una lapide in memoria di Giuseppe Pinelli sul prato davanti alla banca di piazza Fontana, accanto a quella delle vittime. L’iscrizione è la seguente:
Giuseppe Pinelli
ferroviere anarchico
ucciso innocente
nei locali della questura di Milano
il 16 dicembre 1969
gli studenti e i democratici milanesi
12 dicembre 1979
A piazza Fontana viene messa una nuova lapide di marmo sul muro della banca, il giorno del decimo anniversario del massacro. Questa lapide riportava un’iscrizione diversa da quella del 1973 che veniva a sostituire e che era stata tolta. I nomi delle vittime furono letti ad alta voce mentre si scopriva la lapide durante una solenne cerimonia. Ecco l’iscrizione:
In questa piazza
luogo di operosi incontri civili
il 12 dicembre 1969
un criminoso attentato
recava tragica sfida
alla città e alle istituzioni
repubblicane.
Milano popolare e democratica
onorava con determinazione
il sacrificio delle vittime
innocenti mobilitandosi
contro l’attacco eversivo
e contro ogni tentativo di avventurismo autoritario
a riconferma dell’attualità dei valori di libertà e giustizia
cardini del rinnovamento civile e sociale del Paese.
A memoria del sacrificio di
(nomi delle vittime)
Milano pone il 12 dicembre 1979
3 novembre 1989
La lapide di Pinelli fu rimossa per lavori sulla piazza, lucidata, e riposta dove era prima. Il sindacato locale di polizia, dopo i falliti tentativi per rimuoverla definitivamente, collocò un’altra lapide per conto proprio sul muro della caserma di piazza Sant’Ambrogio, dedicata a Luigi Calabresi. Le parole sono:
A ricordo
del commissario
della polizia di Stato
Luigi Calabresi
assassinato
da mani eversive
i poliziotti di Stato
3 novembre 1989
Tre commemorazioni
Dopo proteste di manifestanti e dei familiari delle vittime, una lapide fu finalmente posta nel 1973 per commemorare le vittime della bomba di piazza Fontana. La lapide fu collocata sul prato davanti alla banca. Diventò il punto centrale di manifestazioni ufficiali da quel momento in poi, anche se ci furono polemiche al momento della scoperta nel 1973, quando le famiglie delle vittime si lamentarono di «non essere state invitate» alla cerimonia inaugurale. Il Comitato replicò che aveva voluto un’inaugurazione pubblica, senza inviti ufficiali. L’iscrizione era semplice e tradizionale. Nessuno ebbe da lamentarsi della lapide in sé, ma furono in molti a notare la sua posizione piuttosto marginale nella piazza.
Nel 1977, dopo una discussione fra quello che era rimasto del movimento studentesco del Sessantotto, alcuni partigiani e gli anarchici, una lapide non ufficiale a Pinelli fu messa durante una manifestazione nella piazza, vicino a quella ufficiale (pare che gli organizzatori volessero collocarla fuori dal Comando dei vigili sulla piazza, e poi sul muro della banca stessa, ma nessuno di quei posti fu loro concesso). Nelle parole di Mario Martucci, studente attivista e tra gli organizzatori della realizzazione della lapide: «La collocazione nella piazza era un fatto obbligato che nasceva dalla verità dell’accaduto; c’erano le lapidi per le vittime della bomba e considero Pinelli doppiamente vittima di chi volle e organizzò l’attentato». Quelli che avevano contribuito a erigere la lapide informarono la polizia e le autorità locali, e la mancata azione da parte di questi suggerì una tacita accettazione. Legalmente, tuttavia, la lapide era «abusiva», ossia senza un permesso ufficiale scritto.
L’evento ebbe poca ripercussione sui giornali, anche sulla stampa rivoluzionaria, in quel momento. Ma quasi subito dopo le proteste cominciarono ad aumentare. La Democrazia cristiana annunciò ufficialmente che la lapide doveva essere rimossa immediatamente, e si lamentò dell’«arbitraria posa di una lapide in piazza Fontana […] dove viene ancora una volta strumentalizzata la memoria di un cittadino innocente, Pinelli». Perché tutte queste proteste? Il problema era che la lapide rappresentava solo una versione della storia di Pinelli. L’anarchico era stato «ucciso» nei «locali della Questura». Questa versione non era stata provata da nessuna inchiesta giudiziaria, ma era anche la versione che la maggioranza delle persone coinvolte nel caso Pinelli credeva fosse quella giusta. La lapide presentava dunque un aspetto di una vicenda estremamente contestata che aveva diviso la città, e la presentava come un fatto incontestabile.
È per questo che la lapide ha provocato tante controversie. Attraverso gli anni furono diversi i tentativi di rimuoverla da parte di magistrati, organizzazioni di polizia e gruppi politici, risultanti in manifestazioni, presidi e dibattiti a favore della stessa. Gli anniversari in commemorazione di Pinelli cominciarono a focalizzarsi attorno alla lapide, intanto che la partecipazione diminuiva. La lapide divenne l’unico mezzo di mantenere viva, almeno in parte, la memoria di Pinelli. La memoria su quanto era accaduto a Pinelli era divisa, ma solo una delle due parti di quella memoria aveva assunto la forma di un oggetto commemorativo.
Nel 1981 la lapide fu trovata a pezzi una mattina dai vigili urbani (presumibilmente per opera dei fascisti). L’organizzazione originaria fece costruire una lapide nuova, che fu ricollocata con una cerimonia. Nel 1986 il sindaco Tognoli dovette ammettere che la lapide mancava di autorizzazione ufficiale. L’anno dopo il sindaco Pillitteri scatenò notevoli polemiche con l’annuncio della necessaria rimozione della lapide, e della sua eventuale sistemazione nel Museo di Storia contemporanea di Milano. L’argomentazione del sindaco era che nel 1987 la lapide era diventata ormai parte della storia. Si sbagliava. Seguirono imponenti manifestazioni. Dario Fo organizzò una serie di repliche del suo pezzo teatrale Morte accidentale di un anarchico che ebbe inizio a tempo record, in dicembre. Fo dichiarò: «Non mi andava di accettare passivamente la rimozione della lapide di Pinelli». Altri sostenevano che quel museo copriva il periodo fino alla Resistenza, e che la lapide di Pinelli sarebbe sicuramente finita nei sotterranei. Martucci, uno dei responsabili della lapide, dichiarò che «togliere la lapide da piazza Fontana significa ammazzare Pinelli, perché un uomo muore quando si cancella anche il suo ricordo; noi dicevamo che la storia si scrive sulle piazze; oggi c’è chi vorrebbe farci credere che la si impara nei musei». Pillitteri fece marcia indietro. La lapide rimase al suo posto. Importava.
La più recente minaccia alla lapide arriva nel 1989, con una campagna da parte di uno dei sindacati di polizia a favore di un’altra dedicata a Calabresi. Dopo aver minacciato di rimuovere loro stessi la lapide a Pinelli, o di porre quella di Calabresi vicino, i sindacati ritrattarono, collocando la loro lapide a Calabresi (ancora una volta senza permesso ufficiale) nella caserma di piazza Sant’Ambrogio.
La lapide a Pinelli torna ancora a essere il centro dell’attenzione nel 1994. Lavori nella piazza rendono necessaria la rimozione temporanea della lapide. Ci fu una mozione di un consigliere di sinistra per ottenere la garanzia che fosse rimessa al suo posto non appena finiti i lavori. Grazie all’astensione della Lega, la mozione passò, dando status istituzionale a una lapide che non era mai stata ufficiale. Altre richieste esigevano un cambiamento nelle parole della lapide dedicata a Pinelli (per esempio «morto innocente nei locali della Questura»), o l’eliminazione di alcune frasi «controverse». Alcuni presero la legge nelle loro mani, alterando le parole sulla lapide. I dibattiti sulla lapide a Pinelli riflettono le divisioni aperte in città dopo il 1968-1969, ma le affermazioni a favore della lapide da parte dei sostenitori erano esagerate, e riflettevano quanto questa fosse stata sovraccaricata di valore politico e simbolico. Camilla Cederna dichiarò che rimuovere la lapide avrebbe significato «annullare la storia», Salvatore Veca la descrisse come «un pezzo di memoria collettiva», Mario Spinella insistette che «il suo posto fosse sul luogo della strage». Gli anarchici, che avevano la loro lapide a Pinelli, definirono la tentata rimozione una provocazione e un tentativo di riscrivere la storia. La lapide era non ufficiale e «anarchica», «l’avevamo collocata noi, come atto di sfida, come mezzo per affermare una nostra verità».
Emersero proposte alternative. Una di esse proponeva un monumento congiunto a tutte le vittime di piazza Fontana (un’idea nata dalla sinistra alla fine degli anni Settanta), un’altra faceva riferimento a una meno chiara categoria di «vittime degli anni Sessanta». La lapide a Pinelli (e la richiesta per un monumento a Calabresi) divenne parte dell’identità di differenti generazioni. Era «il nostro passato», «la nostra verità». Concedere spazio a dubbi, consentire a più verità di emergere, significava spazzare via parte di quell’identità. I sessantottini erano ansiosi di difendere quel passato, anche se molti di loro, nel frattempo, erano diventati persone diverse. Nella maggior parte dei casi non erano più militanti politici, ma la lapide di Pinelli era qualcosa per cui volevano ancora combattere. Nel frattempo, una nuova lapide alle vittime era stata collocata sul muro della banca nel 1979. Conteneva una nuova e più lunga iscrizione che faceva diretto riferimento ai funerali delle vittime. Questa lapide non è facile da vedere, perché si fonde con la banca e con il tempo la scritta si va cancellando. La stragrande maggioranza delle persone ci passa davanti senza fermarsi. L’intenzione originaria – «chi passa davanti a piazza Fontana […] ricordi» – sembra sia fallita. Persino i necrologi diventarono politicamente esplosivi in questa atmosfera di tensione creata dal caso Pinelli.
Nel dicembre del 1970 il quotidiano finanziato dallo Stato «Il Giorno» iniziò una tradizione di necrologi gratuiti per Pinelli. I giornalisti del «Giorno» (tra cui Stajano, Marco Nozza e Giorgio Bocca) avevano dedicato molto spazio al caso Pinelli. Gli annunci ogni 12 o 15 dicembre spesso aprivano con una grande foto di Pinelli, e nel momento culminante, all’inizio degli anni Settanta, si arrivò a due e anche tre pagine, a volte divise in regioni. I firmatari includevano giornalisti, sindacalisti, attivisti politici, studenti, preti, magistrati, avvocati, ex partigiani. I necrologi in testa erano spesso dei familiari di Pinelli. «Licia, Silvia, Claudia nel secondo anniversario della morte del marito e padre», 16 dicembre 1971. Molti messaggi affermavano la versione «pro Pinelli» dei fatti – «è “caduto” due anni fa in Questura», 16 dicembre 1971 – mentre altri facevano affermazioni politiche più generiche. Molti sottolineavano il bisogno di «non dimenticare». Questa tradizione apparve in altri giornali di sinistra, come «la Repubblica». Nel 1987, nell’ambito dei dibattiti sulle lapidi, «Il Giorno» pubblicò una grande foto di Pinelli, con le parole «non dimenticano», seguite da circa cinquecento nomi. Nel 1997, in seguito alla nuova gestione del «Giorno», cessò la tradizione dei necrologi gratuiti. Questi necrologi costituivano una forma particolare di commemorazione. Come testimonianza pubblica di lutto e di ricordo, essi occupavano una sorta di area grigia fra il rito religioso e la cerimonia politica. La tradizione divenne famosa, e mobilitò migliaia di persone a mandare messaggi al giornale nei primi anni Settanta. D’altro canto, fece infuriare il settore milanese opposto, in altre parole quelli che sostenevano che Pinelli non fosse stato assassinato.
Dopo la morte di Calabresi, i necrologi furono utilizzati contro quelli che li avevano fatti pubblicare. La rivista di estrema destra «Candido» rieditò la serie di annunci del 1971 del «Giorno» sotto una testata a bandiera con le parole I mandanti morali. Un articolo al vetriolo intitolato Una banda di sciacalli sul cadavere di Pinelli attribuiva ai firmatari dei necrologi la responsabilità del «linciaggio morale» di Calabresi. «La maggior parte degli italiani si riconosce oggi in Calabresi come ieri si riconobbe in Annarumma e non in Feltrinelli né in Valpreda. Gli italiani sanno ancora distinguere, grazie a Dio, i martiri veri da quelli falsi.» I necrologi per Calabresi occuparono intere pagine del «Corriere della Sera» il 20 maggio, ma non diventarono mai un rito politico analogo a quello suscitato dagli annunci per Pinelli sul «Giorno».
Tutti i tipi di commemorazioni, ufficiali e non, riflettevano le linee contrapposte sorte in città dalla strage e dal caso Pinelli. Spesso, specialmente durante gli «anni di piombo», i tentativi non ufficiali di mantenere vivi certi ricordi, o di spingere per una certa versione dei fatti, causarono più controversie e scontro delle asciutte lapidi ufficiali che coprivano la città. Eppure, mentre il movimento svaniva e il caso Pinelli perdeva la sua forza, questi monumenti diventavano centri di attenzione e di riflessione di un movimento più vasto. L’importanza legata alla lapide Pinelli si può comprendere, in quanto rappresenta un’ultima presa di posizione disperata in un’immaginaria battaglia contro la perdita della memoria. È come se l’intero caso, i processi, i dibattiti, le centinaia di libri pubblicati sul tema, fossero stati ridotti a un’amara discussione su qualche parola – «ucciso» o «morto»?, «nei locali» oppure no? La lunga saga della lapide è un segno di come il caso Pinelli non occupi più spazio nei pensieri dei milanesi, né divida la loro città come faceva una volta. Non è più un tema politico immediato e scottante, ma una questione di memoria divisa. Una «parte» si sentì defraudata da una versione politica presentata dalla lapide, la cui presenza stessa era una minaccia alle sue memorie e narrazioni. Nella primavera del 2006 questa «altra» parte ebbe una (breve) vittoria.
Atto finale? Gli eventi del 2006
Proprio quando sembrava che l’intero episodio potesse considerarsi chiuso, ci fu un altro coup de théâtre. Alle quattro del mattino del 18 marzo alcuni membri della giunta locale rimossero in segreto la vecchia lapide a Pinelli e ne affissero un’altra al suo posto. La nuova targa aveva un testo diverso:
Comune di Milano
A Giuseppe Pinelli
Ferroviere anarchico
Innocente morto tragicamente
nei locali della Questura di Milano
il 15 dicembre 1969
La notizia della sostituzione si diffuse velocemente, e seguì un dibattito. Tre giorni più tardi, anarchici e oppositori si riunirono in piazza Fontana per una manifestazione. La sommossa si chiuse con la ricollocazione della vecchia lapide accanto a quella nuova. Tuttavia, questa non era la targa che era stata rimossa dalla giunta, ma una targa più vecchia che era stata sostituita dagli anarchici alcuni anni prima. Ora la piazza aveva due targhe – quasi identiche – dedicate a Pinelli, e quella «vecchia» era diventata tecnicamente illegale, di nuovo. Le proteste furono circondate da una buona dose di retorica. Il 24 marzo 2006 «l’Unità» definì la vecchia lapide «la vera lapide», mentre quella nuova fu descritta come «taroccata»: «La stupida ottusità del revisionismo che alcuni tentano di far passare per realtà».
Albertini, il quale – va ricordato – negli ultimi anni aveva avuto la tendenza a non partecipare agli anniversari di piazza Fontana, dichiarò che aveva promesso alla vedova di Luigi Calabresi che la lapide sarebbe stata rimossa, in quanto rappresentava «un insulto» alla memoria del suo defunto marito: «Il commissario Calabresi è un benemerito della nostra città, e quella targa, che lo accusava di fatto di essere un assassino, ne infangava la memoria. Così il comune ristabilirà la verità storica». Proteste e messaggi erano in linea con le divisioni politiche, benché nella destra qualcuno dubitasse della saggezza di quel cambiamento proprio nel mezzo della campagna elettorale. Molti sostennero che la sostituzione della lapide fosse una forma di oblio, di revisionismo. Ancora una volta, la grande difficoltà dell’Italia nel creare consenso, e quindi una memoria condivisa, su eventi passati, era stata rivelata da come quegli eventi – i fatti veri e propri del passato – fossero ancora oggetto di controversia e politicizzazione. La vedova di Pinelli espresse il suo «shock» per l’intera vicenda, e aggiunse: «Neppure ciò riuscirà a cancellare dal cuore di Milano la memoria di Pino». La maggioranza di centro destra della giunta cittadina rifiutò di sospendere le sue attività per consentire ad alcuni membri di partecipare alla sessione. I consiglieri di centro sinistra se ne andarono comunque, e la seduta fu cancellata in quanto non raggiungeva il quorum. Uscendo dall’aula, il consigliere dei Verdi Basilio Rizzo ripeté la frase: «Milano non dimentica». Ma cosa esattamente si stava ricordando – e dimenticando –, e da parte di chi?
Nel frattempo, la memoria pubblica riguardante Calabresi si stava evolvendo. Nel 2007 furono inaugurate due lapidi ufficiali dedicate al commissario. Una era negli uffici centrali della giunta provinciale di Milano (dove la maggioranza era di sinistra), e l’altra nel luogo in cui gli spararono nel 1972. Questo sobrio monumento dice:
Qui, davanti alla sua casa, mentre si recava al lavoro, il 17 mag-
gio 1972, il commissario Luigi Calabresi cadde vittima del terrorismo.
Milano, 17 maggio
Alla Provincia, invece, si legge:
A Luigi Calabresi, fedele servitore dello Stato, vittima della spirale
di violenza politica che bagnò di sangue innocente le strade
A 35 anni dal suo vile omicidio lo ricorda e lo onora la Provincia
In un certo senso, questa proliferazione di monumenti sembra avvallare la pluralità delle opinioni, in una sorta di pacificazione – ma di certo denota anche la prosecuzione di un conflitto sul passato e sulla sua interpretazione. Nello stesso anno un bestseller di Mario Calabresi, Spingendo la notte più in là, aprì il dibattito sulle modalità attraverso cui Calabresi (e Pinelli) erano stati ricordati. Il 2008 fu l’anno del primo giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo in Italia (una data fissata per il 9 maggio, il giorno in cui il cadavere di Aldo Moro fu esibito nel centro di Roma). Non esiste alcun elenco ufficiale di queste vittime, e la categoria «vittime del terrorismo» fu legata a un’organizzazione non ufficiale. Nel 2009, un incontro fra Licia Pinelli e Gemma Calabresi a Roma durante le commemorazioni del giorno della memoria suscitò emozione e molti commenti. Alcuni dichiaravano che gli scontri degli anni Settanta erano «chiusi». Ma non era proprio così. A partire dal 2006, più di un commentatore ha sostenuto che le due targhe dedicate a Pinelli dovrebbero essere conservate, in quanto riflettono continue divisioni sui modi in cui quegli eventi sono ricordati. Mentre sto scrivendo (nel 2009), questo è quello che di fatto è successo, fornendo così agli abitanti di Milano un quotidiano ed evocativo promemoria delle memorie divise (e non solo) intorno all’esperienza degli anni Sessanta e Settanta.
La memoria divisa si stava riflettendo nella memoria pubblica, nella perfetta immagine delle due targhe, l’una accanto all’altra, con differenti – ma non necessariamente incompatibili, se non per la data – versioni dello stesso evento. Ogni periodo aveva prodotto narrazioni molteplici, che chiedevano di essere riconosciute. Una fragile forma di consenso poteva essere raggiunta solo accettando la divisione. Nessuna organizzazione – lo Stato, il sistema giudiziario, i media – era stata capace di imporre una sola versione accettabile di quanto era accaduto. L’ultima volta che vidi le targhe alla fine del 2008, qualcuno aveva infilato un pezzo di carta nella nuova targa, con scritto il testo di quella vecchia. Nessuno aveva tirato via quel pezzo di carta. Per poco, le due targhe erano identiche.
Memoria, Storia e la Città
Nonostante gli sforzi di scrivere, ricercare, pubblicare, investigare e ricostruire attorno a questo capitolo della nostra vita recente, impegno e scommessa generosa, tesa a erigere argini robusti, affinché la memoria dei fatti non si disperda, scorra dalla nostra generazione alle successive, non diventi fangosa palude o asciutto deserto che tutto ingoia e frantuma e nasconde – ebbene è come se nonostante la robustezza degli argini, il filo della memoria si fosse fatto più esiguo, frammentato, sconnesso. Lasciando posto a quel riverbero inafferrabile che è l’amnesia.
Giorgio Boatti
Nel 1993, la dedica nel libro di Giorgio Boatti su piazza Fontana diceva: «A tutti coloro che si sono ricordati di non dimenticare». Nel 1998, l’autore «si vergognava un po’ di quella dedica, e decise di toglierla per la riedizione del libro». Perché? Prima di tutto, grazie a un’analisi più analitica della funzione della memoria, e alla natura stantia di frasi quasi religiose come «non dimenticare» e «chi dimentica è complice». «La storia inizia» scriveva Halbwachs «quando finisce la memoria.» Forse adesso siamo pronti per scrivere la storia di piazza Fontana, distaccandoci dalle lotte di quegli anni e dalla missione storica di conservare certe versioni e certi ricordi di eventi passati? Il dibattito suscitato dalle riflessioni di Stajano nel 1991 sui giovani e piazza Fontana rivelava non tanto un «dimenticare» quell’evento, ma una totale mancanza di conoscenze basilari su quegli anni. Molti dei giovani che scrissero sulla strage (e queste conclusioni sono avallate da un’inchiesta simile fatta a Brescia) sostenevano che erano state le Brigate Rosse a mettere la bomba. Pinelli, per loro, era una figura sconosciuta. Com’era potuto succedere questo? È solo un processo generale (e normale) reso inevitabile dal passare del tempo? L’unico modo per cominciare a rispondere a queste domande è attraverso un’analisi più generale del significato di memoria collettiva e del ruolo della storia in rapporto agli anni che seguirono l’inizio della strategia della tensione.
La memoria collettiva non è solamente una somma di memorie individuali, e i ricordi stessi sono filtrati nel tempo da credenze politiche, esperienze personali, miti, traumi, piacere e dolore. A molti non era permesso dimenticare. Licia Pinelli cominciò a lasciare la città nell’anniversario di piazza Fontana per evitare le «solite domande» ogni anno. Non esiste proprio una Memoria Collettiva che si mantenga nel tempo, indipendente dall’esperienza personale. Nella Milano divisa, con i suoi fatti contestati e le crepe politiche e sociali, c’erano diverse memorie collettive, spesso in contrasto fra di loro, o che addirittura escludevano altre versioni su ciò che era successo e su chi erano i responsabili. I fatti venivano spesso adattati alle diverse versioni. A volte, questa competizione si creava dentro quello che era apparentemente lo stesso gruppo di forze.
Dopo la strage di Brescia, per esempio, molte famiglie delle vittime rifiutarono l’etichetta generica di «vittime» e caldeggiavano le idee politiche dei loro congiunti, che erano morti perché erano antifascisti, e non perché si trovavano per caso nel posto sbagliato al momento sbagliato. La memoria è raccolta e modellata in altri modi, attraverso i monumenti, il linguaggio, gli slogan, i film, i momenti traumatici quali i funerali, le opere di teatro, le opere d’arte, libri, discorsi, fotografie e dischi. Alcuni posti sono diventati cruciali come «luoghi di memoria» – contestati e contesi, a volte letteralmente, per il diritto di commemorare o per imporre una versione dei fatti su un’altra. Nel processo generale di smobilitazione dei movimenti risultanti dal Sessantotto, le serie di stragi che cominciarono con piazza Fontana si rivelarono «un’arma micidiale di lotta politica, capace di annientare la già debole appartenenza alla nazione e allo Stato». La massa dei processi, degli articoli, delle analisi e delle manifestazioni ha portato a un profondo senso di alienazione e cinismo riguardo allo Stato e le sue istituzioni. È quasi come se la quantità di carta prodotta e la lunghezza dei processi stessi fosse inversamente proporzionale al senso di mancata giustizia o soddisfazione dell’intera vicenda e dei suoi protagonisti. Più corposa diventa l’informazione, meno sembra interessare.
L’ultima inchiesta del giudice Salvini, e l’apparente scoperta del responsabile diretto della bomba, va avanti nella più assoluta indifferenza, o quasi. Nel 1999 la documentazione sul solo processo di piazza Fontana ammontava a circa centosette scatole, ciascuna contenente mille pagine, per un totale minimo di centosettemila pagine. Gli avvocati dovevano affrontare costi intorno ai quindici milioni di lire soltanto per fotocopiare i documenti disponibili. Alcuni sostengono che l’effetto di quella lunga serie di commemorazioni ufficiali è stato quello di nascondere i movimenti collettivi che avevano accompagnato il periodo delle stragi. Come ha scritto Vincenzo Cerami, «cerimonie, commemorazioni, funzioni, liturgie, sfilate di bandiere, discorsi ufficiali non servono a ricordare ma a dimenticare».26 Il vecchio cliché che sosteneva che la mancanza di una verità giudiziaria o ufficiale fosse un incentivo per non dimenticare non si adatta di certo all’esperienza post-1969. Alcuni gruppi a Brescia, per esempio, smisero completamente di andare alle cerimonie ufficiali.
Norberto Bobbio ha tracciato una distinzione fra memoria viva e morta. La seconda consiste in monumenti, libri di storia, testimonianze, lapidi eccetera. Questo tipo di memoria «ha senso soltanto se serve a mantenere viva la memoria interiore. La può sollecitare, ma non la sostituisce. L’una è la memoria morta, l’altra la memoria viva.» Una tomba acquisisce significato solo quando è visitata da un parente, o creata, o spostata, o quando si lasciano dei fiori. Nel caso di piazza Fontana, i dibattiti sono stati praticamente ridotti a un dibattito su una memoria morta – le varie lapidi nelle piazze e altrove. Alcuni scrittori si chiedono perché l’intero periodo non abbia prodotto un importante romanzo, o perché si sia smesso di raccontare la storia delle stragi. Persino uno degli impiegati della banca che avevano visto la bomba non l’aveva mai raccontato ai suoi figli. Le stragi ebbero un effetto devastante su tutta l’Italia, e portarono direttamente al terrorismo che dominò su tutto il resto, e che permea i resoconti di studenti che niente sanno su piazza Fontana. Come si voleva, le stragi hanno creato confusione, violenza, silenzio e paura. «Dopo piazza Fontana cominciò la paura, il sospetto, il timore di esporsi.» Storicamente, ci sono pochi dubbi sull’importanza di piazza Fontana. La strage di sedici innocenti portò non soltanto alla «perdita dell’innocenza» fra quelli della generazione che aveva creato il Sessantotto in Italia, ma anche direttamente all’uso sistematico del terrorismo politico. Se lo Stato era capace di tale violenza, il movimento era costretto a reagire. Una mancanza dannosa di moralità riguardo all’uso della violenza diventò la norma. La violenza era ormai uno strumento, e non più l’ultima risorsa.
La sanguinosa posta in gioco era stata alzata fino a un punto di non ritorno. Per lo Stato italiano, piazza Fontana fu un momento di svolta. Per Bobbio «da piazza Fontana è cominciata la degenerazione del nostro sistema democratico». Per Revelli nel 1969 «una parte consistente dell’apparato statale passò consapevolmente nell’illegalità». Politici, uomini dei servizi segreti, ufficiali militari, poliziotti, giornalisti e altri si misero d’accordo per mascherare e per creare la strategia della tensione. Lo Stato tramava contro i suoi stessi cittadini, imprigionando degli innocenti, creando depistaggi, manipolando le prove. Questa serie di fatti – da piazza Fontana in avanti – minò fatalmente la credibilità delle istituzioni che erano state una parte importante dell’Italia del dopoguerra in seguito alla sconfitta del fascismo. Questa non era soltanto una crisi di legittimazione, ma della fine stessa della legittimità. La democrazia smise di essere un valore, se non nel senso di semplice difesa contro i settori sovversivi dello Stato nascosto. A partire dagli anni Novanta, la verità riguardo agli aspetti oscuri dello Stato era alla portata di tutti, resa trasparente da documenti, documentari, inchieste, confessioni e processi. Eppure, nessuno ascoltava più. Il nesso fra «giustizia», «verità» e memoria era stato spezzato.
Dobbiamo dimenticare piazza Fontana per capirla? Abbiamo il diritto di dimenticare? I più conosciuti fra le vittime di piazza Fontana, i due ragazzi Pizzamiglio che nell’attentato rimasero gravemente feriti, si rifiutarono di rispondere alle domande dei giornalisti nel 1994, nel venticinquesimo anniversario della strage. «Noi da parecchi anni abbiamo deciso di stare zitti.» Un parente di un’altra vittima affermò che «a Catanzaro [dove negli anni Settanta furono trasferiti i processi sulla strage di piazza Fontana per allontanarli dai riflettori della stampa e dall’attenzione del pubblico] mio padre fu ucciso una seconda volta». La frase stessa «non dimenticare» è diventata obsoleta. Come abbiamo visto con gli studenti milanesi, molti non hanno mai saputo quello che è successo. Non si può dimenticare ciò che non si è mai imparato. Un approfondimento della comprensione storica dei fatti può sorgere soltanto attraverso un rinascere, nelle parole di Bobbio, della «memoria viva».
Non c’è dubbio che le discussioni siano state monopolizzate dalle vittime degli strascichi di piazza Fontana, Pinelli e Calabresi, mentre coloro che furono uccisi dalla bomba in sé furono dimenticati, con la loro prolissa e incontestabile lapide raramente notata dai passanti. Come a San Miniato (cfr. altro capitolo del libro, Ndr) le due targhe a Pinelli in piazza Fontana sono un drammatico esempio di come la memoria divisa fosse diventata parte della memoria pubblica, una testimonianza del potere divisivo di quegli eventi e dell’incapacità del sistema giudiziario di raggiungere un’opinione condivisa su questi casi.
John Foot, Fratture d’Italia. Da Caporetto al G8 di Genova. La memoria divisa del Paese., Rizzoli, 2009, pp. 404-427.