di Alfredo Morganti – 2 agosto 2017
Ero un ventenne, iscritto alla FGCI ma con certe frequentazioni gruppettare, per quanto la mia ‘appartenenza’ al partito non fosse mai stata in discussione, anzi. Era la fase del ‘Movimento’, di Radio Alice, della Bologna ‘rossa’ sotto attacco, del comizio di Lama, dei cortei a metà tra happening e violenza, e del ‘convegno contro la repressione’.
In quel periodo trascorsi a settembre qualche giorno a Bologna, per quanto dovessi sostenere di lì a poco il mio primo esame di ‘Letteratura italiana moderna e contemporanea’ col grande professore Giuliano Manacorda. Volevo vedere più da vicino quello che stava accadendo a Bologna. Ero interessato e curioso. Per quanto non avessi alcuna simpatia per il Movimento, lo ritenevo tuttavia un drammatico testimone del malessere sempre più diffuso, seppur malissimo interpretato. I tempi cambiavano, e non bene per la sinistra, in special modo per quella comunista. Bisognava tenere gli occhi aperti.
A Bologna girai un po’, parlai e ascoltai e tentai di farmi un’idea meno approssimativa del fenomeno. Eravamo ospiti di un compagno che conosceva bene la città, e che ci fu utilissimo a capire meglio la situazione. Una sera, poi, andammo a cena alla Festa dell’Unità del quartiere Lame. Conoscevo il ‘Canzoniere della Lame’ e il brano che raccontava lo sciopero improvviso del personale dell’autogrill Motta di ‘Cantagallo’ alla presenza di Almirante e dei suoi, fermi lì per un mangiare panino: “Poc da fèr mo’ què a Bulagna pr’i fasesta an’gn’è gnanc un panein”. Mi “sentivo a casa mia” insomma, altro che le feste del PD. Ci mettemmo in fila allo stand ristorante e mi accorsi subito, dando di gomito a un compagno di Roma, che lì davanti, in fila con noi c’era Renato Zangheri, il ‘Sindaco’. Aveva una camicia chiara e un golfino viola sulle spalle. Parlava un po’ con tutti. A dire il vero, eravamo gli unici a essere eccitati, perché per gli altri, per i bolognesi, si trattava di una presenza abituale, popolare, consueta.
Buonasera Sindaco, cosa prendiamo?” dice uno dello stand. Zangheri saluta affabilmente, ringrazia e indica i fagioli con le cipolle. Mette il piatto sul vassoio, ringrazia ancora, paga alla cassa e va verso i tavoli. Dopo di che tocca a noi, riempiamo i nostri vassoi, paghiamo e andiamo a nostra volta ai tavoli. Il caso volle che ci sedemmo proprio vicino al ‘Sindaco’, e per questa vicinanza non proferimmo verbo per tutto il pasto. Ci limitammo a guardare di sottecchi ogni tanto nella sua direzione, quasi imbarazzati dalla sua presenza. Eravamo giovani al punto da provare verso un militante più anziano, e poi di quella levatura, un profondo rispetto, quasi una sorta di timore reverenziale. Per quanto conoscessi il partito, lo stile dei suoi dirigenti storici, la loro capacità di parlare agli operai e assieme di tenere un convegno su temi filosofici, era bello vedere il ‘Sindaco’ seduto lì, tra noi, uno tra gli altri, alle prese col suo semplice piatto di fagioli stracolmo, debbo dire, di cipolle. A me quel piatto semplice, quei tavoli lunghi con tanta gente seduta, quella cordialità diffusa, la parlata in dialetto, quell’essere ‘pari’ tra ‘pari’, erano una specie di metafora, la conferma di una convinzione, un segno che indicava prossimità, frugalità, sobrietà, e assieme grandezza intellettuale e morale. Un miracolo insomma. Uno stile, di cui oggi sentiamo la mancanza. Così come sentiamo la mancanza di compagni, intellettuali, signori e uomini di altri tempi come Renato Zangheri.