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di ROBERTO CICCARELLI, 23 settembre 2016
questo articolo è stato pubblicato su Prismomag il 21 settembre 2016
Un paio di settimane fa ho visto la puntata Il pianeta dei robot di Presa diretta, una delle poche trasmissioni Tv che fanno inchiesta in Italia. Bella trasmissione, e se siete interessati potete rivederla qui. Peccato che abbia accreditato la solita versione apocalittica della cosiddetta “ideologia californiana”.
Per Richard Barbrook e Andy Cameron, autori venti anni fa dell’omonimo libro, la cosiddetta Californian Ideology è quel mix di libero spirito hippie e zelo imprenditoriale yuppie su cui fonda l’intero immaginario della Silicon Valley. Questo amalgama degli opposti si rispecchia nella fede indiscussa nel potenziale emancipatorio delle nuove tecnologie dell’informazione, nella credenza che la robotica e l’automazione renderanno inutile la forza lavoro, e nella previsione che con la cancellazione di milioni di posti di lavoro (dai trasporti alla logistica, fino alla sanità e tutto il resto) non ci sarà modo di guadagnare da un’occupazione. A meno che non ci sia un reddito di base universale.
In questa miscela di cibernetica, economia liberista e controcultura libertaria, frutto della bizzarra fusione tra la cultura bohémienne di San Francisco e la nuova industria hi-tech, in effetti il reddito di base è un tema di discussione; per Andrew McAfee e Erik Brynjolfsson, autori de La nuova rivoluzione delle macchine, Google, Facebook, Apple e gli altri giganti dovrebbero inoltre pagare più tasse, argomento attualissimo anche in Europa dopo lo scontro tra la Commissione Ue e il governo irlandese sui maxi-sconti fiscali garantiti per anni alla Apple. Ma nel dibattito reale della Silicon Valley, le cose non stanno proprio così.
I “nuovi feudatari” della rete, accettano sì l’idea di un reddito base universale, ma a condizione che non sia la Silicon Valley a pagare il conto: è lo Stato che dovrebbe cancellare ogni forma di aiuto economico pubblico per convertire i fondi in assegni da dare direttamente ai privati. Nell’illusione di diventare un imprenditore tecnologico di successo, uno “startupperoe”, lo Stato diventa quindi l’erogatore di assegni guadagnati sulle piattaforme del capitalismo interconnesso: il welfare sarà il supporto sociale delle nuove agenzie di servizi online, e i diritti sociali verranno legati alla partecipazione del consumatore che produce informazione (prosumer) ai ritmi della macchina.
Chauffeur per tutti
McAfee e Brynjolfsson hanno fatto un tour nella terra promessa dell’intelligenza artificiale, e hanno avuto una rivelazione quando sono saliti su una macchina Google che si guida da sola; il congegno assomiglia a una smart ed è la promessa simbolica per i guidatori della classe media di essere sollevati dalla fatica di viaggi di ore verso l’ufficio all’altro capo della città, e di avere accesso allo stile di vita dei ricchi e dei famosi che possono contare su uno chauffeur personale. La Google Car ha fatto 14 incidenti in sei anni di sperimentazione, e nel luglio 2016 ci sono stati i primi feriti, per colpa di un altro veicolo guidato da un umano. Solo quando non ci saranno più macchine guidate da umani la Google Car sarà perfetta. Il programma è vasto, non c’è dubbio.
Lo “chauffeur” di Google è un esempio delle automazioni che sostituiranno il lavoro: perché affittare una persona in carne ed ossa se un robot che impara dai comportamenti umani alla velocità della luce può lavorare velocemente, in silenzio, senza esprimere domande e obiezioni? È il sogno di tutti i capi e capetti sulle linee di montaggio e in tutti gli uffici, privati o pubblici. Il problema, a questo punto, è evidente: se in futuro non ci sarà il lavoro, come saranno pagate le prestazioni sanitarie o quelle previdenziali fondate proprio sul lavoro stesso?
McAfee e Brynjolfsson sostengono che sarà l’imprenditore a garantire la copertura sanitaria versando le tasse sull’inquinamento che produce, sul consumo, e sul valore aggiunto. C’è qualcosa che non funziona in questo ragionamento. Ammesso e non concesso che il lavoro stia davvero scomparendo, è davvero difficile credere che gli imprenditori pagheranno l’assistenza sanitaria anche per chi non lavora per loro, nonché per la maggioranza degli umani che resteranno disoccupati perché le macchine li avranno sostituiti producendo profitto per l’imprenditore. Probabilmente in California esistono imprenditori che la pensano così (anche se ci permettiamo di dubitarlo), ma se una Google Car ci salverà, chi beneficerà delle sue prestazioni sarà sempre un imprenditore. Tutti gli altri non-lavoratori faranno autostop sull’autostrada: in una società capitalista, se non lavori non puoi pagarti il biglietto. E vai a piedi.
Micro-lavoratori digitali
Nel marketing aziendale sulla futurologia trattata come informazione oggettiva, a passare inosservata è la nuova divisione del lavoro. Che non è solo quella tra persona e computer, ma tra chi governa l’automazione e chi lavora nell’automazione.
Google si è affidata ai lavoratori dei dati (data workers) per “allenare” gli algoritmi che permettono anche alla Google Car di fare tutti gli incidenti che vuole e di provare ad evitarli. L’azienda, com’è noto, rifinisce in continuazione la sua ricerca degli algoritmi attraverso la guerra per il posizionamento nel ranking: i suoi ingegneri si affidano a lavoratori chiamati “raters” – cioè contrattisti che spesso lavorano ai Pc nelle loro abitazioni – per valutare la ricerca delle pagine e per classificarle. I “classificatori” possono inquadrare le pagine come “vitali”, “utili”, “abbastanza rilevanti” o “spam”. Dopodiché, gli ingegneri Google “importano” queste valutazioni nel loro algoritmo, per permettergli di comportarsi come i lavoratori da casa.
L’esempio è utile per raccontare l’emergenza dell’industria del micro-lavoro digitale, che a sua volta costituisce il vero nucleo dell’intelligenza artificiale – la forza lavoro, il lavoro vivo di cui parla Marx. L’automazione genera nuovi lavori: possono essere modesti e servili, come anche creativi e avanzatissimi. Le multinazionali tecnologiche producono nuovi tipi di dati, linguaggi, immagini, suoni. Facebook, YouTube i dati prodotti con gli smartphone, sono riprocessati e classificati dai micro-lavoratori.
Così come esistono gli addetti alle pulizie che, al termine del turno di ufficio, puliscono gli ambienti, nel “capitalismo di piattaforma” esistono legioni di “pulitori di dati” che permettono di usare i dati prodotti dall’interazione tra gli utenti e le nuove macchine.
I micro-lavoratori supportano gli algoritmi nell’apprendimento di comportamenti da adottare in ambienti umani. Semplificano cioè il processo di grandi quantità di dati, in modo tale da processarli in altre maniere: siedono davanti a terminali e trascrivono piccole clip audio, inserendo testi destrutturati nei database; moderano commenti; allineano le inserzioni Google o Facebook rispetto ai profili degli utenti; guidano gli algoritmi secondo una determinata cultura o una serie di indicatori culturali predisposti fuori dall’automazione, in modo tale che l’automazione prenda la forma richiesta. E così via.
Questo è il lavoro nascosto che permette a queste compagnie di sviluppare prodotti “intelligenti” e macchine che auto-apprendono. Così come esistono gli addetti alle pulizie che, al termine del turno di ufficio, puliscono gli ambienti, nel “capitalismo di piattaforma” esistono legioni di “pulitori” di dati che permettono di usare i dati prodotti dall’interazione tra gli utenti e le nuove macchine.
La “nuova rivoluzione”delle macchine non riconosce il lavoro di cui si nutre, senza contare il lavoro degli utenti che cooperano per migliorare la performatività degli algoritmi messi all’opera nella loro vita quotidiana. Nell’economia politica computazionale questo lavoro è centrale, e tuttavia non viene pagato se non nell’ordine di pochi centesimi per operazione. È il paradosso del lavoro gratuito. Un lavoro così invisibile che a nessuno viene in mente che lo si possa anche retribuire. Chi lo accetta non ha alternative, spera in tutt’altro, ma è costretto a farlo per il tempo necessario. Accade questo in una società in cui il denaro è importante, ma si fatica sempre di più ad ottenerlo da un’enorme quantità di attività lavorative che hanno perso valore. Questo accade in tutti i settori, anche in quelli che non passano da Google. E sono la maggioranza.
I Turchi Meccanici di Amazon
Nelle piattaforme, il lavoro è pur sempre culturale. Per rispondere alle sue esigenze molte aziende hanno elaborato procedure per abbinarlo a quello degli ingegneri che lavorano per profilare l’algoritmo in base ai suoi usi possibili. Il caso più famoso è quello di Amazon Mechanical Turk, il “turco meccanico” di Amazon che richiama il falso automa – “il Turco”, appunto – del 1700. Eppure quel riferimento etnico non sembra casuale: fa tornare in mente un’espressione in voga qualche decennio fa in Germania dove – ha raccontato Gunter Wallraff in Faccia da turco – ai turchi erano affidati i lavori più modesti, come appunto le pulizie. In questo caso si tratta di immigrati e di cittadini non solo americani, “bianchi” o “neri”, che svolgono lo stesso lavoro per l’industria dei dati e dell’automazione.
Amazon Mechanical Turk è composto da mezzo milione di lavoratori che permettono ai programmatori di avere i dati come desiderano. Gli operatori aspettano seduti davanti ai loro computer, pronti a mettere all’opera le loro capacità cognitive in base alle richieste. È un cottimo postmoderno pagato a pezzo ai nuovi contoterzisti. In questa cornice possono trascrivere codici, moderare contenuti o immagini, classificare. Amazon invia i dati processati ai suoi lavoratori che procedono sulle loro linee. Per dare un’idea al pubblico italiano, meccanismi simili esistono nei call center degli operatori telefonici. Qui da noi ci sarebbe un contratto per questi lavoratori, ma la maggioranza di queste aziende sono fuori Italia, in Albania ad esempio. Negli Usa non c’è un contratto di lavoro per i “turchi meccanici”: il loro numero dipende dal giro d’affari dell’azienda, dalla domanda, dai picchi produttivi. I lavori vanno e vengono, non scompaiono.
Le condizioni di questi lavoratori non rispondono a contratti di lavoro di categoria, né tantomeno aziendali. Si tratta di freelance che normalmente svolgono un’attività subordinata che tuttavia non viene riconosciuta. I freelance sono “contrattisti” o mercenari pagati a prestazione ipercontingentata. Sono esclusi dalla tutela di un salario minimo orario, e i datori di lavoro possono scegliere se pagarli o meno. Il general contractor può anche decidere di non intervenire nelle dispute tra i subappaltatori e i loro contrattisti-freelance. È in atto una continua sottrazione di salario basato sul giudizio sulla qualità vera o presunta della prestazione che deve soddisfare le esigenze del cliente. Il ranking di quel lavoratore – lo stesso che il cliente ignaro fornisce quando riceve il servizio o il bene richiesto online – è lo strumento di una lotta di classe a base di classifiche, giudizi, certificazioni.
I “turchi meccanici” portano a termine compiti che le macchine non sanno svolgere e che alla fine apprenderanno nell’interazione con i loro analoghi “umani”. Considerati i numeri, questo significa che il lavoro esiste eccome nella “gig economy”, l’economia al servizio del “capitalismo di piattaforma”. Ed è un lavoro servile: fino a 17 ore al giorno passate davanti al computer, senza più differenza tra giorno e notte, tra luogo di lavoro e abitazione privata, vita attiva 24 ore su 24, sette giorni su sette. L’elemento che più colpisce è l’insicurezza del salario: questi lavoratori non hanno una controparte visibile, solo ramificazioni virtuali nelle quali si annida un interlocutore a cui avanzare effettivamente le richieste di compenso. Ovviamente, tutti possono essere sostituiti senza spiegazioni.
I “non sindacalizzabili” si organizzano
In queste condizioni, da qualche tempo crescono gli esperimenti di auto-organizzazione. Ho raccontato i tentativi dei tassisti Uber qui, e tentativi sono in corso anche tra i “turchi meccanici”: la piattaforma si chiama Turkopticon, è usata dai lavoratori dal 2009, e l’ha concepita Lilly Irani (docente all’università di San Diego) insieme al ricercatore e programmatore Six Silberman.
Turkopticon permette ai “turchi” di vedere se i loro pari hanno fatto rapporto contro un datore che gli ha rifiutato un lavoro valido, ed è diventato uno strumento per combattere abusi e furti di salario. Per le mobilitazioni viene invece usato il forum Dynamo, attraverso il quale i “turchi meccanici” – per loro natura isolati e frammentati – scelgono insieme le azioni da intraprendere. Il forum è stato costruito dalla ricercatrice informatica Niloufar Salehi: nel 2013 ascoltò una conferenza di Lilly Irani e rimase stupita dalla possibilità di usare la programmazione per organizzare i lavoratori. Insieme a Irani, alla costruzione del sito hanno contributo anche Kristy Milland (portavoce di TurkerNation.com, la più antica community di Mechanical Turk) e un lavoratore che mantiene l’anonimato e che si fa chiamare “Clickhappier”. Salehi pensa che trattare gli esseri umani come algoritmi cancella quasi tutto quello che ci rende umani: “Le persone vogliono lavorare con le altre”, spiega; “vogliono crescere insieme. Vogliono dare un significato a quello che stanno facendo”.
Nella stessa California dove la Silicon Valley plasma il mondo, i ricercatori hanno insomma creato con lavoratori e attivisti una coalizione che svolge sia un ruolo sindacale che un lavoro di ricerca etnografica. È il mutualismo un secolo dopo: su queste piattaforme – raccontano Irani, Silbermann e Saheri – i “turchi” si organizzano in collettivi come TurkerNation, MTurkGrind, HITsWorthTurkingFor. Su queste nuove piattaforme condividono i lavori meglio pagati, analizzano l’organizzazione del lavoro, formano i nuovi arrivati e creano una linea di comunicazione con i datori di lavoro disponibili al confronto.
Naturalmente, quando si parla di organizzazione collettiva dei “non sindacalizzabili”, le asprezze non mancano. Ciascuno di essi è legato a una fedeltà personale al committente, altri preferirebbero non apparire e non dare visibilità alle azioni organizzate perché rischiano di far perdere il lavoro a tutti. Senza considerare che lo studio accademico dei “turchi meccanici” è diventato un lavoro a parte: solo nel 2015 si sono contati più di 800 paper di ricerca. D’altra parte, anche la ricerca accademica è una fabbrica che produce con le stesse modalità dei micro-lavoratori digitali. Questi ultimi poi, sono oggetto di un doppio controllo: nelle loro case davanti ai pc, e dai ricercatori che li studiano e li usano per i loro database. I turchi mal sopportano questo doppio sfruttamento: è stato calcolato che su una platea potenziale di mezzo milione di persone, solo in 7300 si sono lasciati analizzare. È anche vero che chi si fa analizzare come “caso di studio” per una ricerca accademica, può guadagnare tra gli 8 e i 10 dollari all’ora: molto di più di quanto si guadagna lavorando per Amazon.
Lavorare per Jeff Bezos è diventato un paradosso: si fanno più soldi a rispondere alle domande di un gruppo di universitari, che come terminali di una macchina che ha bisogno di imparare dall’intelligenza umana. La situazione è paradossale: se Amazon decidesse di chiudere Mechanical Turk, manderebbe in rovina un intero settore della ricerca accademica sviluppatasi tra gli Usa, l’Australia e l’Europa.
Su YouTube c’è anche un video in cui si comprende bene il profilo sociale e professionale dei “Turchi Meccanici”: persone che hanno perso il lavoro, oppure che vivono in zone dove il lavoro digitale è una soluzione, o che non guadagnano abbastanza e integrano il magro reddito; persone che chiedono tutele come welfare, salario minimo e pensioni. La composizione sociale di questi lavoratori è in larga parte urbana, giovane, single; politicamente sono “liberal”, molti di loro sono studenti nei college.
È insomma il mondo del Crowdwork, il lavoro-folla. Nel 2012 è stato censito in più di 100 paesi: il 70 per cento sono donne. Oggi il settore impiega 48 milioni di persone in tutto il mondo per un fatturato di 2 miliardi di dollari. Nei prossimi quattro anni aumenterà almeno di dieci volte. Ad esempio, oDesk, una piattaforma che mette in contatto freelance o lavoratori indipendenti che cercano piccoli lavori o mansioni specifiche, ha contrattualizzato 14 milioni di persone in India, molte altre negli Stati Uniti, Bangladesh e altrove. Mezzo milione di filippini è iscritto alla piattaforma ed è impiegato nell’outsourcing aziendale. Una ricerca del 2016 della Foundation for European Progressive Studies (FEPS) ha sostenuto che in Gran Bretagna sono 5 milioni i lavoratori pagati dalla cosiddetta “gig economy”, erroneamente confusa con la “sharing economy”. Tre milioni sono regolarmente impegnati nella nuova economia dei servizi. Più di un quarto (26%) dei crowdworkers sostiene di guadagnare metà del proprio reddito annuale attraverso le piattaforme online. Il 21% ha usato le piattaforme per cercare un lavoro digitale pagato. Il 42% considera la piattaforma come una necessità quotidiana. Parliamo di tassisti, lavoratori edili, graphic designers, contabili. E molti altri.
Il magico mondo dell’automazione totale
Per quanto ci dicano che siamo dentro un film alla Minority Report, viviamo per molti versi in un mondo ottocentesco: i facchini e gli operai muoiono schiacciati dai camion ai picchetti, e i nuovi posti di lavoro continuano a contarsi a migliaia nel capitalismo digitale – nella logistica, o nelle fabbriche asiatiche dell’assemblaggio dei pezzi (vedi Foxconn), ma anche nei servizi delle consegne a domicilio (Deliveroo). Ciò che è davvero in discussione, è il motivo per cui il nuovo lavoro di chi consegna, stocca, modera, crea, non emerge nella sua rappresentazione. L’automazione non è un problema in sé. Lo diventa quando viene intesa come il principale fattore che cancella il lavoro umano, ma essa stessa è il prodotto di una forza lavoro intellettuale e manuale.
Come in altri momenti della storia della tecnologia, anche in questo caso si nascondono le persone in carne ed ossa che lavorano, e si nega il valore prodotto dalle loro interazioni attraverso le macchine e dalla loro cooperazione sociale. Ciò non significa che il lavoro scompare: sono fatti sparire i lavoratori che continuano a lavorare. Noi non conosciamo il nuovo lavoro, anche perché nessuno di coloro che scrivono i libri – quelli prodotti dagli editori che permettono di essere intervistati nelle trasmissioni Tv – se ne occupa. Ma questo è il minimo: il problema sta nella rappresentazione stessa del lavoro oggi. La sua opacità è il risultato della liquidazione della forza lavoro, cioè la soggettività di chi vive e lavora. E tale liquidazione può avvenire fingendo che le macchine, i beni e le merci a nostra disposizione si siano magicamente… create da sole.
Ogni like su Facebook, ogni acquisto su Amazon, ogni ricerca su Google, sembrano venderci un sogno per cui droni, servizi online e auto-che-si-guidano-da-sole, possono magicamente autorealizzare l’immaginario delle macchine che soddisfano i desideri degli umani.
È il vecchio trucco di considerare il lavoro come un “prodotto naturale”: se esiste una merce è perché la si trova sugli alberi come le mele, o sottoterra come le zucchine. Salvo poi considerare l’eventualità che sia le mele che le zucchine abbiano bisogno di lavoro per essere seminate, crescere, essere raccolte e commercializzate.
Arthur C. Clarke ha scritto che qualsiasi tecnologia sufficientemente avanzata basta per generare una rappresentazione del futuro molto simile alla magia. Ogni like su Facebook, ogni acquisto su Amazon, ogni ricerca su Google, sembrano venderci un sogno per cui droni, servizi online e auto-che-si-guidano-da-sole, possono magicamente autorealizzare l’immaginario delle macchine che soddisfano i desideri degli umani. Viene fatto credere che nel capitalismo delle piattaforme non ci sia spazio per il lavoro, e che il futuro è il frutto di una macchina anonima governata da algoritmi intelligenti. La macchina mitologica funziona a pieno ritmo e ha generalizzato il feticismo della merce nel mondo digitale: l’unico rapporto sociale possibile è quello fantasmagorico tra le cose, le macchine, gli algoritmi.
Per Kristy Milland di TurkerNation.com, sempre più mansioni vengono sottratte ai lavoratori professionali per essere affidate alla “folla”, cioè lavoratori non qualificati che li sostituiscono attraverso l’interazione con gli algoritmi. Il lavoro insomma non è finito: al contrario, è sempre di più. Solo che è senza tutele. E viene pagato meno.