Fonte: l'Espresso
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di Giovanni Tizian 8 settembre 2016
Le talpe continuano stancamente a scavare. Ma nessuno crede più a un modello di “grande opera” superato dai fatti. E dal buon senso. Anche perché, dopo il terremoto, quei soldi potrebbero essere utilizzati per rimettere in sicurezza il Paese
La gigantesca fresa “Federica” mastica senza sosta le rocce del Moncenisio. Come una talpa, si fa largo nella pancia delle Alpi Cozie per scavare la galleria in direzione dell’Italia della contestatissima linea ad Alta velocità Torino-Lione. Arteria strategico del Corridoio Mediterraneo, l’autostrada ferrata che dovrà collegare Algeciras all’Est Europa. Federica ha grandi e affilati denti metallici. Maciulla pietra carbonifera a velocità supersonica. Con la medesima rapidità sputa i detriti su un nastro nero che li trasporta all’esterno. “Welcome to Tunnel Land”, recita l’annuncio sul manifesto sopra il container dell’accoglienza del cantiere di Saint Martin de la Porte, minuscolo comune di 727 abitanti nella Savoia. Qui la grande opera del Tav sta già prendendo forma. Ufficialmente è un tunnel geognostico, al pari del gemello italiano, ma una volta esaurita questa funzione diventerà il “tubo sud “che sbucherà in Val Susa. Per ora è un buco orizzontale di circa 250 metri dove operai, ingegneri e tecnici, stanno lavorando alla linea ferroviaria che taglierà in due la valle e bucherà le possenti montagne.
La grande opera per eccellenza, il ponte di Messina del Nord. E il paragone non è poi così azzardato se consideriamo i costi previsti. L’infrastruttura della Valle costerà 8,6 miliardi di euro, cifra destinata a crescere con gli adeguamenti futuri. E 8 e passa miliardi sarebbero serviti per unire le due città dello Stretto. Quanti borghi e città avremmo reso anti sismici con tutti questi quattrini pubblici? Ma se i piloni del Ponte non ci sono, la talpa in Val Susa sì. Dal lato italiano del confine, Federica ha una sorella più anziana, Gea. Meno bella e appariscente, costretta in uno spazio più angusto di soli sei metri di diametro. Con temperature che possono superare i 40 gradi e l’umidità che rende l’aria irrespirabile. Quando entriamo con il trenino e arriviamo in fondo ai quasi sei chilometri, sembra un girone degli inferi. Noi risaliamo, i cinque operai lavorano da due ore e dovranno restarci ancora per sei. Questi tunnel serviranno a studiare i dati geologici dei massicci. Il primo passo verso la realizzazione della galleria definitiva, che dovrebbe sorgere di poco a lato. La fresa è partita a novembre 2013 e finora ha percorso 5, 6 chilometri. Le mancano ancora due chilometri per andare in pensione.
FORTINI, CHECK POINT E FILO SPINATO
Il cantiere di Gea è in Clarea, a Chiomonte, pochi chilometri da Susa. Lo raggiungiamo percorrendo un’incantevole tratto della via Francigena. Seguiamo la direzione Santiago de Compostela. In questo paradiso naturale convivono frammenti preistorici e ricordi della seconda guerra mondiale. Ci sono le grotte del neolitico. E una necropoli della stessa epoca, ora inglobata dalle recinzioni del super cantiere. La Clarea è stata anche un fortino partigiano nella Resistenza. Dal 2012, invece, è zona militare a tutti gli effetti, dopo che il cantiere è stato classificato “area strategica di interesse nazionale”. Sigla istituzionale che ne ha legittimato la blindatura e le spese folli. Muraglia di cemento e filo spinato, spesse reti metalliche, centinaia di poliziotti e altrettanti soldati, mezzi dell’Esercito, sistemi di intercettazione video, per bloccare le incursioni dei militanti No Tav. Per accedere nel fortino è necessario superare tre check point. Una piccola Palestina alle pendici delle Alpi. Tutto questo ha, ovviamente, un costo extra. Le tre forze di polizia schierano 200 persone al giorno. Pagate per la missione. Alcuni sindacati hanno calcolato una spesa giornaliera di 50 euro ad agente, per una spesa mensile di 300 mila euro. Dal calcolo sono esclusi i militari dell’Esercito, circa 400.
QUOTA ITALIANA AL 57 PER CENTO
«La fresa Federica ha cominciato a scavare i primi 9 chilometri in direzione dell’Italia», racconta Mario Virano, direttore della società Telt, società pubblica per la realizzazione e la gestione dell’infrastruttura. «È il test più importante», continua Virano, «perché è una zona di rocce carbonifere che tendono a richiudersi anche di due metri. La galleria svolgerà la funzione geognostica, ma una volta esaurita tale funzione diventeranno i primi 9 chilometri del “tunnel sud” del progetto definitivo. Attualmente dei 160 chilometri da realizzarsi (114 di canne, sud e nord, più le traverse intermedie) abbiamo già scavato il 10 per cento e sono stati contrattualizzati lavori per il 20 per cento».
Il costo totale previsto, dicevamo, sarà di 8,6 miliardi. Cifra certificata da un ente terzo, ripetono con orgoglio negli uffici di Telt. Difficile credere che fino al 2029, data in cui è previsto il test e il periodo di pre esercizio della linea (entrerà in funzione, quindi, non prima del 2030), non lieviti come in ogni grande opera che si rispetti. Anche perché, per esempio, il nuovissimo traforo del Gottardo, con identiche lunghezze e identica tecnologia, è costato 11 miliardi. All’Italia toccherà la realizzazione di soli 12 chilometri di tunnel transfrontaliero, mentre i francesi ne realizzeranno 45. Tuttavia, escludendo il finanziamento europeo – pari al 40 per cento del totale – il nostro governo dovrà sborsare più quattrini pubblici rispetto ai transalpini. Strane alchimie. La quota pura, senza sostegno di Bruxelles, è infatti ripartita in 57 per cento Roma e 42 per cento Parigi. Con l’aiutino, sborsiamo comunque più degli altri.
PROSSIMO OBIETTIVO: 2019
C’è una data cruciale nei piani dei vertici Telt. È il 31 dicembre 2019. «A quella data dovranno essere realizzati lavori per almeno 1,9 miliardi, l’Europa ne finanzierà il 40 per cento», spiega Virano, secondo cui la grande opera sta impiegando 800 persone, di cui 200 nel cantiere militarizzato di Chiomonte. Che rispetto ai poliziotti e ai militari di stanza lì sono comunque in minoranza. «Molte maestranze provengono dal territorio, da Susa e da Torino», sottolinea più volte. Virano fa una breve pausa, riprende fiato mentre il furgone nero prosegue il tragitto nella pancia del tunnel, per poi aggiungere:«Nel 2017 partiranno altri lavori complementari, ad esempio lo spostamento dell’autoporto di Susa. Allo stesso tempo bandiremo le gare per l’aggiudicazione dei lavori veri e propri delle gallerie di base». Si parla di 9 lotti e altrettante talpe meccaniche in azione. L’obiettivo è spendere 2 miliardi, di cui 813 milioni dati dall’Europa, entro il 2018.
SENZA OSPEDALE
Un fatto è però evidente passeggiando per i centri storici dei paesi della Valle. Gianfranco, ex maresciallo dell’aeronautica, è seduto su una panchina di corso Trieste a Susa. E riassume così il malessere di una comunità: «È un progetto imposto, un’opera di cui nessuno sente l’esigenza. Qui a Susa hanno chiuso il reparto di ginecologia e ostetricia. Le nostre donne devono percorrere 50 chilometri fino a Rivoli, col rischio di partorire sulla corsia di sorpasso dell’autostrada. Per il Tav i quattrini si trovano. E per la sanità pubblica?». Gianfranco esprime ciò che la gente comune, non per forza radicata nel movimento, pensa. E cioè che lo Stato, costretto a militarizzare un cantiere per imporre un’infrastruttura miliardaria, sordo alle voci di dissenso, abbia, in fondo perso. E dopo 25 anni, tra progetti archiviati, lavori rimandati, scontri e repressione, di certo chi si sente vittorioso è il movimento. Bandiere bianche No Tav le troviamo in Sicilia, nei presidi degli attivisti No Muos. A Venezia contro le grandi Navi. A Vicenza nei comitati No dal Molin. A Firenze tra chi si oppone alla costruzione del tunnel tav in città. A Ventimiglia e al Brennero in solidarietà con i migranti bloccati alle frontiere. Il vessillo della Val Susa sventola in Francia, a Nantes, dove vogliono realizzare un secondo aeroporto. E in Grecia e Spagna. Il movimento è un marchio di esperienza. Diventato un brand da adottare ogniqualvolta un territorio, la natura, una comunità diventi obiettivo di speculatori privati o statali. Anche nei paesi terremotati, dall’Emilia a quelli del centro Italia, i No Tav della Val Susa hanno fatto sentire la loro presenza. Nei giorni in cui “l’Espresso” era in viaggio in Val Susa da Bussoleno partiva un furgone bianco carico di aiuti per gli sfollati di Amatrice, Accumuli, Arquata e Pescara del Tronto. E a breve lanceranno una raccolta fondi. La logica di questa resistenza a oltranza è una sola: «Le uniche grandi opere utili sono le piccole opere per mettere in sesto il Paese, che si sta sbriciolando», dice Alberto Perino, volto storico del movimento. Non c’è governo che nei giorni terribili del post terremoto, quando ancora si cercano dispersi e vittime, non annunci miracolosi interventi anti sismici e stanziamenti miliardari per la sicurezza degli edifici. Promesse di routine, riproposte a ogni tragedia, a ogni calamità. Altre le priorità. Il cantiere Tav, una di queste. PresidioEuropa, costola internazionale dei No Tav, fa una proposta concreta: «Il trasferimento dalle prossime settimane dei fondi europei già allocati per questo progetto – 813 milioni e più – alla messa in sicurezza degli edifici, a partire da quelli immediatamente cantierabili, nelle zone a rischio sismico in Italia», ragiona Paolo Prieri, il responsabile gruppo, che aggiunge: «Certe opere di fronte all’emergenza post sisma nel centro Italia risultano ancor più insensate».
NON CI SONO BUONI E CATTIVI
«Il ritardo del treno veloce sulla tabella di marcia è il simbolo della nostra vittoria», si illumina Paolo Perotto, storico militante del movimento, che conosce la Clarea meglio di chiunque altro. E lui che ci porta lungo la via Francigena. Passo dopo passo arriviamo nell’ultimo presidio realizzato al confine con i 7 ettari del cantiere di massima sicurezza. «Da qui non ci possono sgomberare, abbiamo comprato il terreno, dividendoci le quote in 1.500 persone». Un tempo, dove ora passano i camion, c’erano castagni secolari. «Sradicati con le ruspe e lasciati con le radici al sole a soffrire» si scalda Perotto. Lui fa parte dei cattolici No Tav. Ogni venerdì risalgono il sentiero per pregare davanti alle reti, con i militari che li guardano con sospetto. Paolo ha 74 anni, non è un terrorista. Per la procura di Torino sarebbe stato in grado di aggredire ben quattro poliziotti armati di scudo e caschi. «Dal video si vede benissimo che io ero fermo, semmai è accaduto il contrario». Quando ricorda quei fatti dai suoi occhi scorrono lacrime di amarezza. «Trattato come un criminale. Ma questi che all’apparenza sembrano segni di forza sono in realtà segnali di debolezza del potere».
Dissentire in Val Susa è pericoloso. Gli indagati del movimento sono più di mille. Di tutte le età. Giovani nel pieno delle forze e anziani che fanno fatica a camminare. Lasciamo il presidio di Clarea per andare in quello di Venaus. Fino all’auto ci guida tra boschi Eugenio, precario che da Milano si è trasferito in valle. «Siamo tutti dalla stessa parte, hanno tentato di dividerci in buoni e cattivi. Noi i bravi cittadini e i black block venuti dai centri sociali. Hanno prima indirizzato la repressione su di loro, e ora tocca a noi». A Venaus ci aspetta Fausto Tapparo, 64 anni, ai domiciliari in via preventiva in attesa di un processo. Lo accusano di aver partecipato a un’azione violenta contro il cantiere di Chiomonte insieme ad altre 20 persone. Per dire, uno di loro è accusato di aver raccolto e allontanato un lacrimogeno. Tapparo in attesa di giudizio ha eletto il domicilio per gli arresti nel presidio No Tav. È lì che trascorre i suoi giorni, tra caffè, partite a pinnacolo e lettura. Ci racconta di quando la polizia ha arrestato il barbiere di Bussoleno e gli altri colleghi concorrenti del paese hanno fatto a turno per tenergli aperto il negozio. Solidarietà che la repressione non ha disintegrato. Gli anni passano. Ma in Val Susa tre generazioni continuano la guerra per difendere le loro montagne.